1
Mar
2014

Internet: “albergo del demonio”? (seconda parte)

La questione inerente il c.d. hate speech in rete, esaminata per alcuni profili nella prima parte, può essere affrontata anche sotto un altro versante.

Introduce efficacemente l’argomento, ancora attinente ai costi e ai benefici conseguenti a una regolamentazione del web più rigorosa, l’affermazione qui riportata “che reprimere sia indispensabile per un bene più grande, per cui è lecito sacrificare la libertà di espressione e perfino il buonsenso”. Nel perseguimento di detto “bene” – maggiormente rilevante quando comportamenti offensivi in internet coinvolgano gli adolescenti, per i quali il bisogno di protezione è ancora più sentito – varrebbe impiegare risorse illimitate e sopportare qualunque costo, diretto o indiretto, connesso all’attuazione di politiche restrittive della manifestazione del pensiero in rete, ai fini di una tutela quanto più possibile estesa. Del resto, la battaglia contro gli infiniti pericoli del mare aperto del web solo con mezzi infiniti potrebbe essere combattuta: da ciò consegue che, in forza del principio di proporzionalità tra regolamentazione adottata e finalità perseguite, qualunque restrizione alla libertà di espressione personale ivi esercitata andrebbe tollerata. Alla considerazione relativa alla infinitezza delle risorse potenzialmente da impiegare si aggiunga la valutazione circa l’ambito sul quale i meccanismi di controllo dovrebbero operare, vale a dire la rete: essa ha una portata sconfinata poiché, da un lato, non è suddivisibile territorialmente, dall’altro, ospita scambi che avvengono a ritmi oltremodo veloci. Appare, quindi, evidente che è molto elevato il rischio di compiere sforzi smisurati nel tentativo di controlli di massa volti a filtrare espressioni di hate speeching – da qualunque fonte ovunque situata – inidonei comunque a ottenere risultati commisurati all’impegno profuso. Ciò non viene, forse, considerato quando si richiama il superiore interesse della collettività – sostenuto da un’ondata mediatica di emozionalità – alla repressione di certi attacchi offensivi in rete, non reputandosi al riguardo sufficienti i rimedi giuridici già previsti. Si reclamano, quindi, misure che spaziano dalla moderazione delle pagine web (v. qui, ad esempio), al controllo da parte dei provider dei contenuti inseriti in internet al fine di inibire quelli potenzialmente nocivi (in tal senso, un progetto di legge del 2002 in materia di protezione dei minori che utilizzano la rete; inoltre, le motivazioni della sentenza di primo grado, successivamente annullata, relativa al caso Google-Vividown; o la proposta, di qualche anno fa, di chiudere social network per omessa vigilanza in caso di commenti tali da costituire apologia di reato o istigazione a delinquere). Circa le conseguenze che da ciò potrebbero derivare, questo sintetico scritto è illuminante: misure ulteriori rispetto a quelle già esistenti, volte a imporre un qualsivoglia filtro al materiale immesso in rete, avrebbero l’effetto di “censurare” anche idee arricchenti nel coacervo di quanto qualcuno, invece, arbitrariamente reputa dannoso. Inoltre, come qui evidenziato, soffocare normativamente determinati contenuti e, quindi, “eliminando l’odio dalla sfera del visibile in rete, in sostanza, si perde la documentazione – e non si sradica il fenomeno alla radice”; inoltre,  “si perde in termini di comprensione di ciò che emerge delle loro dinamiche, per non parlare di libertà di espressione”. Dunque, il metodo per affrontare problemi reali che nel virtuale trovano solo un canale di emersione, ma traggono origine altrove, non può consistere nella soppressione delle loro manifestazioni. In questo modo, infatti, si corre il rischio che importanti informazioni circa le motivazioni, la consistenza e l’evoluzione dei fenomeni considerati non vengano conosciute, con la conseguenza che rispetto a essi si avrà un approccio limitato e non esaustivamente fondato. La demonizzazione della rete, stigmatizzata quale ambiente atto a stimolare condotte svilenti, produce per altro verso l’effetto di indurre a ritenere che i problemi a esse connessi possano essere risolti mediante una regolamentazione del web più rigorosa. Ne discende che tendano a non venire adeguatamente considerate né le cause sottostanti a quanto su internet accade, da quest’ultimo portate soltanto in evidenza, né la circostanza che ogni comportamento dipende dalla libera scelta di ogni individuo e dalla sua capacità di discernimento. Il web è solo lo strumento di espressione di una personalità che si forma fuori dal virtuale: ivi vanno ricercate le ragioni di condotte aggressive o, comunque, lesive degli altrui diritti, al fine di affrontare il problema alla radice e non semplicemente con riguardo alle sue estrinsecazioni in rete.

Infine, un ulteriore aspetto merita di essere considerato. Al di là di quanto in precedenza esposto, una legge dello Stato difficilmente potrebbe risultare adeguata alle connotazioni del web sopra evidenziate, vale a dire il superamento di ogni categoria spaziale, nonché il ritmo e la flessibilità che ne caratterizzano l’utilizzo. Da tempo, in ambito comunitario soprattutto, sempre maggiore è il ricorso alla c.d. soft law, vale a dire una disciplina emanata al di fuori di un formale processo legislativo, ad opera di organi non investiti della relativa funzione istituzionale, più idonea della normazione tradizionale a fornire soluzione giuridica a realtà transnazionali e in evoluzione costante. Nel fenomeno suddetto, relativamente al quale si rimanda a questo testo di Serena Sileoni, possono essere ricompresi, tra gli altri, anche gli atti di autoregolamentazione, strumenti più duttili, meno onerosi e in taluni casi più efficaci della normativa statuale. Con riferimento alla materia in esame, come qui si rileva, l’articolo 16 della direttiva 2000/31/CE (c.d. “Direttiva sul commercio elettronico”) prevede che “1. Gli Stati membri e la Commissione incoraggiano: e) l’elaborazione di codici di condotta riguardanti la protezione dei minori e della dignità umana”. Dunque, in sede UE, con riferimento alla materia in discorso, il ricorso alla soft law viene auspicato. Su questo solco, anche in forza della campagna “No hate speech” lanciata di recente dal Consiglio d’Europa, è stato approvato il primo Codice di autoregolamentazione per la prevenzione e il contrasto del fenomeno del cyber-bullismo, riguardo al quale si è appena conclusa la fase di consultazione. Il rispetto del Codice predetto, in quanto rimesso alle parti in causa, eviterebbe l’intervento dello Stato nell’ambito considerato: questo potrebbe costituire già un buon risultato. Ciò nonostante, non è escluso il rischio di una sorta di “censura privatizzata”, cui sopra si è accennato. Verrebbe attribuito, infatti, ai provider aderenti al Codice citato la valutazione e l’eventuale rimozione di eventuali contenuti lesivi immessi negli spazi di rispettiva pertinenza: a detti soggetti verrebbe così assegnato un ruolo suppletivo rispetto a quello che compete alle autorità preposte. Ciò comporterebbe, per i provider, i costi connessi all’adozione di meccanismi e procedure di controllo e filtro; per gli utenti del virtuale, il danno correlato alla limitazione della libertà di espressione sulla base di valutazioni sommarie, ovvero indotte da segnalazioni di abuso talora meramente strumentali; per la collettività, la perdita derivante dall’incertezza operativa di norme le cui modalità di applicazione concreta sono rimesse alla valutazione discrezionale dei soggetti interessati.

Da quanto fin qui esposto, risulta chiaro come qualunque disciplina della comunicazione in internet risulti fondata su intenti “censori” che, se trasfusi in norme, verrebbero in senso proprio legittimati. Appare altresì palese come queste ultime, più che finalizzate a far maturare una coscienza civile sull’utilizzo della rete, perseguano l’obiettivo di modificare la rete stessa incidendo sulla sua essenza, vale a dire la libera manifestazione del pensiero. Sulla base dell’analisi di impatto da cui si sono prese le mosse, può ragionevolmente affermarsi che quello appena indicato sarebbe un costo troppo elevato. Il fatto è che quanto sfugge al controllo, perché opera ed evolve in maniera spontanea al di fuori di canali obbligati, intimorisce molti, probabilmente anche lo Stato. Pertanto, chi non abbia sufficiente confidenza con la libertà in ogni sua espressione pretende che il web sia irreggimentato, nell’illusione che in questo modo l’ordine possa essere mantenuto per il tramite di controlli rigorosi: il legislatore viene così indotto, come spesso accade, nella tentazione di “moralizzare”. Forse esso vuole educare chi si avvale della rete a più nobili sentimenti, nutrendo la presunzione che per legge sia possibile eradicare l’odio dagli umani; oppure reputa di disporre dell’onnipotenza che serve a proteggere i singoli da tutti i mali del mondo, web compreso, e da se stessi, in fondo. Solo diffondendo una cultura volta al buon uso di detto strumento, così come di qualunque altro mezzo utile al reciproco scambio, potrà favorirsi la maturazione della consapevolezza necessaria a discernere i comportamenti più adeguati in ogni ambito del vivere sociale, di cui il web è solo una parte, non il cardine essenziale. E’ in detta opera culturale che vanno profuse risorse adeguate, non nella disciplina della rete, inidonea a risolvere problemi alla radice e atta, invece, come in precedenza dimostrato, a deresponsabilizzare. Del resto, ciò accade quando uno Stato sempre più invasivo pretende di imporre agli individui, anche nel virtuale, il proprio metro di giudizio su cosa sia giusto e cosa sbagliato: questa è la sostanza del paternalismo.

Dunque, se il metodo è la cultura, il convincimento che internet sia “albergo del demonio” (dal film “L’avvocato del diavolo”), sì che su di esso occorra intervenire con nuove leggi, è di certo un approccio contraddittorio. L’emozionalità non è supporto idoneo all’analisi di problemi concreti, anche se questa è “politica” – in ogni senso intesa – molto diffusa. Solo mediante la razionalità il rischio di finire all’Inferno può forse essere scongiurato.

 

 

Le opinioni sono espresse a titolo personale e non coinvolgono in alcun modo l’ente di appartenenza (Consob)

 

 

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2 Responses

  1. “Solo mediante la razionalità il rischio di finire all’Inferno può forse essere scongiurato”. Ohibò!… ma allora son rimasto indietro… credevo che – visto che, dopotutto, siamo su un piano metafisico – la questione vertesse più che altro sul desiderio del Paradiso… cioè nel lasciarsi andare, con ragione, certo, ma anche con fede, a rispondere all’amore del Dio Trinitario. Cioè, un “di più”, il massimo del più che ci può essere, non un “meno peggio” rispetto ad una destinazione poco invogliante. Però c’è quel “forse” che sembra riassestare il concetto.
    Beh, non mi sarei aspettato di veder trattati questi temi su Blog, spazio dove usualmente si ragiona di cose molto terrene, “razionali” teorie economiche, freddi dati e cifre. Però è giusto così. Paradiso e Inferno, in quanto realtà assolute, hanno stretta relazione con l’economia, come commentavo nella prima parte.

  2. John

    @Tossani: Era una figura retorica, nel momento in cui internet è albergo del demonio, l’unico modo per salvarsi dagli inferi risiede nella testa delle persone, non in leggi paternalistiche, che limitano la libertà in rete a prescindere che venga commesso reato o meno.
    Il metafisico è usato solo per rappresentare il concetto.

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