9
Gen
2013

In morte di James M. Buchanan, economista della libertà

In ogni disciplina, si possono distinguere due tipi di studiosi, secondo il rispettivo modo di contribuire al discorso scientifico: vi sono quelli che perfezionano il lavoro di chi li ha preceduti, offrendo contributi – talora preziosissimi – che sviluppano, correggono o espandono percorsi segnati da altri; e quelli che intravedono sentieri vergini e vi si addentrano, sconvolgendo dalle fondamenta edifici teorici che parevano incrollabili. James Buchanan, scomparso quest’oggi all’età di novantatré anni, apparteneva alla seconda categoria.

La carriera di Buchanan è stata costellata di fervidi incontri. Il primo con Frank Knight, che all’Università di Chicago ne fu il mentore e le cui lezioni di teoria dei prezzi hanno trasformato il giovane socialista Buchanan in un raffinato esegeta del mercato. Il secondo con Knut Wicksell, la cui (per certi versi oscura) produzione sollecitò l’interesse di Buchanan per la scienza delle finanze, analizzata nella sua connessione con le sottostanti teorie della giustizia nella tassazione. Il terzo con l’Italia, o – per meglio dire – con la tradizione italiana dell’economia pubblica incarnata da autori come Pantaleoni, De Viti de Marco, Montemartini, Puviani ed Einaudi, il cui studio – durante un lungo soggiorno romano – spinse Buchanan a varcare i confini dell’economia ortodossa per avventurarsi in un’esplorazione della politica. Il quarto con Gordon Tullock, che di questa spedizione, volta ad analizzare i meccanismi delle scelte pubbliche non alla luce della “mitologia hegeliana” dello Stato, bensì (secondo la “prospettiva italiana”) attraverso l’osservazione delle attività dei suoi “umanissimi agenti”, fu per decenni co-protagonista – pur senza coglierne interamente i frutti, per l’avarizia della sorte o del comitato per il premio Nobel.

Buchanan alla cerimonia di premiazione del premio Nobel

A ciascuno di questi sodalizi – corporei o ideali – Buchanan aggiunse il lievito della propria sensibilità scientifica, cavandone molto più di quanto vi era implicito nelle premesse. Non fu un velocista che sapeva battezzare la ruota giusta, ma un capitano che conosceva l’efficacia del gioco di squadra. In questo senso, non fu tanto Puviani a ispirare Buchanan, quanto Buchanan a ritrovare in Puviani i semi di una riflessione di cui nessuno prima di lui aveva riconosciuto i prodromi.

Il punto più alto della parabola di Buchanan fu il lavoro pionieristico, condiviso appunto con Tullock, nella teoria delle scelte pubbliche. I due autori ebbero un’intuizione fondamentale: quella di utilizzare gli strumenti teorici dell’economia per esaminare i fenomeni politici, sulla base dell’osservazione elementare, ma sino ad allora trascurata, che anche gli agenti politici operano scelte economiche, cioè scelte orientate alla soddisfazione di interessi propri: o, in altre parole, che l’interesse pubblico è pur sempre l’interesse privato di gruppi qualificati. In realtà, almeno un tentativo di guardare alla politica con gli occhiali dell’economista era già stato svolto in precedenza: ma l’esercizio di Anthony Downs (An economic theory of democracy) non convinceva pienamente, in parte perché estraneo a una prospettiva individualistica, in parte perché orientato dall’intento apologetico di legittimare la politica come un’altra faccia del mercato. Per Buchanan e Tullock, invece, i “mercati politici” sono “non-mercati”, in cui la distribuzione degli incentivi è radicalmente diversa, proprio perché le scelte collettive – diversamente da quelle private – concentrano i benefici e spalmano i costi. Quest’analisi degli arcani del potere smaschera l’illusione che lo stato sia un monolito benevolente e alla ricerca del bene comune, e le sosituisce l’immagine più realistica di pubblici poteri in balia di interessi particolari e proni ai fallimenti del governo (altrettanto, se non più dannosi, dei fallimenti del mercato).

La vastissima produzione di Buchanan annovera, inoltre, incursioni nei terreni della filosofia politica (The limits of liberty), della microeconomia (Cost and choice, il suo libro più “austriaco”), nella scienza delle finanze strettamente intesa, con contributi seminali in materia di debito pubblico. Di Buchanan si deve ricordare anche il peculiare approccio alla metodologia economica e al ruolo degli economisti (What should economists do?). L’economia di Buchanan è una scienza umana (e umanistica), diffidente rispetto alla matematizzazione della disciplina, ai modelli di equilibrio generale, alle caratterizzazioni astruse degli agenti economici come “massimizzatori” anziché come autori di scelte, e sensibile alle influenze dell’etica, delle teorie della giustizia, del diritto (con l’enfasi posta sull’importanza delle regole del gioco).

Come scrisse lo stesso Buchanan, nella sua idea di economia, l’analisi positiva, portata avanti con rigore scientifico, indaga su questioni scelte con una prospettiva normativa e che, in ultima analisi, si possono riassumere in questa domanda: come è possibile per gli individui associarsi senza rinunciare alle proprie libertà? C’è, dunque, al fondo della sua agenda di ricerca, un afflato morale che Buchanan non ha mai rinnegato, e anzi ha rivendicato con passione. Questa felice simbiosi sarà forse la sua eredità più duratura.

Twitter: @masstrovato

You may also like

Un anno di Milei
Consigli di lettura per il 2024 (prima parte)
No, la mafia non controlla il 50% del Pil italiano
C’è troppo inglese nelle università?

Leave a Reply