Il trionfo dell’Argentina globale, aperta e universale
di Loris Zanatta
La “selección” ha vinto il Mondiale, l’Argentina è sul tetto mondiale del calcio. I giocatori sono stati fantastici, una stupenda combinazione di estro ed organizzazione, tattica ed inventiva: da applausi. E che coach! Trionfo sportivo, è stato anche un trionfo morale. Fin qui, tutti d’accordo. Poiché però in questo momento esser meno che trionfalista suona a guastafeste, metto le mani avanti: io parlo per invidia, non fatemi caso. La mia nazionale, la nazionale italiana, nemmeno s’è classificata per i mondiali! E poi lo ammetto: dipendente dall’adrenalina del basket, trovo un po’ soporifero il football. Un’eresia, mi rendo conto. Me la cavo meglio con Ginobili, insomma, che con Messi.
Chiarito questo, alcune considerazioni. La prima, la più banale: quanto più popolare è uno sport, più impatto politico avrà, quanto più semplice, più impatto sociale, quanto più “nazionale”, più impatto ideologico e simbolico. Da che mondo è mondo, la storia sportiva è storia politica e fenomeno culturale, inutile levare al cielo ipocriti lamenti, trincerarsi con la puzza sotto al naso in torri d’avorio, scandalizzati dal “pane e circo”. Così è: la storia dello sport di massa, e il calcio è il più semplice e di massa di tutti, viaggia infatti a braccetto con la storia del nazionalismo. E il nazionalismo è sia inclusivo sia escludente, sia collante sia corrosivo. Di sicuro, non è una scuola di pluralismo e tolleranza.
Lo dico perché vedo che i fumi dell’entusiasmo evocano antichi fantasmi. Fantasmi tossici in vesti sgargianti e pose gaudenti. Ecco la retorica del paese “unito dal pallone”, dello “spirito comunitario” veicolato dai successi sportivi, del paese unito e armonico “come la nazionale”, dell’elisir che ricucirà la “grieta”, la profonda crepa che spacca l’Argentina. E’ inevitabile? Forse. E’ inoffensivo? Non credo.
Sbaglierò, ma vi colgo i sintomi di una antica sindrome unanimista, di una pericolosa ossessione identitaria, dell’eterna e patologica ricerca dell’“essere nazionale”. Da ciò la frenetica oscillazione dalla depressione del mondiale di “asado”, pochi mesi fa, all’esaltazione del mondiale di football, ridicola la prima, abnorme la seconda.
Non si può gioire senza invocare Dio e patria? Senza scomodare santi e fanti? Ha vinto la nazionale di calcio argentina, non “l’Argentina”. Le nazioni non sono “essenze”, non hanno “l’anima”, non giocano a calcio: non ci bastano le tragedie causate da simili idee? I peronisti celebreranno la vittoria dell‘Argentina peronista, gli antiperonisti dell’Argentina antiperonista, ognuno si creerà un’immagine del trionfo su misura, a misura del suo paese immaginato. Se davvero si vuole chiudere la “grieta”, bisogna almeno capirne la causa! Confidare nel potere taumaturgico di un miracolo calcistico è tanto grottesco quanto dannoso. E la “grieta” è figlia proprio dell’illusione monista , della pretesa di essere “uno”, “un popolo” con “una” cultura”. Se tutti accettassero che nessuno è più nazionale e popolare di altri, la “grieta” sarebbe un fosso come tanti altri.
La seconda, breve considerazione è figlia della prima. Se il trionfo sportivo alimenta la sbornia nazionalista e se la sbornia nazionalista produce il ricorrente sogno di essere “ein volk, ein reich”, dobbiamo aspettarci anche l’incoronamento di “ein führer”? Poiché l’unico indiziato a vestirne i panni è Lionel Messi, starei tranquillo, ci scherzerei sopra: non mi pare abbia le physique du rol né l’ambizione a interpretarlo. Anche se, attenzione alle metamorfosi, la tentazione d’atteggiarsi a Dio se da Dio ti tratta “il popolo” dev’essere quasi irresistibile! Chissà se su Messi si potrà d’ora in poi ancora obiettare? O se diverrà oggetto come altri idoli prima di lui di un culto intollerante nel panteon della patria? Il processo di beatificazione è già in corso, l’edificazione del nuovo mito nazional popolare è un cantiere aperto e brulicante di zelanti operai. “Beato il popolo che non ha bisogno di eroi”, diceva Brecht. Già: la santità dell’eroe dispensa dalla responsabilità personale, la fede nel “grande uomo” dal dovere dell’uomo normale, s’addice al gregge più che a cittadini.
Ma forse no, forse sono io che esagero, che vedo fantasmi inesistenti, il passato dove dovrei vedere il futuro. Se così è, perché non vedere anch’io nella “selección” l’immagine dell’Argentina dei miei desideri? Da qui la mia terza, ultima e breve considerazione. Nell’Argentina del “mundial” ho visto l’Argentina che avrebbe potuto essere ma finora non è stata, quella che potrebbe essere, che spero un giorno di ammirare. Cosmopolita, competitiva, efficiente, produttiva, meritocratica, creativa ma organizzata, d’eccellente collettivo e straordinarie individualità. I suoi giocatori girano il mondo e nel mondo competono, la competizione li migliora, i miglioramenti danno risultati e incentivano altri ad emularli, il successo genera fiducia e sprigiona energia stimolando il progresso. Il contrario dell’Argentina nazional popolare peronista, chiusa e autarchica! Il trionfo dell’Argentina globale, aperta e universale! Così andrebbe inteso, ma non sono certo che sarà inteso così.
L’articolo è stato originariamente pubblicato sul quotidiano argentino Clarin il 19 dicembre 2022