L’Opera al cinema: diffondere cultura e fare quattrini
Ignaro della durata del Siegfried ho accettato l’invito a prendere parte a questo bellissimo esperimento sbarcato quest’anno anche in Italia: la programmazione del Metropolitan Opera di New York in HD in diversi cinema del nostro Paese. Contenuti del Met e distribuzione di Nexo Digital.
Oltre a ignorare la durata dell’opera (5 ore e 30 minuti!) le mie conoscenze su Richard Wagner erano molto limitate. Per me Wagner è: il protagonista di una splendida battuta pronunciata in un film di Woody Allen (“Quando vado all’Opera a vedere Wagner proprio non ce la faccio: dopo 10 minuti mi viene voglia di invadere la Polonia”) e l’autore de “La cavalcata delle Valchirie”, musica che accompagna l’arrivo degli elicotteri in “Apocalypse Now” di Francis Ford Coppola.
Detto questo, sulla qualità della produzione mi limito a riportare i giudizi dei presenti in sala: superba, straordinaria, ecc. Per quanto mi riguarda, invece, sposterei l’attenzione non su considerazioni di carattere “estetico” (che lascio per mia incompetenza ai musicologi) ma sull’evento in sé. Da alcuni anni il Met ha chiuso accordi per proiettare in diversi Paesi la propria programmazione. In totale 54 Paesi. I cinema nel mondo che ieri hanno proiettato il Siegfried sono stati 1600, di cui 40 in Italia. Una platea incredibile… L’idea è quella di fare uscire, attraverso l’utilizzo della tecnologia, la musica colta dai suoi recinti naturali (il teatro), per farla sbarcare ovunque possibile. Anche il contenuto è pensato per adattarsi al meglio alle nuove opportunità. Quello che si vede sul grande schermo non è un rettangolo fisso e immobile, una unica inquadratura immutabile. No, la regia è mossa, fatta di primi piani e movimenti di macchina. Diverse telecamere sono puntate sul palco, sull’orchestra e sulla platea. Tutto questo vivacizza la visione, e crea un ibrido fra una produzione per il teatro e una pensata per il cinema. Gli intermezzi fra i vari Atti sono riempiti da interviste nel “dietro le quinte”. La qualità del suono e dell’immagine è poi particolarmente elevata.
Il Met incamera una percentuale sugli incassi di ogni cinema. Molti appassionati possono seguire qualcosa che avviene a chilometri e chilometri di distanza. Un nuovo pubblico può venirsi a creare grazie ai bassi prezzi dei biglietti, al valore culturale della proposta e al mezzo utilizzato (le sale cinematografiche). Insomma, le esternalità positive della diffusione di cultura, su maxi-schermi (sgranocchiando pop-corn) e senza finanziamenti pubblici.
Quest’ultimo è un aspetto che mi ha sorpreso. Dando un’occhiata al report annuale del Metropolitan Opera si trovano numeri che si prestano a più considerazioni. Innanzitutto il fatto stesso di trovare una rendicontazione così puntuale sull’attività di un teatro è da noi cosa assai rara (provate a cercare i bilanci delle nostre Fondazioni lirico-sinfoniche…). Nel 2009 le entrate derivanti dall’attività del Met sono state pari a 153,8 milioni di dollari. Di questa cifra, 98 milioni provengono dal box office e 22 dagli accordi stipulati con i vari media (sale cinematografiche incluse). Sempre nell’anno fiscale 2009, i contributi ricevuti sono stati pari a 127 milioni di dollari. Di questi, 108 milioni riguardano contributi individuali di persone, 15 milioni da fondazioni e imprese private. Sapete invece quanti sono stati i contributi pubblici totali? 3 milioni, ovvero il 2,36% del totale dei contributi. Se sommiamo entrate “operative” e contributi (totale entrate: 280,8 milioni) i contributi pubblici pesano solamente per l’1,06%.
Proviamo a fare velocemente un raffronto con la nostra principale istituzione in tale ambito: il Teatro alla Scala di Milano. Prendiamo i dati dalla Relazione sull’utilizzo del FUS (Fondo unico per lo spettacolo) del 2009. Totale contributi: 50 milioni di euro. Totale contributi privati: 1,8 milioni. 48 milioni circa riguardano quindi l’intervento di Stato, regione, provincia e comune. Rispetto al Met il rapporto è completamente sbilanciato, se da una parte il peso del contributo pubblico, sul totale dei contributi, è davvero minimo, nel caso della Scala è l’opposto: sul totale dei contributi, quelli pubblici rappresentano la quasi totalità.
Un altro dato mi sembra molto interessante: quello delle alzate di sipario. Il Met ne ha totalizzate 216 (anno 2009), mentre la Scala 117 (anno 2008). Se il primo male di cui soffre la lirica in Italia è la mancanza di contributi privati (si tratta di un settore ampiamente sussidiato), il secondo è rappresentato dalla scarsa produttività: il costo del lavoro rispetto alle alzate di sipario è troppo elevato.
La lezione che si può imparare da questa rapida e sommaria comparazione è, a mio modo di vedere, evidente. Da una parte (Met) abbiamo un teatro dinamico che inventa nuove forme per commercializzare e divulgare le proprie produzioni; dall’altra (Scala) un teatro prestigioso e conosciuto a livello internazionale che riposa sugli allori.
Se è vero che i costi di produzione di un’opera lirica sono elevati, è anche vero che esistono gli strumenti per aumentare i ricavi e ridurre il costo del lavoro. Sul primo punto, il Met è la dimostrazione che la tecnologia può aiutare. Sul secondo punto, le strade da percorrere sono diverse: se pensiamo alle nostre Fondazioni liriche la ricetta potrebbe essere: più alzate di sipario, meno personale “stabile” e un diverso contratto collettivo nazionale. I costi di produzione possono inoltre essere mitigati da un incremento della domanda (a sua volta determinato, come nel caso del Met, da una diversificazione dell’offerta).
La situazione tra le due realtà è così differente perché da una parte abbiamo un Paese con gli incentivi giusti, mentre dall’altra un Paese come il nostro dove manca una cornice di regole volta a stimolare determinati comportamenti, sia dal lato della domanda che dal lato dell’offerta. Oggi più che mai non ci possiamo più permettere 14 Fondazioni quasi interamente sussidiate con denaro pubblico. Ridurre il finanziamento pubblico vuol dire farle morire? Non credo, vorrebbe solamente dire testare la capacità dei sovrintendenti e dei consigli di amministrazione di riorganizzare le proprie attività.
Eccellente, niente altro da aggiungere!
Sarebbe opportuno far leggere queste poche righe ai CDA delle nostre Fondazioni Liriche e ai rappresentanti sindacali dei lavoratori del settore.
La riprova che arte e cultura possono fare impresa e non solo mendicare aiuti pubblici. Imparate. Anzi, impariamo ed esigiamo che funzioni così.
sottoscrivo post e commento di Aldo. io i fondi allo spettacolo li leverei in toto. chi non sa attirare interesse o restare in piedi cambi mestiere.
Ottimo pezzo: puntale, informato, argomentato. Nulla da aggiungere. Con lo spread intorno ai 500 punti lo capiranno i signorini dell’arte e dello spettacolo, abituati a slogan del genere “finanziare la cultura significa investire nel futuro”, che a) devono lavorare di più, e che b) devono misurarsi con il pubblico e con il suo giudizio (leggi: botteghino, mercato, ecc.)?
c’è la corporazione degli spettacoli che chiede soldi pubblici.. hai ragione..
c’è la corporazione dei liberi professonisti che chiede l’albo..
c’è la corporazione dei dipendenti p.a. che chiede aumenti ed assunzioni..
c’è la corporazione delle p.iva che chiede evasione..
c’è la corporazione di Silvio che si auto-regala le concessioni televisive in “Beauty Contest” cioè gratis (alla faccia delle privatizzazioni x far cassa… la sua:)
c’è la corporazione delle coop rosse che si auto-dà le licenze commerciali locali..
c’è la corporazione degli over 800000 che Silvio chiama ceto medio e non vuol tassare..
c’è la corporazione degli industriali che gli depenalizzano falso in bilancio ed applaude..
c’è la corporazione dei giornalisti che predica flessibilità e poi si assumono tra amici..
eccetera eccetera..
in pratica.. con questo bell’articolo.. nei hai scelta una fra le tante..
c’è infine la corporazione delle corporazioni.. si chiamaVA Italia..
Cosa penso l’ho già scritto:aboliamo il Ministero per i Beni e le Attività Culturali liberando risorse anche per le Fondazioni liriche che come altre attività devono saper stare sul mercato come il Met e come i musei statunitensi.
Probabilmente anche l’Economia della Cultura ha una visione distorta della sussidiarietà che va abbandonata:fuori lo Stato,da tutto.
In Italia invece l’Arte e la Cultura vengono considerate come le Auto Blu,un privilegio da usare come propaganda e quindi da gestire per fini personali ma da finanziare con le risorse di tutti.
A differenza degli USA, l’Italia è un paese “antico” che guarda al passato, non al futuro. Fino alla fine dell’ottocento l’unica forma di spettacolo era il teatro e, a causa della scarsa mobilità, ogni paese ne aveva uno. Poi è arrivato il cinema che qualche spettatore avrà anche sottratto al teatro. In seguito arrivò la radio, la televisione, le videocassette e i DVD, infine internet, il tutto accompagnato da una grande mobilità, che ci permette di spostarci da una città all’altra per vedere uno spettacolo. Ma l’Italia nel frattempo non si è innovata, continua a guardare i teatri spacciandoli come “cultura” e oggi ci troviamo ad avere un teatro quasi in ogni paese, contenitori privi di contenuto, che hanno bisogno di contributi statali per sopravvivere. E’ assurdo. Sarebbe come se oggi continuassimo a pagare la cassa integrazione ai costruttori di carrozze, spiazzati dalle industrie automobilistiche. Facciamola finita con i contributi, facciamo che la necessità aguzzi l’ingegno agli uomini di “cultura”!
ottimo articolo, complimenti per la cura del tuo sito.
Giannino, mio caro,
la cultura, quella vera, non è gratis. Posso anche concordare con Lei sulla convenienza economica di questa goliardica, in quanto dissacrante, iniziativa del Met, ma non posso non ritrarmi, abbastanza disgustata, davanti all’immagine di gente priva, o quasi, di ogni fondamento culturale, che mangia pop-corn, incorniciata dagli orridi occhialetti per la visione tridimensionale, davanti alle immagini del Nabucodonosor di Verdi o dell’Aida. Vede, io ho 19 anni, e sono ancora parte integrante della “nuova generazione”; pertanto, capisco che un discorso di questo stampo possa risultare bizzarro, da parte mia. Se Lei potesse vedermi, sarebbe ancora più stupito. Tuttavia, Giannino, io ho studiato al Liceo Classico Cesare Beccaria di Milano, ed ogni goccia del mio sudore, spesa nello studio “matto e disperatissimo”, è andata a rifocillare il mio classismo culturale. Accetto di buon grado, con senecana rassegnazione, il fatto che gente che rincorre un pallone di cuoio, alla stregua di tanti animaletti simpatici, ma non proprio geniali, venga pagata più di quanto io sarò mai pagata. Accetto altresì pacatamente il sistema (devo dire, vagamente ingigantito dalle parole dei nostri capaci rivoluzionari dell’ultim’ora) delle raccomandazioni sul lavoro, perseguendo, per quel che mi riguarda, l’ideale di un’ eccellenza che mi porterà da qualche parte (auspicabilmente, nella poltrona vicina alla sua, Giannino.). Accetto questi ed altri fatti scabrosi, godendo, nel silenzio dello spirito di questi luoghi (Lei non sa come taccia, qui da me, la cultura), della superiorità intellettuale che mi sono guadagnata con lacrime, sangue e sudore. Tuttavia, è inaccettabile, per me, che ciò in cui credo, spero e per cui combatto crociate lunghe ed esasperanti contro mulini a vento sempre più opinionati, i.e. la conservazione dell’elitarietà della cultura, venga così messa alla prova dalle iniziative di un Paese in cui la gente mangiava ancora vermi quando noi eravamo già in decadenza. La tradizione teatrale è una tradizione caciarona e popolare, l’opera era nel secolo XVIII/XIX ciò che per noi oggi sono le telenovele, ma è, e rimarrà per sempre parte del nostro patrimonio culturale e storico. L’appello al futuro, in questi casi, è pura ipocrisia: nessuno brucerebbe la Monna Lisa perchè fa parte del passato. Nessuno oserebbe staccare la testa alla già mutila Venere di Milo. L’America si può permettere questo genere di castroneria, una captatio benevolentiae piena di orgoglio piccolo-borghese, perchè tutta la storia che ha è ereditata da noi.
Ho letto la Carlotta. Una piccola spocchiosetta, giovane parvenue nel mondo della cultura, che non ha capito ancora molto del mondo.
Ogni opera d’arte – come ogni altra cosa al mondo – ha diversi livelli di lettura. Un professore di filologia, un filosofo o un poeta leggeranno in modo diverso Dante o Shakespeare. A maggior ragione vi sarà una distanza nelle letture di un letterato e di un panettiere, ma non vedo la ragione di togliere il testo dalle mani di quest’ultimo, magari un po’ infarinate, considerandolo non all’altezza.
E’ giusto che ognuno goda del bello come desidera e come può. Purché non si chiudano i teatri e purché i soldi che questi guadagnano con le loro iniziative restino per il loro miglioramento, dove sta il danno? Resterà sempre, per i più fortunati, il piacere di gustare dal vivo la pura voce di un soprano (anche la Callas in una registrazione è diversa che dal vivo, ne ho esperienza) o la solennità di un coro senza che questo li autorizzi a guardare con spregio quelli cui è toccata una sorte diversa.
La nostra giovane innamorata della cultura non ha capito che già esser dotata di intelligenza e di amore per la conoscenza è un’enorme dono della sorte, il fatto poi di mettere a buon frutto queste qualità è quasi una conseguenza obbligata perché solo su quella strada si realizza il suo piacere di vivere per quanto sudore costi. Manca ancora qualcosa di fondamentale alla sua cultura, lo sguardo pacato e e l’ indulgente simpatia per quanti si ritrovano ad aver gusti e modi di vita diversi dai nostri.
La natura non ci fa tutti uguali, ma una “società aperta” c’è posto per tutti.
Laura, carissima. A parte l’articolo davanti al mio nome, deliziosamente naive, il resto del messaggio è una massa di luoghi comuni disarmante. Sa, suona tanto come quelli che si credono aperti, e commentano “Tizio è gay, ma è tanto una brava persona.” Detto questo, Le darò alcune brevi ma estremamente salienti delucidazioni. Io sono del tutto favorevole ad una società aperta: credo nell’ugualianza dei diritti e delle possibilità. Tuttavia, credo che la giusta base di una società funzionante sia la meritocrazia. In soldoni, se uno non ha voluto studiare (La prego, non commenti “c’è chi non può permettersi di studiare”. So quali siano i limiti del nostro sistema scolastico. Sto parlando del 90% della popolazione under 20, che non vuole studiare nemmeno sotto tortura) non ha nessun diritto di accedere ad un livello di cultura superiore. Io non ho frequentato l’università prima del liceo, ci si evolve anche intellettualmente lungo un filo logico. Concludendo, nolite margaritas ad porcos porrigere.
“Naive” o forse po’ insolente?
Ma a parte questo, “volontarista”, è la prima parola che mi è venuta alla mente e poi “confusionaria”, la seconda.
Cerco di spiegarmi. Volontarista proprio nel senso di chi considera la volontà come la forza spontanea e predominante della vita psicologica, capace di subordinare a sé l’intelligenza e il sentimento, e costituisce l’unità della coscienza.
Solo un’incrollabile fiducia nella forza di volontà può averle impedito di cogliere il significato delle mie parole quando dico ” …. esser dotata di intelligenza e di amore per la conoscenza è un’enorme DONO DELLA SORTE, il fatto poi di mettere a buon frutto queste qualità è quasi una conseguenza obbligata perché solo su quella strada si realizza il suo piacere di vivere per quanto sudore costi”. Non conta che sia offerta la possibilità di studiare se non è stata attivata, da quell’insieme di circostanze che lo rendono possibile, la capacità di apprezzare la bellezza e l’importanza dello studio. Se il 90% dei nostri giovani non ha questa capacità, poiché è statisticamente impossibile che siano tutti dei pelandroni, c’è qualcosa di errato nell’ambiente in cui li abbiamo fatti crescere. Richard Nisbett, Intelligence and How to Get It: Why Schools and Cultures Count, e Steven Pinker, The Blank Slate: The Modern Denial of Human Nature, spiegano molto bene come e perché queste cose possono accadere.
Quanto alla meritocrazia, che nessuno più di me sostiene, da molto prima che l’Italia scoprisse l’esistenza di questa parola – evento, del resto, molto recente – non è fatta per “punire” i meno preparati ma per “selezionare” i migliori. Se l’accesso alle università è stato consentito a giovani che non conoscono neanche l’uso dell’italiano non è colpa loro ma di un meraviglioso slancio democratico che negli anni ’70 ha pensato bene che bastava far entrare all’università chiunque, da qualunque scuola uscisse, per avere una meravigliosa uguaglianza. Tutti agli stessi corsi quindi tutti uguali. Naturalmente correggere il danno ora sarebbe come far rientrare il dentifricio nel suo tubetto.
(commento tardivo, me ne scuso, ma non posso trattenermi)
Madamin Carlotta, lo sa che a leggerla mi sono letteralmente fatto “na panza de risate”? Sì, “na panza”, molto grossolana ed anche un po’ volgare, perchè è quella che si merita un commento come il suo.
[Giusto così, chi le parla ha fatto il Liceo Scientifico ed ha una laurea a pieni voti in Ingegneria. Tipicamente non metto in piazza i miei titoli perchè valuto le persone dal peso di quello che scrivono e non dai titoli che vantano di avere. Ho dovuto citarli, solo perchè dal suo atteggiamento dichiaratamente classista – niente di male, per carità – per avere considerazione da lei devo almeno dimostrare di essere alla sua altezza]
Riprendendo il discorso, vedo che non ha proprio capito il senso del presente articolo (e non scrivo “post” perchè sarebbe volgare). Qui non si tratta di elogiare l’idea di far vedere a trogloditi ingozzantisi di pop-corn un’opera lirica di cui non capirebbero nulla, categoria cui credo che Cavazzoni non appartenga. Qui si tratta di verificare se sia vera (o meno) la tesi per cui la Cultura, quella con la C maiuscola, deve essere obbligatoriamente sussidiata in larga parte dalle tasse perchè altrimenti non sopravviverebbe. Mi sembra che il bilancio del Met, più che l’iniziativa in sè, siano lì a smentirlo.
A meno che, per classismo culturale, non faccia anche lei parte di quelli che sposano la tesi che il privato dissacra la Cultura e che quindi questa debba vivere solo dei fondi prelevati dalle tasse di tutti, anche di quegli ignoranti trogloditi che con la bocca piena di pop-corn gridano “la corazzata Potemkin è una cagata pazzesca!”