16
Set
2020

Industria, Italia. Ce la faremo se saremo intraprendenti

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Luca Vitale

Solo da un’attenta analisi delle dinamiche che hanno caratterizzato i settori dell’economia italiana nell’ultimo decennio è possibile rispondere ai numerosi quesiti che la pandemia ha impetuosamente posto. Quali settori reagiranno meglio? Dove le perdite saranno maggiori? E, soprattutto, qual è la ricetta per evitare conseguenze drammatiche? Un team multidisciplinare di 23 docenti di 6 diverse facoltà dell’Università la Sapienza, guidato da Riccardo Gallo, ha deciso di costruire un rapporto dettagliato di ogni settore dell’industria italiana. I risultati sono presentati in un libro che finirà con il guidare inevitabilmente le scelte dei policy makers, dal nome, appunto, Industria Italia (il libro è disponibile in download gratuito QUI).

Gli autori si servono principalmente di quattro indici per riassumere le performance settoriali dell’ Industria italiana: la produttività del lavoro, misurata dal quoziente ‘valore aggiunto per addetto’ direttamente proporzionale all’efficacia organizzativa di un’azienda, al livello di capacità produttiva utilizzato e alla desiderabilità del prodotto; il rapporto ‘valore aggiunto su fatturato netto’ che misura ‘’ la complessità e il carattere innovativo del suo ciclo di trasformazione industriale’’, il flusso di cassa necessario per stimare l’invecchiamento dei mezzi produttivi e, infine, la quota detenuta del commercio internazionale come misura della competitività. L’idea è quella di capire il modo in cui i vari comparti dell’economia italiana hanno reagito alla crisi del 2008 per trovare similitudini con l’attuale recessione imposta dal Covid. A tal proposito dallo studio emergono diverse categorie di settori: chi è stato in grado di recuperare prima i livelli pre-crisi 2008 (alimentare, chimica, elettrodomestici, elettronica, farmaceutica e cosmetica, meccanica), chi è riuscito più lentamente ma meglio nel medio-lungo periodo (costruzione mezzi di trasporto, gomma, industria dell’arredamento, metallurgia, sistema moda) e chi invece non è riuscito, a distanza di 12 anni, a tornare competitivo (editoria e stampa, industria del petrolio). Il volano che ha guidato i settori più virtuosi è quello solito: l’innovazione. Il ‘’bandolo della matassa’’ è quindi quello di permettere alle industrie medio-piccole italiane di accedere alle nuove tecnologie, trainate dal digitale, per progredire e fare profitti, facendone godere con equità soci, lavoratori, creditori e stakeholders.

La posizione dell’Italia nei ranking della competitività segnala immediatamente la presenza di un grave problema di predisposizione all’innovazione: 44esimo posto su 63 paesi, al 17esimo posto tra i paesi UE per diffusione della banda larga e risultati ancora peggiori per quel che riguarda l’utilizzo di big data e lo sviluppo dell’e-commerce. Tutto ciò in un 2020 in cui la produzione industriale è già calata di circa 50 punti, ampiezza doppia rispetto alla crisi del 2008. Gli effetti del lockdown non hanno fatto altro che amplificare ed accelerare dei cambiamenti che erano però già in atto. A testimonianza di ciò, basti notare che già a dicembre 2019, ben prima dello scoppio della pandemia, la produzione industriale era apparsa in lenta e progressiva discesa rispetto ai due anni precedenti, segno che qualcosa stava già accadendo. In particolare, gli autori vedono in questi numeri la fine della cosiddetta ‘’globalisation age’’, al termine della quale “per le singole economie nazionali non sarebbe stato più possibile confidare nelle esportazioni come panacea per compensare carenze e squilibri interni’’. E proprio questa impossibilità di recuperare grazie ai mercati esteri è una delle maggiori differenze tra la crisi post-Covid e quella del 2008, insieme al cambiamento del modo di vivere che il lockdown ha imposto e al fatto che rispetto a dieci anni fa, il numero di grandi imprese in Italia si sia sensibilmente ridotto. Quest’ ultimo aspetto non fa che aumentare le difficoltà nell’innovare. Le piccole-media imprese, infatti, non hanno veri e propri reparti di ricerca e sviluppo al proprio interno e non riescono quindi a restare al passo con i propri competitor europei e non solo. La risposta alla crisi non dovrà però passare da un indennizzo a pioggia con bonus per ogni categoria di istanze, scrivono gli autori. Il suggerimento che quindi Gallo etc. si sentono di dare va verso un trasferimento top-down, che venga organizzato non dalle piccole imprese candidate a beneficiarne, né da chi detiene le tecnologie digitali ma ignora le filiere prioritarie, bensì da chi è alla testa di queste filiere e detiene la conoscenza da trasferire alle imprese tramite il digitale.

You may also like

Quel capitalismo all’italiana
La rivoluzione capitalista di Milei
Punto e a capo n. 14
Start-up, ma soprattutto bottom-up

Leave a Reply