Jobs Act anche per il lavoro pubblico? Ichino ha ragione politicamente, ma le sentenze della Corte costituzionale dicono no
Il Jobs Act, a cominciare dalle nuove procedure di licenziamento disciplinate in uno dei due decreti attuativi approvati in Consiglio dei ministri il 24 dicembre, vale anche per i dipendenti pubblici? Il professor Pietro Ichino, senatore di Scelta Civica, giurista del lavoro e sostenitore storico della flexicurity, sostiene di sì. E lo dice anche come autore di una salace e imperdibile raccolta di interventi, nel 2006 dedicata provocatoriamente ai “nullafacenti” del settore pubblico. Ichino è da allora, anche per questo, nel mirino dei sindacati. Gli stessi componenti del governo Renzi hanno però subito smentito Ichino. Perché nel Jobs Act la sua applicazione anche nel lavoro pubblico non è scritta da nessuna parte. Chi ha ragione e chi ha torto?
Diciamolo subito: magari avesse ragione Ichino. Per logica, in un paese civile, dovrebbe essere così. Le tutele non dovrebbero essere differenziate tra pubblico e privato, come tra dipendenti e autonomi. Ma, di fatto, l’argomento giuridico di Ichino e cioè l’“omologazione implicita” tra pubblico e privato, pur avanzato con la piena cognizione di un grande esperto qual è oggettivamente, purtroppo non sembra dargli ragione appieno. Ergo diamo per scontato, conoscendolo e stimandolo, che il professor Ichino lo sappia benissimo, e che il senatore Ichino stia facendo una sacrosanta e legittima polemica politica.
Vediamo perché. Sostiene Ichino che il Testo Unico del Pubblico Impiego stabilisce che, salve le materie delle assunzioni e promozioni disciplinate dal concorso, per ogni altro aspetto il rapporto di lavoro pubblico sia soggetto alle stesse regole del rapporto di lavoro privato. Di fatto, è la tesi condivisa da chi ritiene che la svolta omologatrice tra lavoro pubblico e privato si sia completata con la riforma del pubblico impiego culminata con il decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, con conseguente piena “privatizzazione” già prima avviata del contratto pubblico di lavoro, stipulato dall’ARAN con i sindacati del settore.
Eppure, come sempre o quasi in Italia quando si tratta di nome di legge, non è così. Leggiamo in proposito alcuni brani della sentenza della Corte Costituzionale numero 146 del 2008. “… Malgrado la progressiva assimilazione del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni con quello alle dipendenze dei datori di lavoro privati, sussistono ancora differenze sostanziali che rendono le due situazioni non omogenee. Questa Corte in più occasioni ha ammesso la possibilità di una disciplina differenziata del rapporto di lavoro pubblico rispetto a quello privato, in quanto il processo di omogeneizzazione incontra il limite «della specialità del rapporto e delle esigenze del perseguimento degli interessi generali» (sentenza n. 275 del 2001). La pubblica amministrazione, infatti, «conserva pur sempre – anche in presenza di un rapporto di lavoro ormai contrattualizzato – una connotazione peculiare», essendo tenuta «al rispetto dei principi costituzionali di legalità, imparzialità e buon andamento cui è estranea ogni logica speculativa» (sentenza n. 82 del 2003)”.
La Corte costituzionale respinse con la sentenza del 2008 la pretesa di estendere un trattamento salariale dal privato al pubblico, “in nome delle specificità irriducibili del lavoro pubblico per il quale rileva l’articolo 97 della Costituzione”. E se lo fece per una questione salariale ma affermando un’irriducibile peculiarità del lavoro pubblico, figuriamoci se la cosa non varrebbe anche per le procedure di licenziamento. Numerose sentenze delle sezioni civili nonché riunite della Corte di Cassazione sono ispirate alla medesima linea, la perdurante “non omogeneità” del lavoro pubblico e privato.
Ecco perché sarebbe stato giusto se il governo avesse scelto e scegliesse apertamente di estendere le procedure del Jobs Act anche al lavoro pubblico e non solo al privato. In questo, stiamo con Ichino. Ma Renzi doveva farlo esplicitamente. Non avendolo fatto, per scelta del governo e non certo per dimenticanza, ecco che le nuove norme saranno valide solo nel privato: a meno che il governo ci ripensi, come noi vorremmo, ma come allo stato attuale è da escludere che avvenga, per non mettere un altro dito nell’occhio a un sindacato che già grida e minaccia scioperi a oltranza. Del resto, malgrado le diverse procedure di mobilità obbligatoria e volontaria previste nella delega Madia per la riforma della PA, la salvaguardia ai 20mila esuberi delle vecchie Province appena disposta il 24 dicembre la dice lunga, sulle volontà vere del governo in materia di “licenziamenti economici” – collettivi e individuali – nella PA.
E’ un difetto del Jobs Act, insieme alla manca estensione di alcune tutele come il neo ASPI al lavoro autonomo. Pensate solo a tema tradizionalmente associato nel dibattito pubblico ai persistenti “privilegi” dei dipendenti pubblici. Quello dell’assenteismo. Un problema che esplose come una bomba nel 2008-2009, con la riforma che tanto per cambiare fece anch’essa imbestialire i sindacati, quella detta “antifannulloni” dell’allora ministro della Funzione Pubblica, Renato Brunetta.
Fu insediata una commissione alla Funzione Pubblica incentrata sull’assenteismo pubblico, e AgEntrate, Inps, Istat e Ragioneria Generale dello Stato convogliarono i loro rispettivi dati (consueto problema nella PA: banche dati separate che non si parlano ordinariamente e rendono impossibile o difficilissime ricerche in tempo reale, consentendo a ciascuno di dire la sua e girarsela come vuole..). Della commissione era magna pars Francesco D’Amuri dell’ufficio studi Bankitalia, che nel 2010 realizzò poi una bella ricerca sulle conseguenze intenzionali e inintenzionali di un giro di vite contro l’assenteismo nel pubblico.
Nel 2010 la commissione realizzò un documentato convegno sugli effetti della legge 133 del 2008, il famoso “giro di vite” sui doveri di certificazione sanitaria anche del primo giorno di malattia nel lavoro pubblico, sulla sola retribuzione di base dovuta nei primi dieci giorni di malattia, nonché sulle viste obbligatorie degli ispettori sanitari e del lavoro. Scoppiò una polemica infernale, sui vantati cali tra il 30 e il 40% dell’assenteismo pubblico per effetto delle nuove misure. L’Espresso contestò radicalmente la base statistica del campione su cui Brunetta elaborava i dati, lavoce.info a propria volta avanzò molti dubbi. Ma tutti convergevano su un punto: si dissentiva sul quanto, ma l’assenteismo calava negli uffici pubblici, grazie a regole e controlli più tosti, insieme alle nuove norme disciplinari anch’esse emanate da Brunetta nel 2009.
Senonché, caduto il governo, i successivi ministri sotto i governi Monti, Letta e Renzi quelle statistiche semplicemente non le danno più. L’ultimo monitoraggio al Parlamento è sui numeri 2010. Nel 2012 Mastrapasqua, allora commissario IMPS, disse nel tripudio sindacale che i nuovi dati attestavano che l’assenteismo pubblico era un mito, quello privato era maggiore.
Per la precisione, e per non indulgere in demagogia, bisogna anche dire che l’allineamento pubblico-privato anche su questa materia è un po’ un mito. Contrariamente a quel che si crede, diversi contratti vigenti in alcuni settori privati (sottoscritti per gli anni 2010-2013 e non ancora rinnovati o relativi agli anni 2011-2014) contemplano ancora quella che in gergo tecnico si chiama “carenza”, cioè giorni di assenza non certificati…. che nel settore pubblico dal 2009 sono spariti (e anzi 3 gg non giustificati in 3 anni sono in teoria giusta causa per licenziamento del dipendente pubblico, diciamo in teoria perché di esempi pratici in cui la norma è stata applicata ve ne sono sì con tanto di conferme giudiziali, ma per contestazioni di assenze sistematiche, di mesi interi su anni di lavoro e non certo di 3 giorni).
Gli ultimi dati parziali a noi noti sono invece relativi ai primi sei mesi 2013, quando secondo l’INPS i certificati di malattia erano aumentati di circa 400 mila rispetto agli stessi 6 mesi del 2012, ma con aumento zero nel privato e con un 10% di crescita invece nel settore pubblico. A oggi, le banche date pubbliche continuano a non parlarsi, ergo o l’attuale ministro Madia rimette mano a un rapporto sistematico sulla questione, oppure i sindacati smentiscono e s’inalberano. Ma non per questo i cittadini smettono d’inalberarsi a propria volta, e a buona ragione. Perché quando leggono in inchieste giornalistiche che in aziende pubbliche municipalizzate come l’ASIA a Napoli o l’ATAC e l’AMA a Roma l’assenteismo è arrivato a toccare talora il 25%, e che si considera un successo scendere in un anno al 19 o al 17%, è ovvio che il sangue dei cittadini e contribuenti salga alla testa.
L’assenteismo non è un privilegio è una cosa illegale, meglio evitare di frammischiare a minestrone luoghi comuni, considerazioni rispettabili e castronerie. Trovare e colpire secondo le norme vigenti gli assenteisti è un problema, licenziare i dipendenti pubblici è un altro del tutto differente e particolarmente più insidioso. Far funzionare lo stato è un problema, impossessarsene è un altro.
“le nuove norme saranno valide solo nel privato: a meno che il governo ci ripensi, come noi vorremmo”
Ma noi chi?
Tolti i casi già contemplati nelle leggi già esistenti per i truffatori, i nullafacenti e gli assenteisti, che bisognerebbe chiedere di far si che fossero duramente applicate, desidereremmo invece sapere chi sono coloro che, per loro virtù intrinseche, si ritengono in grado di scegliere quelli che nel pubblico impiego debbono essere licenziati e quelli che non lo debbono essere.
Si vuole forse allegramente arrivare alla barbarie dello spoiling system, ad ogni cambio di maggioranza?
Questa sarebbe una cosa auspicabile per un paese civile?
Un conto è il singolo imprenditore che direttamente conosce i suoi dipendenti e ha diritto a sceglierseli, ma nello stato chi dovrebbe fungere da re? Di volta in volta uno nuovo?
visto che parla di paese civile, si renda conto che è incivile avere uno staff pubblico delle dimensioni di quello italiano, io non so CHI dovrà essere licenziato, ma che il numero di addetti dela PA sia abnorme lo sanno anche i bambini, e sanno anche che molti di questi dipendenti sono stati assunti negli enti locali per un palese voto di scambio. Recentemente hanno pizzicato diversi dipendenti della prefettura della mia città che timbrano il cartellino e poii escono, alcuni a vivere una seconda vita lavorativa. Tutti indignati per un giorno, ma nessuno ha fatto notare che, restando in ufficio, molti di loro non avrebbero un BEEP da fare…
Buon anno a tutti
Municipalizzate, partecipate, aziende speciali e compagnia cantante sono una escrescenza abnorme sviluppatasi principalmente a partire dalle due fallimentari “privatizzazioni” a furor di popolo dell’inizio degli anni 90 e poi di prima del 2000.
Ci si può entrare per cooptazione e non per concorso. Tutto qui. Ecco dove finisce tutto il furore antistatale.
Che poi il giuramento al partito favorisca la lotta all’assenteismo mi pare una cosa difficile da sognare