Il primo Reagan: da Tampico alla California
Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Amedeo Gasparini
La prima lettera che scrisse appena uscito dallo Studio Ovale fu a Richard Nixon, nel 1989 ancora il presidente in perenne purgatorio della Storia, che gli aveva consigliato di negoziare con Mikhail Gorbaciov. Acclamato e detestato in tutto il mondo, chi più di tutti si impegnò a porre fine alla Guerra Fredda, Ronald Reagan, alla fine del suo mandato presidenziale era alle stelle. Calmo e sorridente, sapeva che usciva dalla Casa Bianca per entrare nella Storia.
Soddisfatto di lasciare le chiavi di 1600 Pennsylvania Avenue al “suo” George H. W. Bush, progressivamente si congedò dalla vita pubblica una volta contratto la malattia di Alzheimer. Dopo discorsi, come tutti i presidenti e primi ministri emeriti, da cinquantamila dollari (fino alla maxi-somma di due milioni di dollari in Giappone), si dedicò all’attività post-presidenziale, dunque a curare le memorie che scrisse sul diario che tenne scrupolosamente tutti i giorni alla Casa Bianca per otto anni. Come ricordato da Craig Shirley (Last act), a differenza certamente di Nixon, ma anche di Jimmy Carter, Gerald Ford, Lyndon B. Johnson e pure di Harry Truman, Reagan lasciò la Casa Bianca più popolare di quando vi entrò.
Il Grande Comunicatore scomparve alle 13.09 di Pacific Time, il 5 giugno 2004; a seguire, i funerali di Stato. FoxNews, la tv conservatrice, fu la prima emittente a darne la notizia. La campagna elettorale tra George W. Bush e John Kerry fu sospesa per un giorno in segno di lutto nazionale. Fu il padre del candidato repubblicano a fare il discorso di addio. Presente tutto il mondo alla National Cathedral di Washington DC in quel giugno: da Gorbaciov a Kofi Annan, da Margaret Thatcher a Lech Wałęsa, da Tony Blair a Silvio Berlusconi. Presente anche lo sfidante della campagna del 1984 Walter Mondale, così come Colin Powell, George Schultz, Caspar Weinberger, Al Gore e Dick Cheney.
«Reagan è stato l’ultimo presidente che ha potuto parlare di eccezionalità americana, perché non aveva ancora visto gli effetti prodotti dall’ascesa della Cina sull’economia statunitense», ricordano Ivan Krastev e Stephen Holmes (La rivolta antilibertaria). L’America che governò dal 1981 al 1988 oggi non c’è più. Forse è proprio allora che iniziò il lento declino americano, nonostante l’effimero “momento unipolare” post-Guerra Fredda.
Chi era dunque Ronald Reagan? Da dove veniva il gigante che pose fine – non da solo – al mondo a blocchi e si fece interprete-guida di quello libero? Ronald era nato nella desolata Tampico, nell’Illinois, il 6 febbraio di centodieci alla fa. Discendenti di immigrati irlandesi, i Reagan erano una famiglia povera; il padre Jack Reagan aveva un passato da alcolista e diversi fallimenti a cui far fronte, la madre invece era ultrareligiosa. Al giovane Reagan piacevano i cavalli: guardava i film dei cow boy con gli amici e voleva essere uno di loro. Oltre lo schermo televisivo ci sarebbe passato diverse volte in tutti i lavori che avrebbe fatto. Ogni piccolo successo del figlio – specialmente in seguito, nell’ambito del cinema di serie B – era una conferma del fallimento del padre. Reagan junior rimase sempre gentile – e generoso in termini monetari – col suo vecchio, che morì nel 1941, dopo financo tre pacchetti di sigarette al giorno.
Bagnino nelle estati a Dixon – una volta salvò settantasette persone dall’annegamento –, nel 1928 entrò nell’Eureka College e qualche anno dopo aveva già in tasca un contratto con la Warner Bros, che lo lanciò nel mondo dello spettacolo. Dapprima democratico, in Franklin Delano Roosevelt trovò il mito della gioventù, ma è allora che il suo Anticomunismo si sviluppò in maniera forsennata. Erano i tempi del Maccartismo e ogni settore, specialmente quello artistico, era passato al setaccio dello scrutinio sociale e governativo, nel momento più aspro della Guerra Fredda. Reagan «era anticomunista quando era di moda essere comunisti in alcuni circoli di Hollywood. Divenne anticomunista molto prima di cambiare partito», ricorda Shirley (Reagan rising). I film girati durante la guerra gli diedero una discreta popolarità. Il Gipper riuscì dunque a stabilire una certa familiarità con l’audience a casa e sul campo di battaglia.
In milioni lo guardavano e riconoscevano la voce di chi proteggeva l’America da ogni aggressione, racconta Henry William Brands (Reagan. A life). «Il pubblico imparò ad associarlo con il potere e il patriottismo americano. Reagan scoprì dunque che il ruolo di difensore della nazione faceva per lui e con piacere lo aggiunse al suo repertorio.» Entrato nella Screen Actors Guild nel 1937, a Hollywood non destò grossi scandali, ma neppure raggiunse la fama che avrebbe desiderato. Dopo un matrimonio naufragato, è proprio nel mondo del cinema che Reagan incontrò l’amore della vita: la giovane e ambiziosa Nancy Reagan, di cui Alberto Pasolini Zanelli (Americani) scrisse che a parte il futuro marito Ronnie, «tutti si sono accorti che è autoritaria, intrigante, diffidente e impaziente, dura con i genitori, dura con i figli: con tutti tranne che con lui, che l’ha sempre difesa contro tutti.»
In seguito, Reagan firmò un contratto con la General Electric, dove rimase per otto anni e iniziò a studiare da politico. Il lavoro alla GE corroborò la crescente fama del personaggio a livello nazionale e, soprattutto, nel mondo politico conservatore. Lì incontrava molte persone, imprenditori, business men … Creò in fretta il suo piccolo mondo di conoscenze e negli incontri più volte praticò l’arte della retorica che coltivava sin da ragazzo. Vuoi il savoir-faire, vuoi la sua facilità di contatto, divenne un volto famigliare e apprezzato da parte di molti americani. Gettatosi in politica, sconfitto il democratico Pat Brown, divenne governatore della California nel 1967 e si trovò a gestire i tafferugli studenteschi all’università di Berkeley.
L’amministrazione Reagan reagì in maniera dura contro i manifestati: una politica di law and order tradizionalmente apprezzata dai repubblicani. Lentamente infatti Reagan era migrato nel GOP, cosa che non si conciliava certamente con lo spirito sessantottino degli studenti della West Coast. «Appeasement is not the answer», rispose a chi lo incalzava in merito alle “rivendicazioni” studentesche.
Il clima sessantottino – complice la traumatica tragedia della guerra del Vietnam – divenne rovente quando uno studente, Kevin Moran, fu ucciso e Nixon ordinò l’invasione della Cambogia. Le prime avvisaglie di una candidatura di Reagan alla Presidenza iniziano a circolare proprio allora: non fece apertamente campagna per Nixon perché era ancora sotto contratto con la GE, ma quando divenne governatore, il conservatore Reagan rispolverò l’istinto dem della sua gioventù.
Al di là di qualche somiglianza con Barry Goldwater – con il quale condivideva l’essere fuori dagli schemi, ma non la sfortuna politica e il semi-reazionarismo del Senatore dell’Arizona – da numero uno dello Stato sul Pacifico legalizzò l’aborto. Una scelta che rimpianse qualche anno dopo durante la corsa per la nomination repubblicana. Pro-life, tuttavia ascoltò il suo istinto politico e, chissà, forse anche quel giovane studente progressista che era ancora in lui. D’altronde, mentre abbracciava da una parte Nixon e dall’altra Milton Friedman, disse chiaramente di non aver mai lascito il Partito Democratico, ma che era stato quest’ultimo ad abbandonarlo.