Keynes, l’anticapitalista
Ricordatevene bene, perché oggi torna utile: Keynes non amava affatto il capitalismo, bocciava il comunismo, ma sul socialismo era molto possibilista. Il King’s College di Cambridge pubblicherà tra poco nuovi inediti di John Maynard Keynes, e la lettura di un’anticipazione di alcuni testi curata da Roger Backhouse dell’Università di Birmingham mi ha fatto proprio bene. Di questi tempi in cui tutti o quasi si riscoprono keynesiani, rileggere le parole originali del divinizzato aiuta a tenere gli occhi bene aperti.
Il primo giugno del 1926, Keynes rispondeva a un invito giuntogli per una serie di conferenze dal presidente della Cornell University, Livingston Farrand, annunciandogli che entro il 1928 avrebbe terminato un volume dal titolo An Examination of Capitalism. Ma cambiò idea, come spesso gli avveniva. Di conseguenza, le sue convinzioni di fondo sul tema le dobbiamo ricavare implicitamente dalle sue maggiori opere, che non affrontano mai in profondità il tema, oppure da articoli e lettere in cui gli capitò di esprimere giudizi.
Negli anni in cui si era formato, nessun economista nel Regno Unito metteva seriamente in dubbio il capitalismo. C’erano state discussioni anche aspre sul libero commercio e sulla sua base monetaria (il bimetallismo era alla base del suo scritto giovanile del 1913, Indian Currency and Finance), ma il problema dei fondamenti e limiti del capitalismo si riaprì con la Prima Guerra Mondiale, la Rivoluzione Russa e Weimar. In Gran Bretagna, il tentativo post bellico di restaurare la stretta politica monetaria tipica del Gold Standard portò a una sempre più vasta crisi industriale sfociata nello sciopero generale del 1926, con fortissime tensioni sociali. Poi venne il 29 e la Depressione, in cui Londra era entrata in realtà da prima e per conto suo. In quegli anni, la sinistra britannica, intellettuali e artisti condivisero in massa la cecità con cui Sidney e Beatrice Webb e la loro Fabian Society guardavano ai costi umani terribili del comunismo sovietico.
Quel che Keynes pensò dello Stato come attore di stabilità economica è stranoto. Partendo dalla sua formazione di economista monetario “classico” con Alfred Marshall e Charles Pigou come maestri, nel 1930 con il Treatise on Money Keynes rompe con la teoria classica aprendosi al ruolo della domanda pubblica, e nel 1936 con la General Theory ne annuncia addirittura il “radicale” superamento. Dal ciclo trainato dalle aspettative con moneta ancorata all’oro della sua formazione, al nesso tra moneta e risparmio attraverso e oltre il modello di Wicksell, per approdare infine alla teoria di una “fine del ciclo”, ancorata al tuning pubblico della domanda aggregata. Ma del capitalismo in quanto tale, che cosa pensava Keynes?
Dagli appunti dei Keynes Papers, si apprende che immaginava un libro scritto in tre parti: L’Ideale, l’Attuale, il Possibile. Il punto d’inizio era “l’amore per il denaro”, attraverso il quale i greedy instincts potevano essere volti a promuovere “miglioramenti tecnologici, dell’occupazione e del risparmio”. Il capitalismo, si legge negli appunti, aveva molti vantaggi, promuoveva decisioni decentrate ed estendeva l’indipendenza delle persone, oltre a essere” essenzialmente internazionalista”. Ma “incoraggia bassi istinti”, recitano gli appunti conclusivi della prima parte. Nella seconda, Keynes si proponeva di sviluppare sì un capitolo sui vantaggi di efficienza garantiti dal capitalismo, ma ben tre capitoli dei quali uno dedicato ai suoi svantaggi, uno ai suoi fallimenti, e infine uno alla sua decadenza. Quanto alla terza parte, Keynes si limitò a indicare i temi che intendeva svilupparvi: e qui viene l’interessante. Le varie forme di socialismo, mettendole a paragone, dal socialismo sindacale a quello corporativo, da quello della cogestione – qui c’è un inciso di suo pugno in forma interrogativa: “c’è del buono in esso?” – alla pianificazione sovietica. Poi il ruolo dello Stato, in tema di risparmio pubblico e di promozione e avversione all’eccesso di rischio finanziario (pensate come sarebbe ristampato al volo, oggi…).
Keynes stava leggendo in quegli stessi mesi Religion and the Rise of Capitalism di R. H. Tawney . Ma a differenza di chi lo incardinava nella Riforma, gli appunti di Keynes del 1920 mostrano che a suo giudizio il “capitalismo individualista e le prassi economiche che lo contraddistinguono” risalivano indubitabilmente” addirittura “a Babilonia”. Nel 1925, nel suo A Short View of Russia, Keynes scrive che “una delle ragioni non secondarie della decadenza intellettuale del capitalismo individualista sta nel principio ereditato dal feudalesimo, il principio ereditario nel controllo della ricchezza e dell’impresa. Per questo il capitalismo è intrinsecamente debole e stupido, è troppo dominato da uomini della terza generazione” (quelli che dilapidano il capitale e l’azienda ereditati). Nel 1934, scrivendo sul New Statesman , criticando Stalin e in risposta a George Bernard Shaw, Keynes scrive che essi “guardavano indietro a ciò che il capitalismo era, non a che cosa è diventato”. Marx poteva aver avuto benissimo ragione sul capitalismo dei suoi giorni, ma oggi la cosa è diversa, scrive Keynes.
Queste affermazioni sono di solito “centrali”, nelle tesi dei keynesiani, per affermare la superiorità di Keynes sulla natura evolutiva delle istituzioni disegnate dall’uomo e dalla politica come fondanti per economia di mercato e capitalismo, rispetto agli unfettered markets che da soli bastano a fondare il capitalismo, in opere come Capitalism and Freedom di Milton Friedman. In realtà, quando nel 1925 il socialista Kingsley Martin scrive sul New Statesman che “il capitalismo privato è un’istituzione superata dai tempi, incapace di rispondere alle attese e alle necessità del ventesimo secolo”, Keynes risponde di essere “integralmente d’accordo”. Su The Nation spiega che “il capitalismo individualista in Inghilterra è giunto a un punto nel quale non può più a lungo dipendere dalla prospettiva di una crescita continua; deve applicarsi al compito scientifico di perfezionare la struttura del suo funzionamento economico”.
Quando Keynes usava sistematica l’aggettivo “individualista” accostandolo a capitalismo, non aveva affatto in mente una nozione dell’individuo come massimizzatore di scelte in condizioni di concorrenza, alla Friedman. Per Keynes, dai primi anni Venti in avanti, conterà sempre assai di più chi è al controllo del sistema. Nel 1933, sul New Statesman scrive che “il capitalismo individualista post bellico non può avere successo, nelle mani di chi oggi lo controlla”. Parole analoghe a quelle che scriveva nel 1922 sul Manchester Guardian Commercial, a proposito dell’ ”impotenza delle forze del capitalismo” in materia di rapporti di cambio. Nel suo troppo fortunato The End of Laissez Faire (1926), per Keynes diventa evidente che il capitalismo può avere ancora un senso solo se viene radicalmente mutato da una potente azione collettiva . Un suo scritto del 1923 afferma esplicitamente “a meno che le persone siano unite da un obiettivo e princìpi comuni, la mano di ciascuno si leverà contro gli altri e il perseguimento disordinato del vantaggio individuale potrà condurre alla distruzione la società. Non ci sono stati scopi comuni tra nazioni o tra classi, eccetto che per conflitti e guerre”. La sfiducia verso ogni forma di individualismo metodologico non potrebbe essere più radicale. Non c’è da stupirsi, se partecipando nel 1939 al Walter Lippman Colloque, Friedrich von Hayek a furia di sentire queste frescacce si convincesse che la libertà era davvero ormai minacciata e in serio pericolo.
Quando Keynes parlava di “capitalismo individualista”, nel porne i limiti non si fondava solo sulla sua – quella sì essenziale – teoria dell’incertezza nelle scelte economiche – il pre-fondamento dell’approccio behaviorista . Aveva in mente categorie “morali”. Per questo usava formule come “capitalismo egotista” o self-interested capitalism. Dopo il caos bellico e postbellico, Keynes pensava che era entrato ormai in crisi sistemica il meccanismo fondante del capitalismo: la sua capacità di risparmio. “Il dovere di risparmio ispirato per nove decimi di virtù morali, tanto delle classi agiate che di quelle lavoratrici, ha esito in un precipizio nel quale i lavoratori non tollerano più limiti di vita tanto stretti, e le classi agiate spendono finché possono senza più pensare alla sostenibilità patrimoniale”. Poiché diversa remunerazione del lavoro e del capitale siano accettate e continuino a funzionare, devono essere percepite come “moralmente” giustificate, scrive Keynes. Altrimenti, “if capitalism became simply a mere congeries of possessors and pursuers, people would find it morally inacceptable”.
La conclusione? Il comunismo era avvertito come moralmente giustificato, cioè non aveva bisogno di garantire crescita per reggere; il capitalismo dipendeva invece solo dalla capacità di garantire crescita per tutti ad alti tassi, ma poiché si era bloccato era due volte avvertito come moralmente ingiustificato. (Nation and Athenaeum, 1925). Per coerenza, a commento di Lenin per il quale la maniera migliore di distruggere il capitalismo era minarne la moneta, Keynes replica che in effetti l’inflazione mina il capitalismo, mentre una “persistente inflazione è tollerabile solo sotto il controllo di un sistema socialista” (l’Italia lo ha sperimentato e ci ha convissuto per decenni, infatti).
Negli anni della Grande Depressione, Keynes radicalizza ulteriormente la sua convinzione anti capitalista. In Eugenic Reviews del 1937, a proposito del declino demografico in corso, scrive che “una cronica tendenza del capitalismo individualista verso la sotto occupazione conduce alla distruzione della stessa società capitalistica, che rifiuta una più egualitaria distribuzione dei redditi e mantiene alti tassi d’interesse, associati con profitti di pochi, ineguaglianza crescente e alta disoccupazione”. Nella General Theory (VII, p376), in un passaggio da brivido Keynes descrive il “rentier aspect of capitalism as a transitional phase which will disappear when it has done its work”.
Lo stesso Marx sarebbe stato d’accordo! L’accumulazione dei rentiers finisce, infatti, quando arriva il socialismo!
Se queste sono le premesse di tanti anni di inequivoca riflessione – Keynes considerava il capitalismo moralmente insostenibile, se non a patto di crescita altissima e continua – allora bisogna leggere diversamente il suo scambio epistolare con Hayek, nel giugno ’44 dopo The Road to Serfdom. I keynesiani sottolineano di solito la frase “morally and philosophically I find myself in agreement with virtually the whole of it; and not only in agreement, but in a deeply moved agreement”. Ma in realtà subito dopo aggiunge di non poter condividere “the tendency to disparage the profit motive while still depending on it and putting nothing in its place”.
Leggete questa frase: “The exploitation and incidental destruction of the divine gift of the public entertainer by prostituting it to the purpose of financial gain is one of the worser [sic] crimes of present-day capitalism. Anything would be better than the present system.” Non è una difesa dei costi non di mercato dell’artista, che verranno poi messi a fuoco dalla legge di Baumol. E’ una condanna del capitalismo e basta.
Convinto che “if there is no moral objective in economic progress, then it follows that we must not sacrifice, even for a day, moral and material advantage – in other words, we may no longer keep business and religion in separate compartments of the soul”, Keynes poneva le basi per cui il capitalismo è di conseguenza “tollerabile” solo nelle mani dei progressisti, visto che non si poteva tornare a quelle dei preti. Per questo, da allora in poi, è il messia delle sinistre occidentali al potere.
Intanto, complimenti per quanto ha scritto. Di mio aggiungerei quanto segue. Keynes aveva una visione aristocratica delle cose: l’economia come attività alla fine doveva, secondo lui, essere ridotta ai minimi termini, in modo da lasciare il tempo per dedicarsi all’anima. Vorrei aggiungere che a quei tempi si temeva davvero per la tenuta del sistema capitalistico. Schumpeter, che di “progressista” non aveva nulla, si interrogava se il sistema potesse sopravvivere, una volta che fossero venuti meno i legami di lealtà ereditati dal mondo aristocratico. Sul finire della sua vita era arrivato persino pensare che il sistema poteva forse sopravvivere saldandosi con la tradizione cattolica. Insomma, quelli erano anni complicati.
Purtroppo sì, quell’ultimo dannato capitolo aggiunto ex post di Capitalismo, Socialismo e Democrazia di Schumpeter testimonia esattamente quanto lei afferma. Ma la domanda è: visto che i tempi sono oggi del tutto diversi e non abbiamo più fascismi e comunismi pugnaci e vittoriosi, possibile mai che Keynes con la sua visione aristo-bloomsburyana debba continuare a esser vangelo?
L’unica risposta che riesco a darmi è che la visione aristo-bloomsburyana – l’agire economico come attività indegna – abbia un seguito, e che Keynes sia, alla fine, il suo profeta più presentabile. In fondo, la politica economica, governando il ciclo, tiene buone le masse e “noi” possiamo andare in giro a visitare le mostre d’arte.
Capisco molto bene perchè i liberisti non amino keynes era troppo avanti rispetto i cavernicoli del capitale che ancora oggi fanno furore fra gli sprovveduti o gli sfruttatori.
La lettura di questo strepitoso articolo di Oscar puo’ essere integrata/ approfondita leggendo questo illuminante articolo di Ralph Raico: http://www.independent.org/publications/tir/article.asp?a=704 .
Eccellente, Dr. Giannino. Forse solo una curency crisis (le premesse ci sono tutte,no?) potrebbe minare il vangelo keynesiano. Ma anche in tale situazione i Krugman di turno ci delizieranno con qualche favola. Orwelliana.
Caro Silvio, rispetto il suo punto di vista. Ma la invito a riflettere che a furoreggiare tra i “cavernicoli del capitale”, come li chiama lei – diciamo le BIG FIve Usa scomparse in una settimana insieme a Lehman brothers – non erano e non sono affatto Friedman e Hayek ma… Larry Summers, colui che ha abolito il Glass Steagall Act sotto Clinton e che oggi è ancora in sella, sotto Obama
Uno degli intellettuali più sopravvalutati del Novecento, uno di quelli che ha avuto più influenza (nefasta), l’inventore dell’economia esoterica, colui che ha fatto diventare l’economista lo stregone dei nostri tempi, il consigliere più ascoltato e ruffiano del principe. Del resto il povero politico che può fare? Chi sceglierà mai tra chi gli dice: “guarda, non fare nulla o fa poco, ci pensano gli individui tramite il mercato a risolvere i problemi” (tipo Hayek); e chi gli dice: “salva il mondo, senza di te tutto sarebbe perduto” (tipo Keynes, appunto)…