13
Apr
2013

In ricordo di Raymond Boudon, maestro di razionalità

Ripensando ora, a un quarto di secolo di distanza, quale fosse la questione cruciale al cuore delle straordinarie lezioni che Raymond Boudon teneva a noi studenti in dottorato della Sorbona, mi sento di dire che tutto gravitasse – in qualche modo – sui mille volti della razionalità umana.

Boudon è morto mercoledì 10 aprile, all’età di 79 anni, e l’opera monumentale che ci lascia rappresenta più di ogni altra cosa un originale tentativo d’indagare la complessità dell’agire umano senza accettare facili scorciatoie.

Nel corso del Novecento una gran parte della cultura accademica ha abbracciato le scorciatoie del freudismo e del classismo, facendo degli uomini il puro riflesso di potenze fuori controllo, mentre al tempo stesso si affermavano – sul fronte positivista – scuole che adottavano un modello ultra-semplificato dell’attore sociale, in grado di generare studi tanto quanto articolati quanti incapaci di afferrare la realtà.

Il sociologo francese ha voluto invece prendere sul serio l’essere umano per quello che è, persuaso che i fenomeni che emergono dagli scambi tra gli uomini siano appunto da indagarsi quali riflesso di azioni e decisioni. In società, l’agire intenzionale di A si combina in modo assai complicato con quello di B, ma il lavoro dello scienziato consiste nel cogliere le motivazioni che hanno indotto i due soggetti a comportarsi così e le logiche che portano quelle azioni a intrecciarsi e a produrre un certo effetto.

Chi si avvicina a un fatto sociale (l’aumento dei prezzi, la pratica della superstizione, la crescita delle diseguaglianze, la mancata diffusione del socialismo in America e via dicendo) deve basare la propria indagine sulla convinzione – a giudizio di Boudon – che il ricorso all’ipotesi di irrazionalità può solo essere solo l’ultima (e disperata) carta da giocare. Il nazismo è un fenomeno politico criminale, ma è uno storico di qualità assai modesta quello che lo riconduce a un impazzimento generalizzato del popolo tedesco.

L’ipotesi che in tal modo guarda all’uomo come a un animale razionale è, al tempo stesso, un abito che induce alla modestia. Se vogliamo cogliere le “buone ragioni” altrui dobbiamo infatti mettere da parte ogni schema troppo apollineo e illuminista. Per dirla con l’Amleto shakespeariano, “c’è del metodo in quella follia” che governa le cose umane: il che significa che se un imprenditore ricorre a una maga, ad esempio, questo nasce dall’esigenza – che ha una sua logica – di semplificare (e gestire) questioni di una complessità che altrimenti sfugge di mano. Siamo di fronte a un bisogno profondo che non trova una risposta cognitiva e questa tensione – psicologica, funzionale, esistenziale – ha nella fattucchiera una sua, pur contestabile, risposta.

Le “buone ragioni” che gli studi di Boudon mettono al centro dell’analisi aiutano allora a restare nel campo della riflessione razionale, e al tempo stesso svelano un’umanità molto meno cartesiana di quella su cui poggia la modellistica adottata dalla scuola della scelta razionale. L’originale contributo boudoniano consiste proprio nel ritenere necessario adottare un approccio modesto, consapevole dei limiti umani e della nostra strutturale ignoranza.

La moderazione, naturalmente, era anche un tratto caratteriale. Quando l’incontrai per la prima volta, alla Maison des Sciences de l’Homme di boulevard Raspail (a Parigi), gli presentai la mia ipotesi di ricerca e gli chiesi se era disposto a seguire i miei studi. In qualche modo fui fortunato, dal momento che intendevo studiare Gaetano Mosca e lui (grande conoscitore di Pareto) immagino abbia pensato che potesse essergli proficuo avere un allievo che rifletteva sul padre fondatore dell’elitismo italiano. Ma quella sua disponibilità – egli accolse positivamente la mia richiesta e fu sempre quanto mai cortese e disponibile nei miei riguardi – era soprattutto figlia di una curiosità che, anche tra gli studiosi, è ben più rara di quanto non si creda.

Quando discussi la mia tesi e lasciai Parigi, ci furono alcune altre occasioni di incontro. Mi vergogno un poco ad ammetterlo, ma fu più lui a cercare me, che non il contrario. Mi sollecitò alcuni testi e mi invitò a un paio di convegni, mentre i miei studi si orientavano in altre direzioni e quei lavori su elitismo e metodologia finivano per passare in secondo piano.

La sociologia di questo studioso, in effetti, è stata soprattutto un’epistemologia e una metodologia. Dopo aver riflettuto sull’utilizzo della matematica nelle scienze sociali e dopo avere indagato la nozione di struttura (entro una Francia affascinata da Claude Lévi-Strauss e pronta a innamorarsi di ogni genere di post-strutturalismo più o meno marxisteggiante), a partire dal volume del 1977 su effetti inintenzionali e ordine sociale, Boudon ha concentrato i suoi interessi sull’individualismo metodologico e sui limiti della conoscenza, sull’autoinganno che contraddistingue larga parte del modo in cui interroghiamo la realtà, sullo stretto legame che connette lo scetticismo estremo e il relativismo nichilistico.

Dinanzi a questi temi, egli fu sempre molto equilibrato, refrattario com’era a ogni estremismo. Anche quando s’interrogava – da liberale – su questioni di teoria politica, la sua prospettiva era ancorata a una forte capacità di comprendere le ragioni e i torti di ogni punto di vista, dal momento che un certo senso della relatività delle posizioni gli appariva inseparabile dalla democrazia e, più in generale, da un ordine sociale aperto e plurale.

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1 Response

  1. Leggo molto ma di alcuni autori sono irresistibilmente attratto e allora di loro divoro tutto quello che hanno pubblicato;quando questo succede vuol dire che l’ autore in questione è diventato un magister vitae;per me Raymond Boudon era ed è uno di questi.

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