Jules Winnfield e il mercato elettrico
Il possibile abbandono di E.On non è un semplice massaggio ai piedi del mercato elettrico: è come infilare la lingua nel più sacro dei suoi buchi.
Il colosso tedesco dell’energia sta seriamente valutando la possibilità di abbandonare l’Italia. La notizia, che era nell’aria da un po’, è stata recentemente confermata da Quotidiano Energia, che ha pubblicato un piano con informazioni dettagliate su tutti gli asset in vendita e addirittura l’identificazione dei possibili compratori. Si tratta di una notizia pesante dalle molte conseguenze, anche se poi, alla fine, E.On dovesse tornare sui suoi passi.
Per un osservatore esterno, il destino degli asset è l’aspetto meno rilevante. La riduzione di un’unità nel numero dei competitor in un mercato non è mai una buona nuova, ma il mercato elettrico italiano poggia su fondamenta concorrenziali robuste (a dispetto della scarsa valutazione che gli attribuiamo nell’Indice delle liberalizzazioni 2013, che verrà presentato domani, e che dipende prevalentemente dai fattori di cui parlerò tra poco). Inoltre, la scelta di E.On non è certo priva di nesso con le difficoltà che il gruppo sta attraversando. Proprio qui, però, sta parte della spiegazione, e non è una bella parte.
Come qualunque impresa in difficoltà, anche E.On cerca di focalizzarsi sui mercati più promettenti, tagliando progressivamente i rami che giudica secchi. Ecco: l’Italia, nella prospettiva di una multinazionale dell’energia, è un ramo secco. Eppure, solo pochi anni fa l’azienda fece una scommessa importante sul nostro paese, con l’acquisizione dell’80% di Endesa Italia, che Enel doveva cedere per ragioni antitrust in seguito alla scalata della società spagnola. Inoltre, E.On è presente in una serie di progetti infrastrutturali per l’importazione del gas, quali il rigassificatore di Livorno e il gasdotto Tap. In breve, il suo perimetro di business è quello di un solido produttore termoelettrico, con un parco di centrali moderne e integrato verticalmente nel gas: il perimetro perfetto, nel 2008. Un perimetro dannato, oggi.
L’andamento della domanda nel futuro prevedibile sarà stagnante. Gli impianti convenzionali sono sotto la pressione di una montante produzione rinnovabile, sottratta ai rischi di mercato da obblighi di ritiro, sussidi e altre diavolerie. Lo slittamento a destra della curva di merito abbatte i prezzi di mercato, spiazzando il generatore marginale: poco danno per i produttori verdi, sostenuti da generosi incentivi, ma fatale per chi deve far conto sull’interazione tra domanda e offerta.
Come se questo non bastasse, i governi continuano a trattare il settore dell’energia alla stregua del più accessibile dei suoi bancomat, senza rendersi conto della crisi profonda che lo sta attraversando. Così, quei pochi utili che si riescono ancora a fare sono taglieggiati da una pressione fiscale sempre più feroce e discriminatoria: la Robin Tax cuba ormai 10,5 punti aggiuntivi rispetto alla normale aliquota Ires.
In sintesi: i volumi si assottigliano, i margini declinano e su quel che resta lo Stato pretende una fetta più grande. Evidentemente la situazione, attuale e prospettica, è tale, agli occhi di E.On, da giustificare le prevedibili forti minusvalenze pur di mettere una pietra sopra l’Italia.
Ma c’è un elemento ancora più rilevante. Le speranze dei produttori convenzionali, in questo contesto, sono legate all’introduzione di un qualche meccanismo di remunerazione della capacità non utilizzata. Qualunque cosa se ne pensi, ciò implica un radicale cambiamento sia nel modello di business, sia nella tipologia delle attività svolte, sia infine nel comportamento da adottare per massimizzare gli utili. La conferma di ciò arriva dalla legge di stabilità, che contiene un intervento piuttosto surreale volto a finanziare il capacity payment attraverso un contributo ai danni dei produttori rinnovabili, chiamati a coprire i costi di sistema determinati dagli sbilanciamenti riconducibili al loro profilo di produzione intermittente. Ora, chiamare tutti – inclusi gli operatori eolici e fotovoltaici – a pagare per le esternalità negative che causano, è giusto. Ma utilizzare il gettito per sussidiare i produttori convenzionali, piuttosto che compensare i consumatori, è una scelta abbastanza curiosa. Il punto, però, non è neppure questo: se io fossi E.On, mi chiederei che senso abbia restare in un mercato dove la mia capacità di generare utili dipende prevalentemente (e sempre più) da scelte politiche. Insomma: un paese che oggi toglie soldi ai rinnovabilisti per darmi il capacity payment, è anche un paese che domani potrebbe togliere soldi al capacity payment per darli ai pannellari, o che potrebbe spremere entrambi per costruire strade a beneficio del dittatore di un paese lontano (nulla che non sia già accaduto, beninteso).
E.On è entrata in Italia quando, per generare valore, doveva contendere quote di mercato ai concorrenti. E se ne va oggi che, per ottenere lo stesso risultato, deve conquistare il favore del ministro di turno. Per citare Jules Winnfield, “non è lo stesso fottuto campo da gioco, non è lo stesso campionato, e non è nemmeno lo stesso sport”.
PS Ringrazio Carlo Maciocco, parlando col quale mi sono reso conto che per capire il mercato elettrico italiano bisogna conoscere Quentin Tarantino.
A proposito, ieri Antonanzas (E.ON Italia) parlando del piano di dismissioni ha detto: “Stiamo rivisitando, in un’ottica europea, il nostro portafoglio sia a livello di centrali che di asset. Si tratta di un’operazione che tutti i grandi gruppi fanno periodicamente”. Lo puoi chiamare “royal con formaggio” ma sempre un “quarto di libbra con formaggio” rimane…
già, ai vertici di E.ON siede un uomo abituato a competere nel mondo obbedendo a chiare e rigide regole locali (infatti sono forti anche a Cincinnati – US), mentre qui vige il mazzettaro che soddisfa gli appetiti politici, Robin Tax inclusa in cui lo stato ruba ai poveri (utenti) per finanziare i collusi-
non ho sbagliato scrivendo utenti perché la robin tax alza artificialmente il costo dell’energia, al limite rendendo “soltanto” più difficili gli investimenti o più difficili i pagamenti ai fornitori o minore il credito ai grandi consumatori di energia. Solo un demagogo in sedicesimo come Tremonti poteva battezzarla col nome di Robin Hood, forse non lo ha nemmeno letto ma soltanto sentito raccontare al bar, tanto è lontano dalla cultura anglosassone!.