ILVA: un’Odissea con un brutto finale?
Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Luca Vitale.
L’Italia è da sempre sul podio dei maggiori produttori di acciaio in ambito europeo. Lo sviluppo del settore è strettamente collegato agli impianti costruiti a Taranto nel 1960: l’Italsider. Inizialmente di proprietà pubblica, l’azienda viene privatizzata in seguito ad una grave crisi negli anni Ottanta ed acquistata dalla famiglia Riva.
È qui che assume il nome Ilva (dal nome latino dell’isola d’Elba, dove veniva estratto il ferro che alimentava gli altiforni soprattutto a inizio Ottocento). Il forte impatto ambientale dei forni di produzione dell’acciaio e il conseguente aumento degli indicatori di inquinamento nell’aria e dei decessi per tumore portano la magistratura ad intervenire nel 2012. Viene infatti disposto il sequestro senza licenza d’uso delle aree a caldo dell’acciaieria per gravi violazioni ambientali, il sequestro preventivo di 1 milione e 700 mila tonnellate di prodotti finiti, molti dei quali già venduti, per un valore di circa un miliardo di euro e le misure cautelari per alcuni vertici aziendali. Tuttavia, il processo di produzione nel settore siderurgico prevede un’attività incessante, ed arrestare la produzione anche per un breve periodo porta con sé gravi conseguenze. Tra quest’ultime vanno incluse anche la perdita immediata di clienti, perdita di reputazione, di competenze oltre che di capacità operativa.
La decisione della magistratura del 2012 risulta essere quindi una delle cause fondamentali della crisi acuitasi negli anni successivi, soprattutto se si considera che le misure sono state prese in via cautelativa e, ad oggi, nessuna condanna è ancora stata emanata. Per sbloccare dai sequestri gli impianti sottoposti a lavori di risanamento e garantire così la tutela dei posti di lavoro degli operai, il governo Monti emana un decreto che autorizza la prosecuzione della produzione dell’azienda. Dopo tre anni di commissariamento e uno di amministrazione straordinaria, nel 2016 viene pubblicato un bando di gara con l’invito a manifestare interesse per l’Ilva. L’offerta migliore risulta essere quella della cordata ArcelorMittal-Marcegaglia riunita nella joint venture AmInvetCo. Nel 2017 il ministro dello sviluppo economico Carlo Calenda firma il decreto di assegnazione ad ArcelorMittal (nel frattempo si è sfilato il gruppo Marcegaglia). Sin dall’insediamento del primo governo Conte iniziano però i tentativi di annullare l’accordo: il nuovo ministro dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio chiede all’ ANAC di indagare sulle procedure di gara. L’autorità riscontra dei vizi nella procedura ma non tali da dichiararne l’annullamento.
Nel 2019 ArcelorMittal dichiara però di voler lasciare l’ex Ilva e le motivazioni sono principalmente due: l’abolizione dello scudo penale e i successivi provvedimenti dei giudici di Taranto. Oltre ad una generale tutela prevista dall’art. 51 del Codice Penale per chiunque adempia un dovere o un obbligo stabilito della legge, era infatti stata prevista da un decreto-legge del 2015 una disposizione ad hoc: una norma con la quale si era voluto di fatto assicurare una protezione legale sia ai gestori dell’azienda, che ai futuri acquirenti relativamente all’attuazione del piano ambientale della fabbrica. Evitare, in pratica, che attuando il piano ambientale, normato da un Dpcm del settembre 2017, i commissari o i futuri acquirenti del siderurgico restassero coinvolti in vicissitudini giudiziarie derivanti dal passato, essendo l’inquinamento Ilva un problema di lunga data. Tale scudo era stato richiesto come condizione necessaria per gestire l’azienda sia dai Commissari stessi che dai potenziali acquirenti. Dopo una prima abrogazione di tale immunità nel decreto Crescita, e un nuovo accordo tra governo e ArcelorMittal che di fatto rendeva più circoscritto l’ambito di applicazione dello scudo, la Corte Costituzionale dichiara illegittima la norma contenuta nel decreto del 2015. Sebbene la Corte non si sia pronunciata sul nuovo accordo tra Ministero e ArcelorMittal, un gruppo di senatori M5S, tra cui l’ex ministro Barbara Lezzi, sbarrano il passo alla reintroduzione dell’immunità, seppure modificata, e ottengono con un emendamento l’abrogazione dell’articolo specifico all’interno del decreto Crescita.
Ma chi è ArcelorMittal e da chi ne è composta la proprietà? La multinazionale è la più grande produttrice di acciaio al mondo, con un fatturato di circa 76 miliardi di euro. La sede legale è in Lussemburgo ma l’uomo chiave dell’azienda è l’imprenditore indiano Lakshmi Mittal che detiene il 37,4% del gruppo: è presidente e amministratore delegato del gruppo. L’azienda è quotata presso le borse di Parigi, Amsterdam, New York, Bruxelles, Lussemburgo, Madrid. L’impresa è attiva anche in altri settori, in particolare nell’automobilistico, costruzioni, elettrodomestici e imballaggi.
Le decisioni sul futuro del caso Ilva devono inevitabilmente partire da un’analisi del settore siderurgico e dai suoi futuri trend e sviluppi. La World Steel Association prevede una crescita della domanda globale di acciaio di 1,7% nel 2020, a un ritmo più lento rispetto al +3,9 % del 2019. Una crescita sostenuta soprattutto grazie al contributo dei Paesi in via di sviluppo. Inoltre, la domanda globale di acciaio a lungo termine è previsto che si possa assestare intorno all’1%. Il problema principale del settore rimane quello della sovracapacità produttiva, in particolare del più grande produttore ed esportatore di acciaio al mondo, la Cina. Il gigante asiatico è impegnato in questi anni nella realizzazione di un piano di rallentamento della crescita economica per evitare potenziali surriscaldamenti e bolle. Secondo gli ultimi dati OCSE, i principali fattori che contribuiscono ad un aumento della domanda di acciaio in Europa sono un aumento di domanda nella “construction industry” (5%) e nel “mechanical engineering” (4%). Sempre secondo gli ultimi dati, l’Unione Europea risulta il più grande importatore di acciaio al mondo con una crescita del 9,6% rispetto all’anno precedente. Va sottolineato che tali stime degli andamenti di mercato risentiranno inevitabilmente del rallentamento delle economie dovute allo shock esogeno Coronavirus.
I dati mostrano andamenti moderatamente incoraggianti. Di conseguenza, seppur lenta, una crescita della domanda globale di acciaio potrà incentivare nuovi privati ad entrare nel mercato, soprattutto per soddisfare la domanda europea, che come visto, risulta essere prima importatrice. L’aspetto chiave da tenere in considerazione per il futuro dell’ex Ilva è l’assenza di fallimenti del mercato che giustificherebbero un ingresso statale. Il libero mercato per il settore siderurgico rimane quindi il miglior approccio, anche senza considerare gli ingenti costi che il bilancio pubblico si ritroverebbe ad affrontare, con immediate conseguenze sul debito pubblico, in caso di nazionalizzazione. Il mercato siderurgico globale, infatti, si presenta come un settore in cui i prezzi sono regolati dalle normali dinamiche di domanda e offerta, con alta competitività e margini di profitto per gli imprenditori. A tali motivazioni strettamente economiche si legano altri due fattori che scoraggiano l’ingresso statale: l’innovazione e l’impatto ambientale. È ampiamente condivisa l’idea che il privato riesca più facilmente a portare innovazioni nei settori in cui è presente e tali innovazioni sono la chiave per ridurre in maniera significativa l’impatto ambientale della produzione dell’acciaio.
A sostegno della non nazionalizzazione di Ilva giungono i dati circa la performance economica dell’azienda negli anni di commissariamento e, di fatto, di amministrazione pubblica. Nel 2015 l’Ilva ha perso in media 50 milioni al mese (quindi 600 milioni nell’anno), 25 nel 2016 (300 milioni), 30 nel 2017 (360) e 25 nei primi otto mesi del 2018 (200 milioni). In pratica dal 21 gennaio 2015, inizio dell’amministrazione straordinaria, a oggi, l’Ilva ha perso 1,46 miliardi di euro. Dall’assegnazione ad ArcelorMittal (5 giugno 2017) all’accordo con i sindacati (6 settembre 2018) si sono persi circa 380 milioni. Se si considera che inizialmente la gara si sarebbe dovuta chiudere a giugno 2016, nel conto dei due anni di ritardo vanno aggiunti altri 330 milioni, che portano il totale a circa 700 milioni. Per gli anni 2012/2014, si può far riferimento ai numeri emersi dalla data room a cui ebbero accesso le aziende che presentarono la prima manifestazione d’interesse: emergono perdite per 2,1 miliardi. Complessivamente sono quindi 3,6 miliardi le perdite del dopo Riva, quasi quanto i 4 miliardi offerti da ArcelorMittal per rilevare l’Ilva. Inoltre, anche sul piano della sicurezza sul lavoro, durante gli anni di commissariamento nulla è stato fatto per mettere in sicurezza l’Altoforno due, posto sotto sequestro a più riprese dopo un incidente mortale occorso ad un operaio nel 2015.
In sintesi, la travagliata storia dell’acciaieria di Taranto è ora in fase di stallo. L’ingresso pubblico nel settore siderurgico potrebbe tramutarsi nell’ennesimo fallimento dello Stato.