Il problema della semplificazione
Riceviamo, e volentieri pubblichiamo da di Federico Riganti.
Tra le varie intuizioni degli antichi greci, quella della ciclicità del tempo è, senza dubbio alcuno, una delle più riuscite. L’eterno ritorno dell’eguale – o, quantomeno, del molto simile – è, di sicuro in Italia, un dato di fatto del quale non può non tenersi conto nel complicato percorso di riforma del Paese.
Un ulteriore esempio di quanto sopra è dato, di recente, dal tema semplificazioni. Queste, promesse e ripetute negli anni quasi fosse un mantra, tornano a delinearsi all’orizzonte promettendo di scardinare le lungaggini burocratiche che imbrigliano il sistema economico produttivo.
A fronte di una tale finalità – tanto ambiziosa e condivisibile, quanto come noto già più volte proposta ma ancora irrealizzata – pare lecito, tuttavia, porsi alcune domande, volte a chiedersi il perché proprio un tema così importante e, almeno in teoria, da tutti condivisibile ed apprezzabile, non faccia breccia in Italia. In altri termini: perché continuiamo a parlarne, senza mai addivenire ad una soluzione?
La risposta, come immaginabile, è complessa e può poggiare, ad esempio, sulle seguenti sintetiche constatazioni.
Innanzitutto, vi è da sottolineare una certa confusione circa le modalità con cui attuare una semplificazione reale delle cose, questa non potendo certo limitarsi ad una semplice riduzione numerica di norme che compongono un complicato puzzle normativo, in cui il rischio di un “effetto domino” è concreto e pericoloso.
Ad una salutare, ma oculata, diminuzione di regole deve accompagnarsi un più attento lavoro qualitativo, inteso a rileggere ed aggiornare gli interessi sottostanti previsioni di legge che, purtroppo, spesso e volentieri traducono con la loro complessità l’ipocrisia italica di dovere sempre trovare un punto di equilibrio tra interessi contrapposti che, in comune, nulla hanno. Ne consegue che la semplificazione non è questione da proporre a valle del problema, bensì a monte dello stesso: il merito delle materie (ordinate secondo la loro importanza) andrebbe nuovamente affrontato dal Parlamento, auspicabilmente con una celerità a questo estranea.
In seconda battuta, vi è da affrontare la questione, più generale, del rapporto tra Stato e cittadino. Quest’ultimo, in modo abbastanza marcato al di qua delle Alpi, pare infatti essere ormai rassegnato ad una condizione di sostanziale sudditanza verso un pubblico cui è assegnato un potere pressoché indeterminato. In particolare, la forza di tale potere statale risiede anche nella difficoltà di testi normativi (peraltro in continuo, incessante, mutamento) e cavilli legali che tutto offrono fuorché il doveroso e legittimo affidamento nei confronti di un apparato pubblico che si muove in una cornice di sostanziale incertezza. Da quanto precede deriva dunque che la semplificazione è, ad oggi e nel concreto, un miraggio per i cittadini e per gli operatori. Ed emerge, inoltre, l’urgente necessità di riaffermare la centralità del privato verso uno Stato che, da “fornitore di servizi” (peraltro, si ricordi, ben remunerati), torna di nuovo ad assumere (ancor più a seguito della disciplina emergenziale) i ruoli, tra loro in palese conflitto, di regolatore, vigilante e imprenditore.
In conclusione, al di là dei proclami politici, sarebbe dunque utile muoversi con un approccio diverso e più attento. Un approccio che, all’accetta, predilige il fioretto, e che è indirizzato, in ultima analisi, non già solo a risolvere problemi attuali, bensì anche a ridisegnare, sul lungo periodo e in senso nettamente liberale, gli assi portanti del nostro sistema economico. Questo è l’auspicio. La certezza, invece, è che gli antichi greci – come sempre – avevano ragione e che di tutto quanto poc’anzi accennato se ne parlerà, di nuovo, negli anni a venire.