Insularità in Costituzione? Già esistita sino alla riforma del Titolo V°
Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Adriano Bomboi (direttore di SaNatzione.eu). Sul tema dell'”insularità in Costituzione” sono stati pubblicati su questo blog anche gli articoli di Carlo Sanna (QUI) e di Umberto Ticca (QUI).
Un aspetto singolare del cosiddetto “comitato scientifico” sardo che promuove il progetto di insularità in Costituzione non tiene conto del fatto che tale strumento è già esistito.
La Costituzione italiana infatti ha riconosciuto il principio di insularità sino alla riforma del Titolo V° avvenuta nel triennio 1999-2001. Così recitava il terzo comma dell’articolo 119:
«Per provvedere a scopi determinati, e particolarmente per valorizzare il mezzogiorno e le isole, lo Stato assegna per legge a singole regioni contributi speciali».
Il testo è cambiato nei seguenti termini:
«La legge dello Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante».
Ciò è stato inoltre integrato da nuovi commi, come ad esempio il 5°, che recita:
«Per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati comuni, province, città metropolitane e regioni».
Nonostante la mole di contenziosi Stato-Regioni affrontato negli anni dalla Corte Costituzionale a causa della complessiva riforma del Titolo V°, il novellato art. 119 rappresenta un evidente miglioramento rispetto alla vecchia versione, per due ragioni principali:
- la prima è che, pur non risolvendo il problema dei divari economici del Paese, è stato cancellato il principio secondo cui esisterebbero precise aree atavicamente considerabili come arretrate in luogo di altre, al punto da meritare una costante elargizione di sussidi (seppur mascherata dall’idea di “valorizzare” e non di “supportare”);
- la seconda è che, in ragione del primo motivo, si è scelto di istruire il principio di coesione sociale e territoriale estendendolo indistintamente a tutte le Regioni (e non solo) suscettibili di manifestare periodi di difficoltà. Questo concetto cancella dunque l’ottica assistenziale presente nel vecchio articolo, introducendo un approccio moderno e transitorio al lavoro di perequazione svolto dallo Stato centrale.
La Costituzione italiana emersa nel 1948 non chiariva tali aspetti, pur garantendo analoga tutela giuridica dei territori insulari, e pur essendo meno chiara della Costituzione spagnola, che include il concetto di insularità nella carta.
Pertanto, alla luce di tali argomenti, è lecito domandarsi: c’è stata una tutela maggiore dell’isola da parte dello Stato sino al 2001?
La complessa e articolata vicenda relativa, ad esempio alla vertenza entrate, financo ai programmi di continuità territoriale, dimostrano che prima del 2001 non vi è stata alcuna differenza di trattamento rispetto al presente. E d’altra parte, solo una certa dose di demagogia e superficialità politica potrebbe pensare che inserire una semplice parola – “isola” – in una carta costituzionale, possa automaticamente cambiare le sorti di quest’ultima. Le cui condizioni di sviluppo dipendono da una vasta serie di variabili, non tutte imputabili al dettato costituzionale, che sono di natura storica, geografica, culturale ed economica.
Se così non fosse, come ha ben ricordato Carlo Sanna nel suo intervento, tutte le aree insulari del globo si troverebbero, ipso facto, in condizioni economiche disagiate e assistite da terzi centri amministrativi maggiori.
Sul pianto scientifico, inoltre, il paper di Marlene Jugl, Finding the golden mean. Country size and the performance of national bureaucracies (Università Bocconi 2019), ci suggerisce che la quantità dell’intervento pubblico non è necessariamente connessa alla qualità dei servizi erogati ad una data popolazione.
Pertanto, quantificare i deficit economici dell’insularità diventa un mero esercizio statistico che non porta automaticamente all’idea – peraltro diffusa nella politica italiana – secondo cui un territorio disagiato avrebbe solamente bisogno di più attenzioni e di più spesa pubblica da parte dello Stato centrale. In quest’ottica, come noto, non solo la Sardegna ma l’intero mezzogiorno italiano avrebbe già sperimentato da anni degli interessanti tassi di crescita, che invece non si sono verificati.
Alla Sardegna non servono più sussidi ma più responsabilità. Ossia maggiore autogoverno, da cui derivano sia diritti che doveri. Ad esempio il diritto ad un fisco a misura di imprese, e il dovere di non reclamare soldi allo Stato o ad altre Regioni se si sperperano i propri.
Che ciò avvenga tramite una difficile riforma federale dello Stato, o tramite una difficile indipendenza della Sardegna, non cambia la sostanza dei problemi, ma sicuramente incide nella retorica nazionalista di chi vuole conservare istituzioni obsolete.