1
Lug
2011

La Boetie e/o Micromega?

Forse l’ideale sarebbe sentire l’attualità come il brusio fuori della finestra,
che ci avverte degli ingorghi del traffico e degli sbalzi meteorologici,
mentre seguiamo il discorso dei classici che suona chiaro e articolato nella stanza
.
Italo Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori, 1995

Ha ragione Carlo Lottieri a rallegrarsi che il Discorso sulla servitù volontaria, intramontabile pamphlet scritto da Etienne de La Boétie nel XVI secolo, vanti ora una nuova edizione italiana per i tipi di Chiarelettere, dopo svariate edizioni apparse negli ultimi due decenni.Sapere che una sferza letteraria alla tirannia e alla indolenza con cui ad essa ci si abitua viene ogni tanto riproposta nelle librerie italiane non può che essere una notizia positiva per la divulgazione di un pensiero critico della libertà e dei suoi nemici.

Tuttavia, come ogni classico, il testo di La Boétie può essere letto secondo un’infinità di diverse prospettive e interpretazioni, e le varie edizioni italiane nascondono forse intenti diversi, spiriti editoriali persino opposti, animati dal desiderio di provocare discorsi critici differenti.

Prendiamo, ad esempio, l’edizione del Discorso pubblicata nel 2004 da Liberilibri – alla cui lettura si viene guidati dall’introduzione che Murray N. Rothbard scrisse per l’edizione americana del 1975 e dalla postfazione di Carlo Lottieri e Nicola Iannello – e quella ultima di Chiarelettere, che invece è accompagnata da una introduzione di Paolo Flores D’Arcais.

L’edizione del 2004 è stata pensata per divulgare un pensiero di filosofia politica radicale sul «mistero dell’obbedienza civile». Come sottolineano Lottieri e Iannello nella postfazione, dare al pamphlet di La Boétie l’interpretazione che ne diede il padre del libertarismo contemporaneo Murray Rothbard ha precisamente lo scopo di offrire ai lettori una domanda e alcuni spunti di risposta: perché l’uomo obbedisce all’altro uomo? E quindi: quale forza lo incatena all’obbedienza, elemento ultimo e necessario del potere? Perché si rende volontariamente servo del potere, in qualsiasi forma (democratica o demagogica, monarchica o tirannica, aristocratica o oligarchica, etc.) si manifesti?

Leggere La Boétie tenendo a mente la sua formazione, il contesto storico nel quale visse, la sua visione del mondo conduce Rothbard a concentrare l’attenzione sul problema filosofico-esistenziale del rapporto tra governanti e governati, sull’intramontabile enigma del potere che si perpetua e rafforza attraverso l’indulgente obbedienza dei sottoposti, sul rapporto di amore e odio, verrebbe da dire, tra “potenti” e “umili”. L’introduzione di Rothbard costituisce essa stessa un classico, riferibile a qualsiasi epoca e luogo, in grado di superare il contingente e consegnare una lettura universalistica del pamphlet. Da teorico della libertà, egli insiste – sempre sul piano filosofico-teoretico e senza mai scendere nel contingente, in piena sintonia con il metodo speculativo e astratto del Discorso – sulla predilezione di La Boétie alla libertà quale valore ultimo, punto di riferimento di ogni individuo, approdo a cui tendere – anche se, forse, senza mai poterlo raggiungere appieno – attraverso un’opera di desacralizzazione del potere, di resistenza culturale in primo luogo, resistenza per la quale nei secoli il Discorso ha fatto la sua parte. Non a caso, vi è chi ha definito l’Autore un anarchico, poiché nella sua diffidenza verso il potere non distingue i mezzi con cui viene conquistato e esercitato, ma equipara ogni forma di coercizione ad una forma di tirannia, e anzi sottolinea i pericoli di un dispotismo legittimato da un benevolo consenso del popolo, frutto di «ideologia speciosa, mistero, circenses e panem», strategie queste utilizzate ad ampie mani da ogni Stato moderno. La preoccupazione di La Boétie non è dunque mantenere la libertà nei confronti di un orientamento politico, di una particolare ideologia dominante e tanto meno di uno specifico governo, quanto piuttosto di mantenerla nei confronti di quel potere statale che iniziava ad essere teorizzato, quale struttura legale sovrana, proprio nel XVI secolo.

Nell’edizione della Liberilibri, dunque, lo scritto di La Boétie emerge come un classico sui diritti naturali di libertà contro le forme istituzionalizzate di potere, che dal XVI secolo in poi appariranno sempiterne, ma che sono in realtà artifici di coercizione quali che siano la loro fonte di legittimazione e gli strumenti che adottano per mantenerla.

Nell’edizione di Chiarelettere, invece, l’opera viene presentata da Paolo Flores D’Arcais come «pensiero militante, così è stato infatti tutte le volte che il movimento reale lo ha sottratto all’oblio. Chi non riesce a ri-leggerlo sotto la specie dell’attualità militante non riesce a leggerlo neppure come classico».

Certo, il Discorso, come si è detto, ha ispirato pensieri e azioni di resistenza e disobbedienza nei secoli successivi, ma ciò in quanto, al pari di ogni classico, esso «provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso» (Calvino). De La Boétie consegna le sue riflessioni agli eventi contemporanei, pur potendo farne a meno e servire, più puramente, a risvegliare una coscienza critica del potere come discorso di filosofia politica, più che di attualità politica. Flores D’Arcais suggerisce invece al «lettore dell’Italia di oggi» di vedervi «un prepotente e irresistibile “de te fabula narratur”, sottolineando come esso scriva “anche di “ruffiani delle sue dissolutezze e soci delle sue ruberie”!», e dimostra con ciò un diverso intento editoriale, un diverso modo di utilizzare il classico del Cinquecento per altri fini, rispetto a quelli di divulgare un seme di pensiero libertario. Fini più nostrani, destinati probabilmente a esaurirsi nel giro di pochi anni, mentre il Discorso continuerà a ispirare nei secoli a venire una coscienza critica del potere e della libertà incuranti delle attuali vicende di casa nostra. Qual è l’intenzione editoriale concentrata sull’hic et nunc traspare nell’invettiva in introduzione contro la «trinità di denaro-potere-successo», che non compare nello scritto di La Boétie ma che si presta, secondo Flores D’Arcais, ad essere estrapolata dalle sue pagine.

La formula per resistere al potere non diventa allora, come per Rothbard, la diffusione di un pensiero e di un’azione libertari, quanto «l’orizzonte dell’eguaglianza radicale», «l’abrogazione generale del privilegio», la presa d’atto della «irrefutabile separabilità» di democrazia e capitalismo, l’ammissione che «il liberismo, terra promessa oltre le macerie del Muro [di Berlino], si è confermato dismisura di disuguaglianze e dissipazione di libertà». La cura deve quindi essere, per Flores D’Arcais, «un sistema onnnipervasivo di incompatibilità giuridica tra cariche e funzioni, politiche finanziarie, mediatiche» e, su tutto, la fine della «disinformazione» e dell’«infotainment» dei media.

Se è vero che «è classico ciò che tende a relegare l’attualità al rango di rumore di fondo, ma nello stesso tempo di questo rumore di fondo non può fare a meno» (Calvino), le due edizioni del Discorso qui raffrontate paiono aver dosato in maniera molto diversa la lettura del testo sul piano della filosofia politica la prima, e di uno spazio geografico e temporale molto più limitato la seconda, per arrivare peraltro a dare un’interpretazione quasi opposta del Discorso come appello alla libertà radicale, nel primo caso, e all’uguaglianza radicale, nel secondo.

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10 Responses

  1. André

    Non riesco ad immaginare una lettura più distonica rispetto allo spirito originale di La Boétie – di quella di Flores D’Arcais. D’accordo i classici si prestano a nuove ed innovative interpretazioni ad ogni rilettura. D’accordo scegliere un orizzonte temporale di assoluta contingenza. Ma accostare il Discorso con una visione negativa della caduta del muro di Berlino è roba da falsari pluripregiudicati (per restare in tema Micro-Mega). L’esistenza del privilegio e della disuguaglianza è prerequistito essenziale per una società libertà. Se non entra in testa questo, c’è poco da discutere. Ognuno gode di una serie di privilegi assoluti sul proprio corpo e sui propri possedimenti. E in virtù di questi privilegi, la società si struttura nei modi diseguali già segnalati da Pareto. Qualunque intervento coercitivo per contrastare, bilanciare, rettificare questi dati di natura si traduce in un’inevitabile servitù di alcuni a beneficio di altri. L’appartato ipertrofico di gendarmi, magistrati e legislatori – feticcio di certa gente – è proprio l’incarnazione di questa oppressione, contraria alla spontanea e pacifica organizzazione degli uomini, a cui i molti misteriosamente si adattano. La quiescenza di fronte a tale servitù imposta CONTRO NATURA è la radice dell’ignavia denunciata da La Boétie. Ignavia assolutamente indispensabile affinché i progetti egualitari e forcaioli di Floris possano realizzarsi nel presente.

  2. Sul tema specifico il commento della professoressa Sileoni mi sembra definitivo. Vorrei fare una considerazione più generale, a seguito della lettura del commento di Bidussa. La questione che si ripresenta è sempre la stessa : Cosa significa interpretare? E’ l’eterna questione che ha separato sadducei e farisei circa la Torah, originalisti ed interpretativisti circa la Costituzione USA, cattolici e evangelici circa il posto della Tradizione, Rothbard e Flores D’Arcais circa il nostro libro. E’ un problema che i giuristi conoscono bene, ma che ritroviamo anche nella musica: Glenn Gould ne parla ed ogni direttore d’orchestra ha affrontato la questione. Più a fondo la domanda è la stessa di Pilato: Cos’è la verità? Se leggiamo il commento di Bidussa vediamo che il tema di fondo è proprio questo. Siamo a “libertà e fede”. Ma dopo aver gettato il sasso, furtivamente mi ritraggo.

  3. ALESSIO DI MICHELE

    A questo punto il grande Totò diventa un economista e filosofo della politica: con ” ‘ A livella” ci ricorda che gli uomini hanno l’ eternità per sperimentare l’ uguaglianza, ma prima non ce n’ è per nessuno (per fortuna !). E quindi: sperimentiamo l’ uguaglianza anche di qua dallo specchio con una bella valanga di coercizioni (e, quindi, alla lunga, di morti); ad esempio: Pol Pot, Hitler, Stalin, …, quelli sì erano egualitari !

  4. Alberto

    Certo, l’orizzonte dei Flores è quello che possono vedere fuori dalla finestra ed ecco che la loro interpretazione del La Boetie ha il valore che ha. Per questa gente la letteratura e la storia iniziano nel Novecento (per finire subito dopo), che volete che ne sappiano di un autore del XVI secolo ? Al piu’ lo possono leggere con gli occhi foderati della loro stessa ideologia, come un fatto puntuale, non certo avvolto dal respiro della Storia. Per costoro la Storia procede per cesure, sono strutturalmente incapaci di vederla come un continuum. Non arrivano nemmeno a comprendere in quale ambito culturale vivesse il La Boetie. Nel XVI secolo vi era anche la Scuola di Salamanca ove Francisco de Vitoria (la Carta dei diritti degli indios), continuando l’opera di Agostino e di S. Tommaso d’Aquino, cominciava a proiettare la Chiesa oltre l’epoca della Cristianità, la quale ultima, non dimentichiamolo, fu quella che vide ovunque la Chiesa opporsi alla tirannia dei poteri imperiali. Con l’apparire di nuovi mondi si trasformava anche l’epoca della Cristianità ma non il suo pensiero: ora non era piu’ soltanto la Chiesa, che pur l’aveva inventata, a battersi per la libertà dell’individuo dalla tirannia. Con il contemporaneo disvelarsi di nuovi continenti e di nuove religioni nasceva anche il pensiero laico, figlio (minore) del pensiero del mondo della Cristianità, che era l’unico conosciuto sino a quel momento. Quisquilie, nella testa dei Flores. Infatti, com’è noto, la democrazia è nata tra le foreste del Borneo e nei vasti territori della Mongolia.

  5. ALESSIO DI MICHELE

    La chiesa che, soprattutto nel ‘500, mentre massacrava indios, maia & co., si batteva “per la libertà dalla tirannia” ? Beh, certo Giordano Bruno fu liberato dalla tirannia, ma l’ argomento è ancora “scottante”. Ma mi faccia il piacere !

  6. Luciano Pontiroli

    @ALESSIO DI MICHELE
    Forse indios, maya, eccetera erano massacrati dallo stato, le poche voci critiche erano proprio di ecclesiastici …cerchi di informarsi prima di parlare come Totò (Antonio De Curtis, non Riina).

  7. Alberto

    Carissimo Signor Di Michele, Le ha già risposto il Signor Pontiroli e, pertanto, desidero solo precisarle che Francisco de Vitoria, che scrisse la Carta dei diritti degli indios, era un frate domenicano … Se avesse la pazienza (e la capacità) di andarsela a leggere scoprirebbe che la Chiesa aveva scritto la Carta dei diritti dell’uomo all’incirca quattrocento anni prima che il pensiero laico vi ponesse mano. Che dire …

  8. ALESSIO DI MICHELE

    Ancora c’ è chi cade in ciò che la Chiesa dice ! Guardate cosa invece FA, e, se non ci arrivate, chiedete a Galileo, agli indios massacrati con la benedizione dei preti, ai catari, agli assedii “sterminate, tanto dio sa chi è fedele e chi no”, alla storia di “MIssion”, alle streghe sul rogo, alla sessuofobia. Usate un metodo un po’ più galileiano (che non vuol dire “mostrare i ferri” per ottenere le ritrattazioni).

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