Il vero “bene comune” è l’efficienza: il trasporto pubblico di Genova (seconda parte).
La ricognizione circa il concetto di “beni comuni” effettuata nella prima parte ha evidenziato le pericolose conseguenze in termini di inefficienza che possono derivare da un’impostazione strumentale del tema in argomento.
Di queste ultime occorre tener conto con riferimento allo sciopero di Genova, motivato dalla circostanza che il trasporto pubblico locale rientrerebbe tra i “beni comuni” in discorso: dunque, non potrebbe tollerare le eventuali limitazioni che i privati volessero apporvi al fine di perseguire il proprio interesse, vale a dire il profitto. Al riguardo, potrebbe obiettarsi preliminarmente che per il servizio di trasporto, necessariamente svolto da un soggetto imprenditoriale “costituito da conflitti, non da convergenza di interessi…parlare di bene comune è fuorviante” (Rodotà): si tornerà in prosieguo sul punto. Se si va comunque oltre, si rileva il primo equivoco di fondo: l’aggettivo “comune” non è sinonimo di “pubblico”, come a Genova pare si sia ritenuto al fine di escludere qualsiasi cambiamento della situazione attuale. Più propriamente, esso individua coloro i quali di quei beni sono destinatari, la cittadinanza in questo caso. Quindi, non può essere l’appartenenza proprietaria o la titolarità della gestione a connotare il bene in esame, bensì il fatto che esso sia in grado di assolvere al compito che sopra si è delineato, vale a dire recare utilità alla collettività nel suo complesso. E’ detta finalità a essere preminente, qualificandone la categoria di appartenenza. Ne deriva che la mala gestio, comportando sprechi e inefficienze, fa sì che quel bene non possa assolvere allo scopo che si è detto connotarlo: la comunità non può cioè fruirne al meglio. Dunque, anche laddove si reputasse che la mobilità e, di conseguenza, il trasporto pubblico (quello genovese nel caso di specie) sia un bene collettivo e condiviso, dovrebbe tenersi oltremodo conto del fatto che il relativo servizio viene al momento svolto in maniera non adeguata alle necessità della cittadinanza e, comunque, non finalizzando al meglio le risorse impiegate, sussidi pubblici in gran maggioranza. Detta circostanza rende evidente che la gestione pubblica finora realizzata, non garantendo alla collettività l’utilizzazione ottimale, quindi più efficiente, dei beni a essa destinati, finisce per snaturarne l’essenza. Ma ciò non basta: la conduzione così operata fa sì che i singoli vengano altresì deprivati di mezzi finanziari di loro competenza. Non si dimentichi, infatti, che i citati sussidi pubblici, che supportano aziende in perdita come AMT e molte altre, attingono – paradossalmente – alle tasche dei cittadini mediante imposte e tasse, e senza fondo. Perché, se una gestione non viene risanata con misure idonee a evitare sperperi di risorse, è indubbio non sarà mai posta in grado di funzionare senza che si continui a ricorrere ai denari dei contribuenti. Da quanto fin qui esposto risulta evidente che proprio il carattere “comune” di un bene o di un servizio dovrebbe indurre a ritenere preferibile per esso una soluzione orientata alla massima produttività ed efficienza.
Peraltro, sotto tale versante, si rileva un ulteriore importante aspetto. I “beni comuni”, come si è detto, per la necessità di poter essere fruiti da tutti, sono automaticamente sottratti alla disciplina civilistica della proprietà in forza della quale il titolare del relativo diritto dispone dello ius utendi et abutendi sul bene stesso (v. qui al riguardo) E’ lecito chiedersi, a questo punto, se una gestione di quest’ultimo connotata da disservizi, sprechi e inefficienze che pretenda altresì di perpetuare il sistema adottato non possa configurarsi come “abuso” del bene e, quindi, come vanificazione dell’assunto di partenza. Il danno che detto abuso comporta a danno della comunità tutta la quale, secondo l’impostazione delineata, deve poterne godere nel modo migliore è addirittura amplificato dalla circostanza, sopra evidenziata, che esso non si traduce solo nel depauperamento del servizio, ma altresì delle tasche degli appartenenti alla comunità stessa.
Si rileva anche un altro profilo della vicenda. Lo sciopero è stato indetto al fine di evitare che una gestione privata del servizio di trasporto pubblico potesse perseguire obiettivi diversi e dissonanti rispetto a quelli per cui esso, in quanto “bene comune”, dev’essere svolto. Di fatto, tuttavia, i tranvieri genovesi volevano evitare che l’entrata di un privato in AMT potesse comportare tagli di personale o altre misure volte a ripianare il bilancio. E’ evidente l’assurdo: se, come da più parti dichiarato, ciò che lo sciopero intendeva evidenziare era il carattere “comune” del servizio di trasporto, da custodire e preservare rispetto a qualunque interferenza, le modalità prescelte hanno contraddetto il presupposto. Infatti, la comunità non avrebbe potuto essere deprivata della fruizione di un servizio ad essa spettante naturaliter, potrebbe dirsi. Dunque, mediante uno sciopero di alcuni giorni, la sottrazione alla collettività di un “bene comune”, quindi indisponibile a chiunque in quanto tutti ne devono poter godere costantemente, nega le premesse su cui il ragionamento si fonda, cioè le basi logiche che ne dovrebbero supportare la coerenza. Peraltro, il “lavoro” rientra nella categoria in esame anch’esso, sì che si configura una sorta di conflitto tra “beni comuni” teoricamente di pari rilevanza? Dunque, l’interesse specifico di un certo numero di lavoratori avrebbe dovuto cedere il passo all’interesse della cittadinanza al godimento del servizio, o viceversa? L’obiezione, sopra accennata, circa la difficoltà di ricomprendere tra i beni in discorso un’attività di impresa acquista, in relazione ai profili appena esposti e alle domande formulate al riguardo, un’immediata concretezza. Infatti, la “costellazione di interessi” che ruota intorno all’impresa stessa fa sì che coloro i quali ne sono portatori, qualunque tipo di conduzione venga adottata, possano essere in conflitto, come appena visto, con buona pace della cooperazione necessaria che alla gestione del “bene comune” viene inscindibilmente connessa.
Lo sciopero che ha bloccato il trasporto pubblico nella città di Genova, dunque, se voleva affermare la valenza “comune” di quest’ultimo, in quanto di pertinenza della cittadinanza e, come tale, meritevole di una tutela particolare, ha di fatto dimostrato e ottenuto l’esatto opposto. Ha legittimato la prosecuzione di un servizio che viene reso in modo inadeguato alle esigenze che la comunità manifesta anziché assicurarle un più idoneo godimento; ha post-posto il benessere di quest’ultima, in termini di efficienza del servizio stesso, in ogni senso, a quello dei lavoratori AMT; ha fatto sì che la collettività stessa venisse chiamata con le proprie risorse a sanare i buchi di una mala gestio che prosegue da anni. Inoltre, ciò che è più grave, ha alimentato l’equivoco colossale che tutto ciò avvenisse in vista dell’interesse generale.
“La proprietà privata, catalizzatore di profitto e rendita, vera cellula cancerogena della diseguaglianza, deve essere riportata immediatamente sotto rigoroso controllo pubblico e drasticamente limitata sul piano quantitativo con ogni mezzo, prima che sia troppo tardi” (Mattei, ibidem, p. 106): la strada da seguire – i fatti lo dimostrano – non è questa. Se si reputa, come esposto, che la caratteristica “comune” dei beni in esame valga a connotarne la finalità, vale a dire che la comunità ne possa godere nel modo migliore, e se si considera altresì la circostanza che con riguardo al trasporto pubblico locale, genovese e non solo, un utilizzo indiscriminato di risorse pubbliche non ha sortito tale effetto, è evidente che modalità gestionali diverse sono oltremodo necessarie. In primo luogo, vanno individuati obiettivi precisi per assicurare un’effettiva buona fruizione alle collettività interessate e definite strategie atte a perseguirli, concentrando la relativa spesa in attività che si dimostrino conseguire esiti positivi in relazione agli obiettivi suddetti e, al contempo, evitino che preziose risorse vengano inutilmente disperse nell’indefinitezza del risultato. L’efficienza e la trasparenza sono criteri essenziali a questo risultato nonché al fine che la comunità destinataria dei “beni comuni”, qualunque sia l’estensione che a essi si voglia attribuire, possa partecipare alla loro conduzione – elemento connotante la categoria in discorso, come visto – mediante il controllo di coloro cui essa è affidata. Ciò può essere garantito mediante un sistema di concorrenza, come qui viene dimostrato (e a cui pure Cassano accenna nel testo citato, pag. 10). A questo punto, la parola va agli economisti che, peraltro, si sono già espressi al riguardo (v. studio IBL sull’argomento, nonché questo recente articolo sul punto). Ché, poi, diritto ed economia non sono poi così distanti se il bene comune per eccellenza viene ritenuto l’efficienza: per il bene di tutti, in questo caso, ma veramente.
Le opinioni sono espresse a titolo personale e non coinvolgono in alcun modo l’ente di appartenenza (Consob)
Quale sarebbe il guadagno “in efficienza” tanto decantato dai sacerdoti del mercato?..Esiste?
Propongo la lettura di Ugo Mattei “Contro l’ideologia delle liberalizzazioni” Il Manifesto 30/12/12. Articolo facilmente reperibile in rete.
i giapponesi che sono di maggior cultura civile di noi, infatti, quando scioperano lavorano normalmente con un bandana rossa intorno al capo per segnalare che stanno protestando, appunto per evitare disagi ai propri concittadini
da noi la bandana si usa per il trapianto dei capelli