Il rapporto Ocse e i tagli alla scuola: una lettura critica del ruolo dell’istruzione
Oggi la scuola è al centro del dibattito: da una parte, quella che è considerata la “bocciatura” da parte dell’Ocse, dall’altra i tagli all’istruzione previsti dalla manovra.
Secondo il rapporto “Education at a glance”, l’Italia è uno dei paesi che dedica la minor percentuale di PIL alla spesa per l’istruzione, ossia il 4,8%, che corrisponde all’1,3% in meno rispetto agli altri Paesi Ocse, relegandola al ventinovesimo posto in una lista di 34. Inoltre, sebbene la spesa per studente universitario sia aumentata dell’8% rispetto al 2000, la media Ocse è comunque lontana, pari al 14%, senza, tra l’altro, che l’incremento della spesa sia collegato a un miglioramento del livello educativo. La scarsa qualità dell’istruzione spiega anche il fatto che l’Italia possiede uno dei più bassi tassi di partecipazione all’istruzione terziaria (il 20,2% rispetto al 37,1% della media), oltre a quello di occupazione dei laureati (il 79% contro l’84%). Infatti, sebbene abbia sviluppato molteplici meccanismi per assicurare una buona performance (si pensi agli esami nazionali obbligatori alle medie e alle superiori), ne possiede pochi (per esempio, ispezioni scolastiche e auto-valutazioni focalizzate sulla qualità dell’educazione e sui punti di forza e debolezza di ogni scuola) che assicurino il rispetto di leggi e regolamenti. Le università italiane, infine, sono poco attraenti per gli studenti stranieri (pari solo all’1,8%).
A peggiorare la situazione, si denuncia il fatto che la manovra abbia tagliato i fondi per i singoli istituti del 38% (da 127 a 79 milioni): si riduce così il numero degli insegnanti, scarseggiano i bidelli, le aule sono sempre più fatiscenti.
Questi sono i principali dati illustrati dai quotidiani di oggi, a cui seguono conclusioni molto critiche sul nostro sistema educativo.
Ma è questa l’unica interpretazione possibile di tali informazioni? È davvero da bocciare il livello degli investimenti per l’istruzione in Italia? In realtà, se si legge più a fondo il rapporto, si nota che il problema non è la spesa pubblica, ma il livello di spesa privata, pari all’8,6%, molto inferiore rispetto al 16,5% di quella Ocse e certamente non in crescita. Eppure essa potrebbe rappresentare un’importante forma complementare, non sostitutiva, di spesa: si consideri, infatti, che in molti paesi dove sono aumentati gli investimenti privati, sono cresciuti anche quelli pubblici. Ciò che davvero allontana l’Italia dalla media, quindi, sono gli investimenti privati (che, tra l’altro, contano in qualche misura solo nell’istruzione terziaria), non quelli pubblici. Dei primi, poi, fanno parte soprattutto gli investimenti delle famiglie, mentre mancano i contributi degli enti privati, sebbene potrebbero giocare un ruolo importante. Basti pensare ai casi di aziende francesi che finanziano i dottorati di alcuni loro giovani neo-dipendenti: si ottengono così impiegati più preparati, i quali possono poi spendere il loro maggior livello di educazione sul mercato, mentre l’azienda beneficia di esenzioni fiscali, incentivi che nel nostro paese non sono previsti.
Relativamente ai tanto contestati bassi stipendi dei docenti, basti pensare che essi si occupano di classi molto meno numerose (c’è un insegnante ogni 10,7 alunni nella scuola primaria (media Ocse 16), uno ogni 11 nelle secondarie (media Ocse 13,5) e una media generale di 21/22, per una media di 23), lavorano per un numero inferiore di giorni di scuola (172 rispetto a 185) e hanno meno ore di insegnamento (ad esempio, al liceo sono 619, contro 656).
Ciò che però lascia più perplessi è la critica ai tagli della spesa pubblica in istruzione: nessuno, infatti, ha parlato del cambiamento del livello di spesa rispetto al PIL, mostrato nel grafico sottostante.
Si noti che tra il 2000 e il 2008 in Italia la crescita della spesa per l’istruzione è stata maggiore del Pil, andando quindi a influire sulla creazione del deficit pubblico. Dietro a questa omissione e alla conseguente e inevitabile interpretazione negativa del rapporto, si nasconde una concezione della scuola e dell’istruzione come fonte di welfare, ricettacolo di docenti, bidelli e altro personale disoccupato, piuttosto che come istituzione che fornisce un alto livello educativo e crea generazioni preparate ad entrare nel mondo del lavoro.
Anziché lamentarsi dei tagli alla spesa, quindi, sarebbe opportuno rileggere tali informazioni interrogandosi sulla qualità di tali importi – basti pensare alla bassa qualità del livello educativo e al tasso di occupazione dei laureati – per cercare dei meccanismi che incentivino gli studenti a essere più responsabili delle loro scelte (anche il tasso di abbandono universitario è tra i più alti) e a pretendere un miglior sistema universitario. Per fare questo non servono più investimenti da parte del governo, ma una visione della scuola diversa, che non sia un mero strumento in mano a fini sociali, ma prima di tutto attrazione di investimenti ragionati, insegnanti preparati e allievi motivati. Solo così potrà poi diventare anche un’efficiente strumento di creazione del benessere pubblico.
Non per polemizzare, ma solo per chiarire.
1. Una certezza: i giorni di scuola in Italia sono obbligatoriamente 200 (minimo) pena la non validità dell’anno scolastico. Quindi da dove esce il numero 172?
2. Un dubbio: gli insegnanti sono più numerosi. Ma non è che per caso la cifra per l’Italia comprende anche i docenti di sostegno e che i loro omologhi negli altri Paesi non sono computati come insegnanti ma, ad esempio, come assistenti sociali?
3. Un punto su cui non so nulla: come stanno le cose negli altri Paesi per quanto riguarda la responsabilità penale e civile sugli alunni minorenni? Mi stupisce che questo aspetto non sia mai neanche sfiorato nelle comparazioni tra la scuola italiana e quelle straniere.
Se qualcuno è in grado di rispondere, gli sarò grato.
…che miserie…speriamo di fallire presto e di ritornare all’età della pietra…Torno a dare da bere al mio orto, chissà magari dalla riva dell’ Adige vedo passare le salme di qualche nemico…
@Claudio:
1. intendevo i giorni di lavoro per insegnante, ma non sono stata chiara. Grazie per avermelo segnalato.
2. di solito si usano criteri omogenei per individuare gli indicatori e, quindi, anche gli insegnanti
3. l’Ocse non si occupa di questi indicatori essendo più orientato agli studi in ambito economico
domanda di fondo: ma le aziende italiane sono interessate ai laureati (e non intendo nel settore umanistico)?!
“Per fare questo non servono più investimenti da parte del governo, ma una visione della scuola diversa, che non sia un mero strumento in mano a fini sociali, ma prima di tutto attrazione di investimenti ragionati, insegnanti preparati e allievi motivati. Solo così potrà poi diventare anche un’efficiente strumento di creazione del benessere pubblico”
E’ chiaro che la Sig.ra Quaglino si riferisce ad un tipo di società molto diversa da quella italiana quale è quella attuale. Pessimisticamente parlando, non credo che la raggiungeremo mai, la nostra è una società in declino in cui ognuno fa la sua piccola parte per mandarla a fondo.
Purtroppo stamane non ho fatto a tempo a prenotare un intervento sulla trasmissione dell’ottimo Giannino ospite la ministra Gelmini. Avrei portato il caso personale delle ore di insegnante di sostegno per mio figlio.
Ore passate da 20 a 13 lo scorso anno scolastico e da 13 a 7 per il 2011/2012.
Nella mia stessa situazione si trovano quasi tutti gli altri alunni in difficoltà della provincia di Verona (che conosco tramite le associazioni, punto di incontro e confronto).
Poi una provocazione. Quando andavo al liceo mi ricordo che la cattedra era di 18 ore settimanali più un paio di ricevimento genitori. Al di fuori di queste l’insegnante poteva entrare e uscire dalla scuola a piacimento – e magari fare il secondo lavoro in nero (tipo istruttore sportivo). perchè non obblighiamo i signori a timbrare alle otto in entrata e alle sedici in uscita? Le verifiche (ex compiti in classe) si possono tranquillamente correggere in istituto e non a casa. come gli aggiornamenti e quant’altro. naturalmente anche durante le vacanze estive l’istituto rimane aperto con gli insegnanti per i corsi di recupero o similari. così per equità verso tutti gli altri lavoratori
Gentilissima,
forse lei potrà aiutarmi, è vero che in Italia la percentuale di spesa pubblica in rapporto al PIL investita nella ricerca è equiparabile agli altri paesi e che la differenza è negli investimenti privati? Eventualmente sarebbe così cortese da fornirmi anche la fonte?
Grazie
La lettura del rapporto completo riserva anche altre sorprese.
Il grafico riportato nell’articolo e le sottostanti tabelle (http://www.oecd.org/dataoecd/61/18/48630868.pdf) indicano che l’Italia partiva da un livello convenzionale 99 nel 1995, arrivava a 100 nel 2000 ed a 106 nel 2008, mentre la Francia (che è l’uncia ad aver fatto peggio dell’Italia), posto sempre 100 il livello di spesa nel 2000, è arrivata a 105.
Ma in soldi (dollari equivalenti), la tabella B1.2 indica: 9071 dollari/ allievo italiano, mentre la Francia ne spende 8559, la Germania 7859, la Spagna 8552, e l’Estonia solo 6054 dollari/allievo, che è pur sempre 1/3 in meno di quanto spende l’Italia, ma ha aumentato la spesa per istruzione del 119%, in confronto al misero 6% italiano!
Semplicemente l’Italia spendeva moltissimo in istruzione già nel 2000, e quindi non è che potesse poi crescere più di tanto, visto che ancora oggi spende ben più di tante nazioni!
L’indicatore B7 (http://www.oecd.org/dataoecd/61/35/48631046.pdf, pag.282) è utile per verificare l’efficacia di questa immane quantità di soldi spesi per ciascun allievo.
Vengono infatti confrontate le prestazioni nei test PISA di lettura a 15 anni, con quanto è stato speso fino ad allora per ogni allievo.
L’Italia ha avuto scarsi risultati (486, al di sotto della media OCSE di 493), eppure ha speso 90.443 dollari/allievo. E la Francia? Risultati PISA soddisfacenti (496), ma ha speso solo 78.687 dollari, il 13 % meno dell’Italia. E la Germania? Risultati ancora migliori (PISA=497), ottenuta spendendo ben il 24 % in meno dell’Italia (68771 dollari). La Corea, prima della classe (PISA=539) spende solo 61.109 dollari, circa 2/3 di quanto costi un allievo italiano capace di dare risultati così scadenti.
Le conclusioni?
1- il sistema educativo italiano è costosissimo e non dà risultati; altro che chiedere ulteriori risorse!
2- diffidare sempre di chi presenta dati in termini % e non analizza anche i valori assoluti.
Nel mio precedente commento, la conclusione 2 non è rivolta all’articolista, i cui commenti ed analisi sono completamente condivisibili, ma ai giornalisti dei principali giornali italiani, che hanno presentato i dati in modo, per così dire, orientato!
@Sara qui può trovare i dati e le informazioni di cui ha bisogno http://www.oecd.org/document/52/0,3746,en_2649_34451_34537140_1_1_1_1,00.html
Gentile Lucia Quaglino,
ho letto il suo articolo sulla scuola italiana. Lei è partita male, perchè ha tirato sùbito in ballo i soldi, ma poi ha concluso bene, perchè ha scritto che la scuola non può essere uno strumento per distribuire posti di lavoro. Lei crede davvero che uno studente italiano sia meno bravo di uno francese o inglese ? Io non ho quest’opinione. Qualche anno fa viaggiavo più spesso e sono stata in quasi tutti gli stati dell’Europa occidentale, ho avuto modo di confrontarmi con i miei coetànei,che mi apparivano molto “specializzati”, molto focalizzati su una materia di loro interesse e del tutto ignoranti della storia e del modo di vivere di altri popoli. Non parliamo poi dei cittadini statunitensi, che davvero facevano molta fatica a portare avanti qualsiasi colloquio, perchè mancava loro una base culturale. Allora, quando affermiamo che lo studente italiano è meno preparato del coetàneo tedesco, cosa intendiamo per preparazione ? Perchè lo studente di un altro stato europeo, può permettersi di andare in giro senza conoscere bene storia e geografia ed essere considerato preparato ? Perchè io mi sforzavo di parlare in francese, quando sono stata in vacanza in Francia, e i francesi che vengono in Italia non si sforzano di pronunciare la mia lingua ? Anche questi sono più preparati ? Se è vero che gli italiani hanno conseguito un risultato al di sotto della media nel test Pisa, allora ciò è dovuto al fatto che i nostri insegnanti non ne conoscevano la modalità di svolgimento, non hanno partecipato alla sua elaborazione e non hanno avuto il modo di far esercitare i loro studenti su test simili a quello. Forse dovremmo farci venire un dubbio : e cioè che negli altri stati si insegni in funzione del test Pisa, o di altri test simili, quindi che si insegni al solo scopo di superare gli altri nelle competizioni internazionali.
La ringrazio per l’attenzione.
Assunta Normale