Internet: “albergo del demonio”? (prima parte)
In un’epoca che impone semplificazioni concettuali di dubbia consistenza, il rischio di confondere lo strumento con il cattivo uso che di esso viene fatto è molto alto. Così, ad esempio, il libero mercato viene demonizzato perché spregiudicatezza e malaffare ne sarebbero gli elementi connotanti. Non si riflette sulla circostanza che non è il mercato a essere sbagliato, se fattori distorsivi ne impediscono il buon funzionamento; se l’imposizione fiscale è sempre più opprimente; se una burocrazia tanto radicata quanto straripante agevola una corruzione oltremodo diffusa. Sulla base di premesse così mal poste, si reputa quindi che la strada migliore sia quella di una regolamentazione ancor più invasiva dell’ambito considerato. In tal modo, la situazione viene ancor più aggravata con regole mutevoli e complicate, che non creano di certo un ambiente favorevole alla competizione sana, cioè idonea a premiare i migliori; al contempo, una giustizia dai tempi lenti e indeterminati, nonché sanzioni di incerta applicazione, non inducono alla fiducia nel sistema.
Come il mercato, anche internet viene stigmatizzato quale ricettacolo di elementi potenzialmente idonei a sovvertire i principi fondanti del vivere civile: si pretende, pertanto, venga controllato normativamente in modo specifico e rigoroso per indirizzarne l’utilizzo e così eliminarne i fattori inquinanti. Il funzionamento dei due ambiti citati, vale a dire internet e il mercato, dovrebbe invece trovare il proprio cardine essenziale nell’auto-assestamento e, dunque, nella valutazione da parte dei consumatori/utenti della bontà delle idee/merci scambiate: ciò che è sprovvisto di utilità, valore o consistenza ne verrebbe così escluso in forza della selezione operata. Tuttavia, se la “logica” prevalente con riguardo al virtuale è quella per cui nel “divario tra le forze in campo, la libertà rende schiavi e le leggi rendono liberi” (relazione al disegno di legge C. 2195), ogni principio di autoregolazione del web viene ab origine rifiutato. Forse, chi di quest’ultimo invoca una normativa quanto più stringente omette di considerare che la rete non è la “sconfinata prateria (…) dove tutto è permesso e niente può essere vietato”, essendo già previste disposizioni idonee a sanzionare ipotesi di ingiuria, diffamazione e altri comportamenti lesivi degli altrui diritti ovunque realizzati, web compreso. Mediante misure restrittive ulteriori, volte a fare in modo che certi abusi non vengano ivi compiuti, il mezzo stesso – veicolo di circolazione di idee – finirebbe per essere snaturato.
Vero è che quando in internet si verificano manifestazioni di odio, discriminazione o comunque offensive (c.d. hate speech) e, soprattutto, quando ad esserne coinvolti sono adolescenti, vacillano certezze consolidate; sì che nella ponderazione fra interessi contrapposti – la libertà di espressione, da un lato, e la tutela dei minori in un mare aperto qual è quello del web, dall’altro – l’istinto protettivo tenderebbe a prevalere. Tuttavia, la domanda “cosa vale di più: la libertà d’Internet o la vita di una ragazzina?”, se pare avere un senso ben determinato alla luce di episodi recentemente occorsi, è comunque formulata con l’intento di indurre una risposta quasi obbligata. Così il problema è mal posto: non è sull’emozionalità che scelte consapevoli e razionali possono essere fondate. Si consideri, innanzi tutto, che misure di controllo e proibizione proposte dal legislatore con riguardo al virtuale (qui quella da ultimo presentata) non solo sono inidonee a contenere comportamenti variamente lesivi, che nella vastità della rete troveranno sempre comunque il modo per essere realizzati; ma potrebbero altresì sortire l’effetto opposto, sollecitando nei destinatari una sorta di sfida tesa ad aggirarle (c.d. rischio reattanza). In ogni caso, l’ingerenza paternalistica dello Stato volta variamente a limitare la libertà personale, nel presupposto che i singoli siano incapaci di autoregolarsi e pertanto debbano essere correttamente indirizzati, produce pessimi risultati. Infatti, la funzione suppletiva alla capacità di discernimento individuale svolta dal legislatore fa sì che la collettività stenti ad acquisire una maggiore consapevolezza di quanto in essa accade, a maturare una coscienza sia individuale che sociale, nonché a evolvere spontaneamente verso livelli di civiltà maggiori. Occorre, dunque, porsi in una prospettiva diversa e affrontare la questione delle esternazioni offensive in rete con la lucidità che essa richiede. Con particolare riferimento al c.d. cyber-bullismo ciò è forse più difficile, ma oltremodo importante.
Innanzi tutto, occorre prendere le mosse dai dati concretamente rilevati, al fine di valutare quale sia la realtà fattuale sulla quale un’eventuale regolamentazione più stringente del virtuale è destinata ad impattare. Solo su queste basi può effettuarsi quella comparazione ponderata di interessi contrapposti – la libertà di espressione e le restrizioni funzionali alla tutela di chi si avvale della rete – cui sopra si accennava, che dovrebbe trovare sintesi e valorizzazione nella scelta di regolamentazione e di quest’ultima costituire motivo fondante, qualora adottata. Con specifico riguardo all’uso del web da parte degli adolescenti e alle conseguenze che esso sarebbe idoneo a comportare, dall’indagine qui menzionata si rileva che il 72% dei ragazzi reputa il bullismo in generale, e non il cyber-bullismo in particolare, “un pericolo forte in questo momento”. Dai dati riportati emerge che per l’83% degli intervistati l’uso di internet o del cellulare può “peggiorare la situazione” o renderla “più grave e dolorosa per chi la subisce”, quasi che il virtuale rafforzasse un senso di impotenza in chi è oggetto di aggressioni. In relazione a detto ultimo aspetto, forse servirebbe una maggiore informazione nei riguardi di chi naviga nel mare della rete circa gli strumenti di tutela apprestati dall’ordinamento a fronte di fattispecie lesive dei diritti e delle libertà individuali, qualsivoglia sia il veicolo utilizzato. Di recente soprattutto, al fine di giustificare la necessità di una regolamentazione ad hoc, al web e ai social network, in particolare, è stata imputata anche la colpa di aver indotto degli adolescenti al compimento di gesti estremi. Tuttavia, sulla base di dati Istat, qui si spiega chiaramente come, al di là di ciò che viene divulgato, non sono i giovani quelli più propensi a compiere tali gesti, che peraltro proprio tra i giovani sono da ultimo diminuiti. Pertanto, il convincimento che internet abbia una portata potenzialmente pericolosa per i minori in special modo, posto a base della richiesta di una disciplina quanto più rigorosa, invocata soprattutto al verificarsi di casi emozionalmente coinvolgenti, tende a essere così smentito dai dati concreti sopra citati. Laddove si consideri, peraltro, che il bullismo non è originato dal virtuale, bensì dal quotidiano della vita “reale”, come qui si vede, tra gli altri, appare evidente che colpire certe manifestazioni in rete con disposizioni ulteriori rispetto a quelle già esistenti non risolva il problema alla radice.
Quanto sopra rilevato dimostra che la valutazione preventiva della realtà fattuale sulla quale un’eventuale disciplina sia destinata a operare – momento essenziale, peraltro, di ogni analisi di impatto (AIR) – è oltremodo importante al fine di verificare la validità dei presupposti logici di ogni intento prescrittivo, nonché delle conseguenti proposte normative. Soprattutto, essa è fondamentale al fine di effettuare la scelta migliore circa la regolamentazione da adottare, ma altresì al fine di decidere eventualmente di non adottarne alcuna (c.d. opzione zero), laddove l’analisi svolta dimostri che la regolamentazione stessa non è necessaria. Ciò si verifica quando quest’ultima non sia sufficientemente motivata, come sopra dimostrato con riguardo a una disciplina più restrittiva della rete. Alla stessa “opzione zero” dovrebbe pervenirsi, inoltre, qualora i precetti da introdurre fossero superflui, come si verifica, ad esempio, quando certi principi sono già presenti nell’ordinamento, sì che alcune disposizioni tese a sancirli appaiono “ridondanti o inutili, altre mere specificazioni o aggiustamenti di altre norme”: anche questo è stato rilevato relativamente alla più volte citata proposta di legge sulla materia in argomento, qui tra gli altri. La scelta di non introdurre alcuna regolamentazione dovrebbe essere effettuata, com’è ovvio, pure nel caso in cui la disciplina fosse idonea non solo a non arrecare benefici, ma addirittura a produrre danni: anche queste ipotesi possono essere riscontrate relativamente a una nuova disciplina della rete. Con riguardo al versante relativo agli eventuali vantaggi, prospettati ma in concreto inesistenti, si consideri ad esempio il profilo attinente l’anonimato: esso viene spesso indicato quale elemento incentivante manifestazioni violente, di talché dovrebbe essere vietato al fine di scongiurarle. Qui e qui e qui, tra gli altri, si dimostra che l’anonimato sul web non esiste, potendo chiunque essere rintracciato mediante appositi mezzi. Dunque, nelle comunità virtuali ove si verifichino attacchi ad altri utenti i quali, di conseguenza, si rivolgano alle autorità preposte, può risalirsi alle persone fisiche cui facciano capo i nickname coinvolti. Pertanto, una norma che prevedesse l’obbligo di identificazione puntuale per chiunque interagisca in rete, oltre alle difficoltà applicative rilevabili immediatamente (qui ne vengono evidenziate alcune, con riferimento al già richiamato progetto di legge disegno di legge C. 2195), rientrerebbe fra quelle la cui inutilità è comprovata, sì che la citata“ opzione zero” sarebbe l’unica adeguata. Sempre in ordine all’anonimato, per altro profilo è stato dimostrato che il menzionato presupposto logico di una norma volto a vietarlo – vale a dire che esso favorisca certi attacchi violenti nel virtuale – è comunque infondato (v. qui): “fenomeni di hate speech online non sono affatto alimentati dalla presunzione di anonimato, visto che molti si firmano tranquillamente”. La norma suddetta sarebbe quindi inutile anche sotto detto versante, poiché talora è proprio la possibilità di essere “riconosciuti” in una data cerchia di persone che induce a mettersi in mostra (come qui e qui si vede, in relazione a fatti di cronaca recenti). Che ciò avvenga in internet o nel reale non fa molta differenza, fatta salva la circostanza che la comunità sul web è più estesa e, quindi, più ampia è la cassa di risonanza per chi non cerca il nascondimento, come vorrebbe l’assunto di partenza, bensì il suo opposto. Da quanto fin qui rilevato discende, quindi, che una norma volta a vietare l’anonimato, dai censori del web invocata come elemento deterrente dalla commissione di abusi e violazioni di diritti, non recherebbe alcun beneficio, essendo invece inutile, come dimostrato. Ma ciò non basta poiché, come accennato, essa potrebbe addirittura recare danno, sì da indurre indubitabilmente a preferire la più volte citata “opzione zero” a una qualsivoglia ipotesi di regolamentazione volta a imporre l’identificazione. Si pensi, ad esempio, al controllo che potrebbe essere operato su qualunque soggetto che, per qualsivoglia motivo, si intenda “profilare”. L’obbligo di trasparenza anagrafica imposto a coloro i quali interagiscano sul web finirebbe per rendere coattivamente la loro stessa esistenza una casa di vetro, l’accesso alla quale finirebbe così per essere consentito a chiunque: è di tutta evidenza che ciò non può essere tollerato. Peraltro, con particolare riguardo ai minori, per i quali il divieto di anonimato varrebbe comunque, le conseguenze sarebbero ancora più gravi: l’identificazione certa degli stessi potrebbe esporli a rischi ancora maggiori di quelli che, mediante il divieto suddetto, si intenderebbe prevenire (v. qui, ad esempio). L’obbligo di identificazione potrebbe recare svantaggi anche sotto tutt’altra prospettiva. Sembra, infatti, che l’anonimato non solo favorisca l’”espressione creativa”, come qui si dimostra, ma che costituisca altresì mezzo idoneo “a promuovere una forma di meritocrazia e competizione tra concetti, più che tra persone”: ciò sarebbe importante soprattutto in Italia, “dove gli argomenti ad hominem regnano indisturbati”. Anche detta argomentazione vale a dimostrare che la più volte citata “opzione zero” sarebbe quella da preferire circa l’ipotesi di una rigorosa disciplina del virtuale, considerato l’ulteriore costo che quest’ultima potrebbe comportare: lo svilimento di quell’ampio e libero mercato delle idee che il web è idoneo a realizzare (v. anche qui, al riguardo). Appare evidente come i vessilli agitati da coloro i quali sono usi a demonizzare internet e il suo utilizzo si infrangano contro risultanze concrete ben precise, diverse da quelle che essi pongono a base dei propri convincimenti.
Le opinioni sono espresse a titolo personale e non coinvolgono in alcun modo l’ente di appartenenza (Consob)
Cito: “Così, ad esempio, il libero mercato viene demonizzato perché spregiudicatezza e malaffare ne sarebbero gli elementi connotanti. Non si riflette sulla circostanza che non è il mercato a essere sbagliato, se fattori distorsivi ne impediscono il buon funzionamento”.
Dài e dai, un po’ per volta, è fatale – e anche molto salutare, ne avevamo proprio bisogno! – venire a impattare con la ruvida realtà che, invece, è proprio il mercato ad essere sbagliato. Approfondisco il tema, con un ‘focus’ particolare sul lavoro, qui, dove riassumo la lezione di Pier Luigi Zampetti:
http://lafilosofiadellatav.wordpress.com/fiatpomigliano-darcomelfi-come-mettere-a-frutto-la-lezione-di-pier-luigi-zampetti-per-risolvere-il-conflitto-tra-capitale-e-lavoro/
La scottante materia si collega strettamente alla crisi della democrazia rappresentativa, ma, ancor prima, al fatto che la crisi, in primis, è di natura antropologica, come qualcuno ha giustamente osservato. Ovviamente, abbiamo anche la proposta sul come venirne fuori… una cosa nuova, rispetto a quanto si sente di solito.
Sembra che a noi piacciano le cose complicate. Complicate al punto che: Diventa più facile parlare di teologia che cercar di capire quei comportamenti che emergono con l’uso di strumenti di comunicazione, fornitici dal progresso tecnologico . Comportamenti che si vuol normare ricorrendo sempre più all’uso di addetti del terzo settore sperando anche che partecipi ad alzare il PIL. Lo stesso dicasi di tutte quelle normative che i Comuni stanno allestendo per contenere le corruzzioni. Lo stesso che avviene per controllare le attività di produzione con una miriade di atti burocratici, tutto per non sostituire la carta e le persone che la movimentano con la teleinformatica es. https://secure.avaaz.org/it/petition/Eliminare_gli_abusi_di_potere_nelle_PMI/ ecc. Quando tutto questo avrà fine perchè insostenibile e disaggregante per la società?