Il treno dei liberali, ovvero ricchezza per tutti/Di Giancarlo Maero
Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Giancarlo Maero:
Questa estate, una sera d’agosto, chiacchierando davanti ad un bicchiere di vino bianco con un amico socialista, in una taverna del Sud, mi sento dire: la società è come un treno che ha diversi vagoni e diverse classi. Io socialista vorrei un treno con un’unica classe, nel quale i passeggeri ricevono tutti gli stessi servizi; tu liberale, vorresti mantenere il treno diviso in diverse classi, con vagoni – i primi – per ricchi, altri per meno ricchi e gli ultimi per poveri.
Non nego che lì per lì il paragone mi ha un po’ spiazzato. Tanto che me la sono cavata rispondendo che la metafora del treno non mi pareva calzante e che, comunque, i poveri, che del “treno” della metafora se ne intendono, preferiscono salire sull’ultimo vagone del primo treno – quello diviso in classi -, piuttosto che sul treno con un’unica classe, sempre che su questo treno li lascino salire. Si trattava di una risposta istintiva e nello stesso tempo empirica, basata sull’esperienza che si ricava dall’osservazione. Una risposta che, però, mi ha lasciato insoddisfatto, come, credo, non abbia convinto il mio amico socialista.
Tant’è che il giorno dopo, mentre pedalavo all’ombra di un grande bosco, ho indirizzato il mio pensiero alla ricerca di una spiegazione, di un supporto razionale, alla risposta che avevo dato. E mi sono venuti in soccorso alcuni argomenti di cui ero venuto a conoscenza in questi ultimi mesi leggendo due bei libri, che si occupano di economia, diritto, politica, genetica ed evoluzione: La politica secondo Darwin, di Paul H. Rubin e Il gene agile di Matt Ridley. Due libri veramente molto interessanti.
Si racconta che i geni del nostro antenato, simile allo scimpanzé moderno, si siano formati in un periodo di circa 1,6 milioni di anni: il Pleistocene. Negli ultimi 40.000 anni del Pleistocene i nostri antenati erano cacciatori (i maschi)-raccoglitori (le femmine). E gli scambi erano limitati (anche se ne fu l’inizio, con conseguenze ritenute molto importanti) all’interno della coppia, oltre che destinati, naturalmente, al nutrimento della prole. In questa situazione il nutrimento era fornito esclusivamente dalla natura, con alcune conseguenze: che poteva sopravvivere solamente un numero limitato di animali per ciascuna specie, che poiché il cibo era limitato erano destinate a sopravvivere le specie più forti ed all’interno di ciascuna specie gli individui più forti (la situazione di homo hominis lupus) e, soprattutto, ai nostri fini, che ciò che cacciava e raccoglieva un nostro antenato veniva sottratto ad un altro nostro antenato, che vedeva pertanto ridotte le possibilità di sopravvivenza propria e dei propri figli e, di conseguenza, dei propri geni. E non c’è, allora, da stupirsi che sia stato lentamente selezionato nel patrimonio genetico dei nostri antenati un sentimento, utile in quell’era per la sopravvivenza, di rancore nei confronti di chi cacciando e raccogliendo più cibo ne toglie la disponibilità agli altri: l’invidia. L’invidia risulta dunque un sentimento utile per la sopravvivenza; e lo stesso uso della violenza (che ai giorni nostri inizia con la coercizione), che nell’invidia ha la sua fonte, ha una giustificazione nell’esigenza di sopravvivenza che è la situazione prima di ogni cosa che vive e che come tale va soddisfatta con ogni mezzo e rispettata.
Questo, dunque, in un’economia come quella descritta, fatta da cacciatori-raccoglitori, consistente in un’attività a somma zero. In cui, per tornare al nostro treno, i posti a sedere sono contati, ed i servizi che si possono avere sono ugualmente limitati: quel che ottiene un passeggero viene necessariamente sottratto ad un altro passeggero. Ma le cose sono cambiate negli ultimi 10.000 anni (dopo il Pleistocene). Per una serie fortunata di combinazioni i nostri antenati hanno cominciato a coltivare la terra a ad allevare gli animali. Ovverosia, hanno cominciato a specializzarsi nello svolgimento di attività dirette alla produzione di beni e servizi. Ed alla specializzazione – alla divisione del lavoro – è seguito lo scambio. Infatti, in mancanza dello scambio la specializzazione nella produzione di un bene – la divisione del lavoro – non avrebbe alcun senso. E, circostanza mai sufficientemente evidenziata, è proprio la capacità di scambiare beni e servizi, capacità che si è sviluppata, non a caso, parallelamente allo sviluppo di quella parte del cervello dei nostri antenati che ci fa “intelligenti”, che distingue la nostra specie dalle altre. Infatti tutti gli animali delle altre specie sono generalisti ed autosufficienti, incapaci di praticare lo scambio, e, prima ancora, di produrre beni e servizi.
Ed a partire dalla acquisita capacità di praticare lo scambio, da questo “miracolo laico”, in conseguenza del quale è felice chi dà e chi riceve, la situazione è completamente cambiata. L’attività degli uomini ha cessato di essere una attività a somma zero per cominciare a diventare un’attività a somma positiva. Ovverosia, l’acquisizione di un bene o di un servizio da parte di un individuo è diventata motivo di ricchezza per un altro individuo, e non più sottrazione di un bene o di un servizio ad un altro individuo. La ricchezza di una persona, dipendendo essenzialmente dalla sua capacità di produrre beni e servizi che le altre persone ritengono per loro utili al punto di essere disposte ad acquistarle o, in tempi passati, a permutarle con beni da loro prodotti (ma è la stessa cosa), è diventata, ben lungi da causa oggettiva di povertà per le altre persone, occasione di ricchezza anche per queste. Il lavoro, che non consiste più nella caccia e nella raccolta di beni che ci offre la natura, ma nella produzione di beni e servizi da scambiare con altri che li ritengano utili, è in realtà l’unica attività “socialmente utile”. E, si ripete, la ricchezza di una persona, nella misura in cui è il frutto di scambi veramente liberi, non corrotti dall’inganno o dall’altrui intervento (intervento esterno a chi scambia), dall’altrui coercizione, rappresenta la vera ed unica occasione per chi è povero di migliorare la propria situazione, di passare dall’ultima classe del nostro treno alle classi dotate di migliori servizi.
Alla luce di queste riflessioni ritengo che fossero fondate sia la mia perplessità circa la correttezza del paragone, della metafora del treno, sia l’osservazione che i poveri preferiscono salire sul primo treno, quello diviso in classi. Compresa la riserva circa la stessa possibilità per i poveri di salire sul secondo treno, a posti fissi e tutti uguali: in questo treno, infatti, o i servizi sono già stati divisi fra i pochi egoisti viaggiatori, e non c’è più posto per altri, né è pensabile, a causa dell’alta imposizione fiscale, creare nuova ricchezza (metafora dei Paesi Scandinavi socialdemocratici), o non sarebbe in ogni caso conveniente salire, in quanto i passeggeri sono tutti ugualmente costretti da una minoranza di conducenti a produrre beni utili per far correre (?) il treno (metafora dei Paesi comunisti).
Peraltro la parabola del treno risulta illuminante sotto un altro aspetto. Serve a spiegare le ragioni per le quali esistono ancora molti socialisti (di destra di centro e di sinistra): immaginano le nostre società come un treno con un numero di posti a sedere limitato e con servizi limitati, ovverosia come società in cui continuano a svolgersi attività a somma zero, come nell’ultimo periodo del Pleistocene, quando i nostri antenati erano cacciatori-raccoglitori. Il treno rappresenta, infatti, bene la situazione di quel periodo, in cui i nostri antenati, cacciatori-raccoglitori, si alimentavano esclusivamente cacciando e raccogliendo quello che la natura donava; ed ogni animale o frutto cacciato, così come ogni posto sul treno o servizio usufruito da un passeggero, significava un animale o un frutto in meno, ovverosia un posto od un servizio in meno, per un altro individuo. Ma, fortunatamente, negli ultimi 10.000 anni le cose sono cambiate. Ed il treno, da luogo a posti fissi ed a servizi limitati, si è trasformato in un treno in continua espansione, con sempre nuovi vagoni e nuovi posti nella prima, nella seconda e nella terza classe; un treno sul quale si possono trovare beni e servizi sempre più numerosi e sempre nuovi, a disposizione di un numero sempre maggiore di passeggeri; un treno sul quale possono salire sempre più persone. E questo processo è destinato ad incrementarsi in proporzione anche all’aumento del numero dei ricchi, ovverosia di coloro che producono beni e servizi che gli altri considerano utili al punto di essere disposti ad acquistarli. E, naturalmente, anche i poveri, e spesso i poveri più degli altri, sono in grado di produrre beni e servizi in concorrenza o originali, tanto da migliorare sensibilmente in pochi anni la propria situazione.
Non a caso la popolazione aumenta soprattutto laddove gli scambi sono maggiormente liberi. Basti pensare ad Hong Kong, almeno prima dell’annessione con la Cina. Ma agli stessi USA.
L’illusione ottica che impedisce di vedere il treno nella sua realtà è la stessa che ha portato in passato ad indugiare sulle sofferenze e la povertà degli operai ammassati nelle periferie delle città-fabbrica inglesi, nel periodo della rivoluzione industriale al fine di indicarne in questa la causa, non vedendo, o forse, oscurando che si trattava di persone che per loro scelta avevano preferito quei sobborghi, con la speranza che portavano, alla inutilmente sperimentata terra.
Ed è la stessa che rende visibili i poveri dei sobborghi delle città USA e non i milioni di poveri che in pochi anni hanno trovato un’occupazione ed i molti poveri che nel giro di poche generazioni hanno acquistato posizioni di prestigio. Si tratta del solito vizio, di guardare il dito che indica, invece di quel che il dito indica.
Chiarito l’arcano del treno ritengo che si possa essere ottimisti e che lo stesso sentimento che alimenta l’invidia, con le distorsioni ottiche che causa e la violenza che ne consegue, sia destinato a diventare sterile; in quanto attualmente non più utile.
Occorre peraltro stare attenti e non dimenticare che la libertà, che ha nella libertà degli scambi la sua massima espressione, è un bene prezioso e non definitivamente acquisito, sempre in pericolo, almeno sino a quando ancora troppe persone vorrebbero costringerci a salire su un treno dove i posti sono contati, i servizi razionati e tutti sono uguali, esclusi loro, che guidano il treno.
Mi considero una persona di inclinazioni liberali ma sinceramente leggere (per l’ennesima volta) la storia che gli operai avevano scelto liberamente di vivere nelle orrende periferie delle città-fabbriche mi fa cascare le braccia. In che senso è “libera” la scelta fra la fame nelle campagne e la schiavitù nelle fabbriche? A questa stregua era libero anche l’automobilista della DDR che doveva comprarsi la Trabant, unico modello prodotto dallo Stato, visto che in fondo aveva l’alternativa della bicicletta.
@NM
In un senso, io credo, molto importante: nessuno è a conoscenza di spedizioni nelle campagne inglesi da parte di emissari dei Cattivi Capitalisti® a caccia di robuste braccia di contadini da ridurre in “schiavitù” negli opifici. Questo era il caso della tratta degli schiavi, che, difatti, non è esattamente l’epitome di un sistema liberale. Il semplice fatto che nelle campagne e nei villaggi sia rimasta una consistente popolazione dimostra che quella di andare in città e impiegarsi in una fabbrica era una scelta e che la scelta veniva liberamente presa senza coercizione (e che rimanere in campagna non equivaleva necessariamente a morire di fame).
In questo senso si può dire che fosse libera. Il fatto che la scelta dovesse farsi tra due opzioni alquanto sgradevoli non la rende, logicamente, meno libera.
Si può certamente deprecare il fatto che le opzioni a disposizione fossero limitate, che le condizioni di vita del proletariato operaio delle città fossero abominevoli, che la possibilità di coltivare la terra fossero limitate dall’appropriazione violenta delle terre da parte dell’aristocrazia, ma tutto ciò attiene ad un altro campo e non riguarda, sotto l’aspetto puramente logico, la libertà di scelta.
“…ma tutto ciò attiene ad un altro campo e non riguarda, sotto l’aspetto puramente logico, la libertà di scelta”: vero, ma è il campo della vita umana degna di essere vissuta. Non è importante? Lo lasciamo ai socialisti?
Circa i cattivi capitalisti: può darsi che le robuste braccia non le abbiano schiavizzate (nel senso formale del termine), ma che dire delle agili braccine? Libere anche loro?
http://en.wikipedia.org/wiki/Child_labour#Historical
Non è per fare polemica, ma per invocare una visione più realistica e disincantata della storia, giusto per non ridursi a ricostruzioni idealizzate di tipo sovietico all’incontrario.
mi lascia perplesso sia la metafora dell’amico socialista, sia il ragionamento dietro la risposta.
Nel passaggio,”Ed il treno, da luogo a posti fissi ed a servizi limitati, si è trasformato in un treno in continua espansione, con sempre nuovi vagoni e nuovi posti nella prima, nella seconda e nella terza classe; un treno sul quale si possono trovare beni e servizi sempre più numerosi e sempre nuovi, a disposizione di un numero sempre maggiore di passeggeri; un treno sul quale possono salire sempre più persone”.
Prima cosa, il treno potrà espandersi finchè ci sarà posto per le rotaie, credo quindi sia meglio fare una scelta ponderata dello sviluppo.
Secondo, con un treno troppo grande, poniamo per ipotesi capace di accogliere tutti, si pone un altro problema, sarà in grado la motrice di farlo muovere? altrimenti avrebbe la stessa utilità di una panchina nel parco.
@ NM :Il capitalismo è brutto, sporco e cattivo. Però gli altri sistemi sono peggio, e non hanno nemmeno quell’altro aspetto che io considero importante ,ovvero la libertà. Certo , questa libertà è imperfetta, migliorabile quanto si vuole e lontana dall’ideale, ma non per questo assente.
@NM
Forse mi sono spiegato male: a me premeva ribadire l’importanza della distinzione tra libertà di scelta e coercizione, che è fondamentale per capire cos’è il liberalismo e non cadere nelle trappole logico-semantiche dei vari socialisti e statalisti.
Mi è capitato troppo spesso di sentir dire che “nei paesi capitalisti – a differenza che nell’Unione Sovietica (eh sì, ho una certa età) – i lavoratori saranno anche formalmente liberi di emigrare, ma se non hanno i soldi per viaggiare È COME SE fossero prigionieri, quindi l’uguaglianza FORMALE è illusoria se non c’è un’uguaglianza sostanziale, quindi il capitalismo non è preferibile al socialismo”. No, non è come se, è proprio diverso.
Quanto alla questione della “vita degna di essere vissuta” (espressione infelice, cara ai teorici dell’eugenetica di primo Novecento, ma ovviamente lei la usa in un senso del tutto innocente), ci mancherebbe di lasciarla ai socialisti! Ma le questioni vanno affrontate con rigore, se no si rischia di fare una gran confusione. Sulla visione realistica e disincantata della storia mi trova più che d’accordo, e non credo che vi sia alcun elemento per affermare che dal mio commento io abbia presentato una “ricostruzione idealizzata di tipo sovietico” del primo capitalismo inglese. Ne so (molto poco, ma abbastanza) da sapere quanto fossero abiette e degradanti le condizioni dei lavoratori inglesi fino a buona parte del Ventesimo secolo, ma sono curioso quel tanto da sapere che le condizioni dei lavoratori dei paesi non capitalisti erano (in modo diverso) altrettanto odiose, che il lavoro minorile non è esclusiva dell’industrializzazione e che il giochetto (non è il suo caso, mi affretto ad aggiungere) di fare l’equivalenza tra capitalismo e slums e da qui condannare il capitalismo (o l’industrializzazione, o l’Occidente e via dicendo) è stato (e viene ancora) usato fin troppo spesso. Nessuna idealizzazione, ma discernimento sì: affermare di preferire il capitalismo non equivale ad approvare, condonare o ignorare le sofferenze dei lavoratori, dei braccianti o dei fittavoli che si trovavano improvvisamente a dover trovare di che campare lontano dalla terra o degli artigiani battuti dalla concorrenza delle manifatture.
Ripeto, per concludere: quello che mi stava a cuore era sottolineare la fondamentale differenza tra coercizione e libertà, che in definitiva sta alla base del pensiero liberale.
PS: la sintesi, se ne sarà accorto, non è il mio forte… 🙂
La metafora è stimolante. Io penso che un liberale dovrebbe rispondere: io sono per tanti treni, meglio ancora con tipologie diverse (unica classe, due classi, tre classi ecc.), che competono senza restrizioni e privilegi. Sarà poi la concorrenza a far emergere il mix di tipologie efficienti e desiderate.
Per quanto riguarda lo zero-sum. Non entro nel merito se il sistema è divenuto positive-sum o no, ma la teoria economica (seppure non pienamente l’ortodossia) ci dice che esistono beni sempre scarsi, o meglio sempre a somma 0: i beni posizionali.
http://en.wikipedia.org/wiki/Positional_good
E, su questi, l’invidia (à la Veblen) continua a insistere.
@NM
Forse non hai letto bene, nel’articolo c’è scritto ” persone che per loro scelta avevano preferito quei sobborghi, con la speranza che portavano, alla inutilmente sperimentata terra.” non c’è scritto LIBERA scelta, qunaado l’unica alternativa è tra morire di fame e fare una vita di stenti oppure faticare 14 ore al giorno in fabbrica ma avere da mangiare e dormire decentemente ed una speranza di miglioramento per i propri figli non si potrà parlare di libera scelta ma, come nel caso degli operai extracomunitari che lavorano nella fabbrica in cui lavoro io, comunque di un miglioramento.
@Pera: io invece forse sintetizzo troppo. 🙂 Quello che intendevo è che bisogna stare attenti a non arretrare sull’elogio della mera libertà formale – sia nella teoria sia nelle ricostruzioni storiche. Questo anche perché i paesi capitalistici non danno solo più libertà formali (comunque benvenute) ma più libertà sostanziali: più scelte (vedi esempio della Trabant), più opzioni di vita, ecc. Dobbiamo esserne contenti e dispiacerci delle fasi storiche in cui invece per molti queste libertà non esistevano, se la parola “libertà” deve avere un contenuto umano significativo, che si dilegua quando la vita si riduce a scegliere fra una condizione abietta ed una che lo è un poco meno. Questa almeno è la mia opinione.
@Ebenezer Scrooge
@Ebenezer Scrooge
I beni economici sono scarsi per definizione ma il fatto che i beni posizionali non siano accessibili a tutti non rende il gioco a somma zero a mio avviso. Parto dal presupposto (liberale) che invidia e ambizione siano sentimenti umani che non necessitano di essere “livellati”. Escludere gli altri dal godimento di un bene (ad ex. possedere la perla più grossa del mondo) implica un costo opportunità. Chi ricerca un bene posizionale dovrà essere disposto a pagare una somma tale da indurre gli altri attori interessati ad esso a rinunciare a tale bene e gli altri attori potranno acquisire beni che offrono dal loro soggettivo punto di vista una soddisfazione immediata maggiore di quella che fornirebbe loro il bene posizionale. Quindi, il palombaro, ritene più utile una forte ricompensa rispetto al possesso della perla e ritiene più utile un diverso set di beni, rispetto allo status symbol. Entrambe i soggetti hanno guadagnato dallo scambio. Questo a prescindere dal fatto che al palombaro rimanga un retrogusto di invidia, o un senso di orgoglio per la scoperta.
Se poi ci allontaniamo dai beni materiali, ho qualche difficoltà a pensare che gli sforzi individuali compiuti per diventare il pittore più ricercato, il violinista più applaudito, l’ insegnante più apprezzato, il matematico più stimato, etc. (tutti status “posizionali”) siano a somma zero. Competere per eccellere (anche ove l’eccelenza implica giocoforza l’esclusione in quanto soltanto uno riceve la medaglia d’oro) è un gioco a somma positiva. Altrimenti, paradossalmente, dovremmo concludere che l’uguaglianza della nullatenenza è una situazione win-win. Non credi ?
Preferiamo i bambini soldato, o gli adolescenti che si facevano reclutare per un tozzo di pane durante il feudalesimo ?
Ti rispondo con una riflessione che mi è venuta in mente facendo scalo a Dubai. Se facciamo una fotografia statica vediamo a un estremo dei ricchi sceicchi e all’altro commessi e operai immigrati dall’Asia a 400$ il mese (più un discreto ceto medio). Siamo anche liberi di pensare che ciò sia ingiusto. Però se avessimo tra le mani una foto di quel fazzoletto di terra due secoli fa troveremo al più una tribù di beduini e qualche porto male attrezzato. Oggi bene o male centinaia di migliaia di persone abitano un fazzoletto di deserto godendo di un benessere superiore a quello di qualsiasi capo tribù di una volta. Lo stesso possiamo dire di Shangai, ma anche di molte metropoli americane – e anche di tanti capoluoghi italianim se vogliamo dirla tutta. I processi generatori di ricchezza e di capitale attirano gli ultimi e i diseredati che cercano di partecipare, “di salire sul treno”. E’ inevitabile, specie se il sistema è inclusivo nei confronti dell’immigrazione, vedere notevoli dispariti in un contesto dinamico in crescita. Per gli ultimi è più importante la direzione e l’intensità del movimento, che la loro posizione relativa e comparata all’istante “t”.
Ma se invece che di invidia parlassimo di un desiderio umano di miglioramento di cui i più abbienti indicano le possibilità che potremmo raggiungere? Perché è sgradevole pensare di poter migliorare?
E se in realtà tutto il parlare di socialismo non fosse che solo un grosso schema di risk sharing? Tutti uguali a un livello minimo così non rischiamo di migliorare ma neppure di cadere.
In tal caso niente vieta ai singoli di associarsi e creare i propri meccanismi di risk sharing; perché devono obbligare anche me che voglio rischiare sia di finire in mezzo a una strada che di ottenere molto di più di questo “tiepido” futuro (come diceva funari)?
Se non potessimo sognare il paradiso, l’inferno non avrebbe alcun potere. Se non potessimo ambire al meglio saremmo ancora nelle caverne.
La vita è un viaggio in treno? Pagato o meno il biglietto ci si siede in poltrona o magari si sta in piedi nel corridoio, ma si viene comunque portati a spasso per il mondo senza fatica?
A me pare che la vita sia piuttosto una maratona, dove devi continuare a correre e a sudare per arrivare da qualche parte; i più dotati arrivano presto e vincono una medaglietta, i meno dotati arrancano e magari arrivano fuori tempo massimo o peggio si ritirano.
L’importante per la regolarità della corsa è che ci siano rifornimenti, controlli sanitari e magari una pacca sulla spalla per tutti. Ah, dimenticavo: anche controlli antidoping e di correttezza (che nessuno si faccia dare uno strappo in auto).
E’ classico dell’idealismo socialista ed autocratico pensare alla società (e alla vita) come qualcosa di scontato e gratuito. Appunto il treno del suo commensale: ma chi costruisce e fa funzionare la ferrovia?
Per il suo amico la risposta è semplice: le ferrovie le hanno costruite i perfidi capitalisti, ma a farle funzionare provvederà l’illuminato socialista (che viaggia sempre a sbafo)!
Per quel che riguarda l’invidia non sono tanto ottimista.
Jahvé su 10 comandamenti che diede a Mosè ne dedicò 2 a condannare l’invidia (1 onnicomprensivo per la religione ebraica).
Temo che l’invidia sia una componente difficilmente eliminabile dalla psiche dell’ homo sapiens, tuttavia sicuramente non ne è un fattore costituente, perché esistono rari esemplari di esseri umani privi di questo sentimento. Oggi la neurologia sta dimostrando con i neuroni specchio la base anatomica dell’empatia, speriamo che si possa arrivare a identificare l’invidia come una patologia curabile, qualunque ne sia stata la filogenesi. Nascerebbe l’ homo magnanimus, un’altra specie!
Non sto solo scherzando, la prima grande conquista della civiltà: il fuoco, non fu opera dell’Homo sapiens, ma (circa mezzo milione di anni fa) dell’Homo erectus.
Siamo di passaggio, e a piedi, non in treno!
@Silvano_IHC
Beh, la scarsità dei beni posizionali è diversa da quella dei beni economici standard: Robinson percepisce la scarsità naturale (economica) appena arrivato sull’isola, ma inizia a percepire quella dei beni posizionali solo con l’arrivo di Friday.
Condivido con il fatto che l’invidia non sia necessariamente da deprecare, e infatti io non l’ho fatto. Ma mi concentrerei sul fatto che la sua esistenza porta a scelte other-regarding piuttosto che self-regarding à la Smith (come gran parte della letteratura economica assume); ciò qualche effetto, per forza, sull’efficienza nel senso di Pareto lo produce.
Sul competere per eccellere, se vuoi, hai già fatto un’assunzione: cioè che si competa per l’eccellenza. E in questo caso è ovvio che la società ci guadagna, seppure i perdenti continuano – loro malgrado – ad avere qualche disagio.
Però si può competere anche per altre posizione: es. il boss del quartiere, il capo di Cosa Nostra, il killer più sanguinario, il politico con più tessere comprate, il terrorista più infallibile, ecc. Tutte concorrenza che ti sfido a dimostrare portino vantaggi alla totalità della società.
Detto altrimenti, non penso che si possano esprimere giudizi conclusivi sulla concorrenza posizionale, semplicemente perchè ‘it depends’; ma di certo se uno vince l’altro, per definizione, perde. E ciò non è per forza un male.
noi esseri umani abbiamo sicuramente sviluppato la capacità di arrampicarsi sugli specchi quando troviamo davanti a noi una visione alternativa, e ci mette in difficoltà tanto è più semplice ed efficacie. la nostra predisposizione ad essere “più” degli altri è la nostra croce e deliza, è una qualità indissolubile per la nostra specie. il socialismo, per nostra natura, non potrà mai essere praticato, mi chiedo però se il nostro individualismo e smania di grandezza ci porterà ad un insostenibile delirio collettivo, cosa che in ambito finanziario(e non solo…), pare già successo.
Mi pare che la descrizione della vita dei cacciatori/raccoglitori riportata nell’articolo sia discutibile.
Per quanto ne so dai testi che ho letto, i cacciatori/raccoglitori storicamente hanno sempre avuto un’alimentazione più ricca e variegata rispetto agli agricoltori pre-industriali. Alcuni autori (e.g.: Ponting) ritengono anche che le società di c/r fossero fortemente egalitarie e con un forte tasso di redistribuzione.
Testi:
– LIVI BACCI, Massimo: “Storia minima della popolazione del mondo”; Il Mulino; Bologna; 2005; pagg. 125 e segg.
– PONTING, Clive: “A New Green History of the World”; Vintage Books, London; 2007; Cap. 4
– DIAMOND, Jared: “The Worst Mistake In The History Of The Human Race”; http://www.environnement.ens.fr/perso/claessen/agriculture/mistake_jared_diamond.pdf
Non mi hai molto convinto. Io la vedo così: c’è un solo treno che parte ed i posti sono limitati, non ci potremo mai salire tutti, è la natura, è la fisica: sarebbe più giusto per noi uomini che tutti potessimo salire, così come sarebbe più giusto per noi uomini che tutti potessimo avere il posto migliore su quel treno. Il socialismo auspica la giustizia di noi uomini. Il problema del socialismo è ostinarsi contro le leggi della fisica. Se c’è un solo treno e non tutti ci stiamo, qualcuno inevitabilmente resterà fuori, questa è la fisica. E’ l’approccio che è diverso: il socialista aspira a un qualcosa di ideale che sarebbe più giusto eticamente o moralmente. Ma il mondo non gira per fare un piacere a noi uomini e le risorse che ci sono sono limitate. I socialisti hanno fatto solo male con le loro teorie rivoluzionarie quando erano convinti di risolvere definitivamente determinati problemi, ma non per le loro soluzioni, ma per il loro metodo: è il loro approccio fanatico idealista e moralista ad essere sbagliato.
Per un socialista non è accettabile che un pezzo di pane arrivi a costare sopra le nostre possibilità, se tutti facciamo bene perché dovrebbe succedere si chiede. Ma se c’è una carestia? Se c’è una crisi? I nostri sforzi e sacrifici sarebbero vani e quello che sarebbe giusto non è quello che accade: la legge fisica del mercato che lega il prezzo all’offerta e alla domanda, non è una cosa giusta o sbagliata in sé: è come la legge di gravità: non è che se uno cade da un ponte, la gravità è una cosa cattiva, se invece scivola dolcemente giù da uno scivolo è buona. I fiumi si possono arginare, ma non si può invertire il senso.
Sono l’amico socialista di Giancarlo, io non penso, ne ho mai pensato, ad un unico vagone di prima, seconda o terza classe, ritengo giusto invece che lo Stato intervenga affinché si possa ridurre sia il numero dei vagoni che quello delle classi, i modi e le forme nei quali questo intervento si esplica, ovviamente in uno Stato democratico, si possono discutere, penso che il primo compito che ha uno Stato che sia governato da una forza attenta al sociale, sia quello di garantire una adeguata formazione a tutti i suoi cittadini premiando i più meritevoli, se bisognosi, offrendo loro un salario di aiuto alla famiglia per fare un esempio, ovviamente usando la leva fiscale per ridistribuire la ricchezza. Credo non sia equo caricare, questo è un altro esempio, i costi sociali delle assunzioni obbligatorie sulle imprese dei diversamente abili ma penso che sia lo Stato a dover, sempre attraverso la leva fiscale che deve essere progressiva, garantire il loro salario o attraverso sgravi fiscali per chi li assume o avviandoli al lavoro nella Pubblica Amministrazione. Certamente sarebbe necessario parlare delle politiche neokeynesiane ed il loro impatto sui bilanci degli Stati, ma sarebbe opportuno che nel mio Stato utopico (anche lo Stato liberale come lo intende Giancarlo è del resto un’utopia) chi governa sappia nei momenti di depressione stimolare l’economia con il suo intervento, per poi diventare formica nei momenti di crescita. A proposito dell’inurbamento delle masse di contadini inglesi nelle periferie inglesi sarebbe necessario pensare al problema delle recinzioni e del termine dei diritti dei contadini nel sistema feudale antecedente, li di volontà non ve ne era nulla semplicemente ne furono spinti dalla necessità derivante dalla perdita di quei diritti dando origine alla rivoluzione industriale.