La burocrazia non è un virus (per una diagnosi corretta del problema)
Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Matteo Repetti
Premessa: avete mai sentito qualcuno – soprattutto in questi ultimi tempi tribolati – esprimere un’opinione genericamente a favore della burocrazia? E tuttavia, avete per caso avuto la percezione che il fenomeno burocratico, la pervasività degli uffici pubblici, delle procedure, dei pareri, dei subprocedimenti, dei rimandi, delle fasi integrative d’efficacia, e via discorrendo, abbia registrato – non si dice un’inversione di tendenza – ma un qualche semplice rallentamento?
Se le cose stanno così, se tutti a parole vogliono contenerla e contrastarla e invece la burocrazia cresce più rigogliosa che mai, bisogna provare a fare qualche ragionamento fuori dall’opinione corrente.
Intanto per cominciare, è bene ricordare che nel nostro ordinamento la pubblica amministrazione, sia quella centrale che gli enti locali, così come ogni sua articolazione e diramazione, ha un suo statuto differenziato – e privilegiato – rispetto ai soggetti privati. Il provvedimento amministrativo è dotato di prerogative particolari, in termini di cd. imperatività ed esecutività. E gli enti pubblici hanno addirittura un loro giudice speciale (il giudice amministrativo appunto, i TAR ed il Consiglio di Stato).
Non è così dappertutto nel mondo; in particolare il diritto amministrativo per come lo conosciamo noi è sconosciuto agli ordinamenti anglosassoni, in cui storicamente la P.A. non raggiunge la nostra ipertrofia (che per la verità non ha equivalenti neppure negli altri ordinamenti continentali …).
Da un punto di vista occupazionale, infatti, il comparto pubblico in Italia si compone di una miriade di soggetti e diramazioni: si va dai ministeri e dalle amministrazioni centrali alle sue articolazioni territoriali, alle forze armate, alla sanità, alla scuola, agli organismi ed enti pubblici di vario tipo, alle regioni ed alle amministrazioni locali, ecc..
C’è poi il cd. comparto para-pubblico, che rimane spesso fuori dalla contabilità ufficiale (ed in particolare ciò che è stato interessato da processi di privatizzazione solo formale a partire dagli anni ’90); si tratta di funzioni e servizi solo apparentemente esternalizzati ma comunque sempre riconducibili al comparto pubblico e rigorosamente a carico del contribuente: agenzie fiscali, enti pubblici economici, enti di ricerca, società partecipate, enti previdenziali ed assistenziali, fondazioni culturali, ex municipalizzate, società cd. in house di servizi pubblici, ecc.. E’ un arcipelago praticamente sterminato, rispetto al quale non ci sono dati ufficiali, come se la presa di realtà di un fenomeno così pervasivo e generalizzato non fosse sostenibile, psicologicamente ancor prima che finanziariamente.
Storicamente, poi, in Italia è fortissimo un diffusissimo sentimento anticapitalistico ed anti-impresa, disconoscendosi dalle nostre parti l’evidente circostanza fattuale per cui il valore, la ricchezza è prodotta dalle aziende (e solo un attimo dopo è eventualmente possibile redistribuirla).
A fare da contraltare a questa arcaica mentalità viene generalmente riconosciuto e giustificato un gigantesco potere di intermediazione nelle attività economiche da parte della mano pubblica (partendo dalla immanente necessità della sempre invocata “politica industriale” alla individuazione di incentivi e bonus di ogni tipo che abbiamo sperimentato anche in quest’ultima fase di emergenza sanitaria, passando per le politiche lato sensu redistributive).
Si aggiunga che nel nostro paese c’è da sempre una eccessiva proliferazione normativa e regolatoria. Non è scritto da nessuna parte che debba essere necessariamente così. Le persone sanno in genere cosa è giusto e cosa è sbagliato, quello che si deve o non si deve fare: nelle famiglie non ci sono disposizioni scritte per regolare i comportamenti dei propri membri (se mia figlia non vuole fare i compiti probabilmente devo evitare di fornirle un accurato decalogo con l’indicazione delle punizioni conseguenti); nei posti di lavoro, se il clima è buono e produttivo non c’è bisogno di regole di condotta dettagliate; sull’autobus, la buona educazione è forse più importante delle minuziose condizioni generali del contratto di trasporto; la pedante normativa anticorruzione – che sostanzialmente si risolve nella richiesta agli interessati una sorta di autocertificazione di virtuosità – garantisce effettivamente dai comportamenti illeciti?
E’ un atteggiamento – tra l’autoritario ed il paternalistico – che in ultima istanza denota una certa sfiducia nel genere umano e nella sua capacità di autoregolamentazione. Le 7 versioni del modello di autocertificazione elaborate dal governo per le uscite da casa durante il recente lockdown ne sono solo una delle ultime applicazioni.
Insomma, nel nostro paese la burocrazia non è un accidente, non è un virus (se fosse così saremmo forse più attrezzati a combatterla).
La sua pervasività e sostanziale irriformabilità deriva dalla sovrapposizione e saldatura di piani diversi: c’è la giustificazione dello statuto privilegiato degli uffici pubblici e del diritto amministrativo; si passa per il “teniamo famiglia” di chi, a vario titolo, è pubblico dipendente e/o rientra nel cd. comparto pubblico allargato; trova un formidabile alleato nel nostro fortissimo sentimento anti-industriale; e, fondamentalmente, riposa sulla sfiducia rispetto al genere umano ed alla sua capacità di autoregolamentazione, per la quale è sempre ritenuto necessario una disciplina puntuale, un regolamento, un parere, una verifica, una presa d’atto.
Se queste cose non vengono dette è illusorio pensare di essere sulla strada giusta per trovare dei rimedi.
Ottime considerazioni a cui si può aggiungere che la burocrazia, concetto di per sé positivo in quanto un’organizzazione sociale fondata su buone regole – ché di ciò in fondo si tratta – è necessaria per superare la semplice organizzazione tribale, proprio per via della diffusa sfiducia nel genere umano si amplia e assume connotazioni patologiche nella burofilia e addirittura nella buromania.
Patologie di cui non ha senso provare a curare i sintomi, come esprime perfettamente la conclusione sulla necessità di prendere coscienza dei concetti ottimamente espressi nell’articolo per non coltivare sterili illusioni!
Grazie