Il valore della salute e il prezzo dei farmaci
In un articolo apparso domenica 7 settembre sulle pagine del Domenicale, il professor Luzzatto ha sostenuto che ciò che manca al settore farmaceutico è la concorrenza. Un libero mercato si reggerebbe sue due caposaldi, la libertà dei prezzi e la concorrenza, e quest’ultima calmiererebbe la prima. Commentando l’altissimo costo negli USA dell’unico farmaco ora in commercio per curare l’epatite C (per il quale il Senato americano sta chiedendo spiegazioni al produttore), Luzzatto conclude che il prezzo dei medicinali non debba più arbitrariamente essere stabilito dal mercato.
Anche ammettendo che il prezzo di mercato, quello che risulta dall’incontro di domanda e offerta, sia arbitrario, quello dei farmaci è tutto fuorché un libero mercato. Questo non perché l’offerta è concentrata, ma perché manca proprio il pilastro della autonoma determinazione del prezzo.
L’uso della scoperta della molecola appropriata è, coerentemente col regime dei brevetti, protetto fino a un certo limite temporale da chi ha investito risorse umane e capitali per giungere a quella scoperta. E’ sufficiente questo per dire che non c’è concorrenza? A mio parere no. La ricerca non è attività preclusa per legge. Certo, servono capitali e capitale umano. Beni preziosi, ma non introvabili, vietati o disponibili per legge a uno o pochi operatori. Molto spesso, come avvenuto in questi giorni per il vaccino sperimentale per Ebola individuato da una start up californiana, sono i “piccoli” e non i giganti a realizzare le scoperte più rilevanti.
Piuttosto, quello che rende il mercato dei farmaci così atipico da non essere nemmeno definibile tale è proprio il modo in cui si formano i prezzi.
Che la Fda statunitense abbia approvato la commercializzazione di un farmaco molto costoso per una malattia diffusa come l’epatite C e che il Senato abbia avviato una serie di attività di controllo sul suo prezzo è la dimostrazione che, anche laddove il prezzo non è amministrativamente fissato, ci sono strumenti di controllo pubblico circa la sua adeguatezza.
Nei servizi sanitari universali, il prezzo è imposto precisamente perché lo Stato è il principale – talora unico – acquirente dei farmaci, e come tale gode di una leva contrattuale smisurata.
Così, in Italia l’immissione al commercio di un farmaco è contestuale alla determinazione del suo prezzo tramite una negoziazione con l’Agenzia italiana del farmaco; in Europa, già dalla fine degli anni Ottanta una direttiva impone agli Stati membri criteri di fissazione e controllo del prezzo dei medicinali, al punto da generare casomai il rischio opposto di arbitrio del regolatore/acquirente.
Anche in un contesto relativamente più libero, come negli Stati Uniti, l’apposizione del prezzo è molto più complessa di quel che appare, e coinvolge contrattazioni per sconti con le farmacie o con i canali di assistenza come Medicare.
Si può discutere se l’intermediazione della mano pubblica sia il modo migliore per far quadrare il cerchio tra le esigenze economiche di chi fa ricerca e produce medicine, e le esigenze terapeutiche dei pazienti, sotto il vincolo, tutt’altro che indifferente, dell’equilibrio della spesa pubblica.
Quello che sembra un dato reale, però, è che il prezzo dei farmaci, in modalità e con risultati diversi, non è arbitrariamente fissato dalle case farmaceutiche.
Vita e salute non hanno prezzo, per questo le medicine sembrano sempre costare “troppo”. Il loro costo è il punto di massima frizione tra la tutela di ciò che di più importante e indominabile abbiamo, le capacità di spesa pubblica e la remunerazione degli sforzi compiuti dall’industria in ricerca, innovazione, produzione. Che i governi sappiano mediare tra i tre fattori, è discutibile. Che già lo facciano, è indubitabile.
Osservazioni pienamente condivisibili. Invece appare non condivisibile la deriva gauschiste del supplemento domenicale del Sole-24Ore sotto la direzione di Sebastiano Maffettone. Un compromesso storico new age?
piu’ una malattia e’ rara e meno “clienti” si avranno.
ribaltare quindi il costo della ricerca su quei pochi malati diventa molto difficile.
e’ proprio sulla ricerca che dovrebbe investire un governo: se la ditta farmaceutica trova la cura, si faccia carico del brevetto o quanto meno di parte dei fondi stanziati per quella specifica ricerca. cosi’ la ditta farmaceutica non andra’ in perdita, recuperera’ di sicuro i suoi soldi ed il costo finale sul lungo periodo rimarra’ sostanzialmente quello logistico.
Ho notato che i prezzi di certi farmaci variano considerevolmente da un paese all’altro. Si tratta dello stesso principio attivi, quindi lo stesso brevetto e nalla maggior parte dei casi lo stesso nome commerciale, la stessa confezione etc. Non credo possa dipendera da differenti aliquote IVA; decisamente c’è qualche problema nel mercato.
in italia la concorrenza non esisterebbe comunque perché le aziende farmaceutiche si metterebbero d’accordo per il controllo dei prezzi. come avviene da sempre per le assicurazioni auto. serena sveglia.