Il presidente perforatore
L’inattesa apertura del presidente americano, Barack Obama, alla ricerca petrolifera e di gas al largo delle coste atlantiche e dell’Alaska ha spiazzato molti tra i suoi sostenitori e avversari. La sinistra ecologista denuncia il tradimento della battaglia no-triv; la destra petrolifera rilancia perché la Casa Bianca non ha fatto abbastanza. In realtà, gli uni e gli altri rischiano di sottovalutare la portata di questa mossa (le cui implicazioni sono invece colte con attenzione in prima pagina sul Foglio).
Anzitutto, è importante dare un’occhiata alla carta geografica (la rubo dal Wsj). Sebbene restino ancora molte, ampie e potenzialmente interessanti le aree inaccessibili alle trivelle (sia sulla costa atlantica, sia soprattutto su quella pacifica e nel ricco Golfo del Messico), l’estensione delle zone adesso rese sfruttabili è di tutto riguardo. Il cavallo di Troia con cui Obama assedia il fortuno di un’America sempre più scettica nei suoi confronti, insomma, questa volta è mezzo pieno di doni. Dunque, è comprensibile la reazione stizzita del capo della minoranza repubblicana alla House, John Boehner:
Keeping the Pacific Coast and Alaska, as well as the most promising resources off the Gulf of Mexico, under lock and key makes no sense at a time when gasoline prices are rising and Americans are asking ‘Where are the jobs?’
E’ comprensibile ma, insomma, non del tutto giustificata. Bisogna dare atto al presidente di aver saputo stupire, con intelligenza e coraggio (vista l’ondata di critiche da cui è stato immediatamente investito). Tant’è che i mal di pancia interni hanno subito trovato sfogo. Così il senatore democratico Frank Lautenberg (che rappresenta il New Jersey, un’area direttamente interessata dalla piccola rivoluzione obamiana):
Giving big oil more access to our nation’s waters is really a ‘kill baby, kill’ policy: it threatens to kill jobs, kill marine life and kill coastal economies that generate billions of dollars.
Questa dura reazione va letta come mera dialettica politica, e probabilmente non preoccupa granché il presidente. Infatti, se il suo cavallo è mezzo pieno di doni, per l’altra metà è pieno di guerrieri armati fino ai denti, ed è questo che dovrebbe spingere a leggere la mano tesa presidenziale alla luce dell’antico “timeo danaos“. Come scrive il Ft nella sua maliziosa Lex di oggi, Obama sta vezzeggiando il mondo petrolifero americano (e, su un altro piano, sta cercando di allentare l’opposizione repubblicana) avendo in mente un obiettivo più ambizioso, cioè l’approvazione (dopo la riforma sanitaria) di una strategia energetica per la riduzione delle emissioni. La logica alla base di questa mossa, dunque, è la stessa attraverso cui bisogna leggere la svolta nuclearista dell’amministrazione (un fatto che pochi, in Italia, hanno notato: tra i pochi, Luca Iezzi è stato forse il primo a metterlo nero su bianco).
Non ci vuole, del resto, la sfera di cristallo per svelare le ambizioni della Casa Bianca. Basta, infatti, leggere le parole del potente capo dello staff di Obama, Rahm Emanuel:
If they disagree they don’t have the argument, ‘All you want to do is put windmills and solar panels everywhere,’ ” said White House Chief of Staff Rahm Emanuel in an interview. “This gives him leverage for negotiations because he can’t be boxed” in as a traditional Democrat.
Dunque, cosa dobbiamo aspettarci? La mia previsione è che, nonostante tutto, il presidente non adrà molto lontano. Sono almeno tre le ragioni. La prima è di ordine politico: i repubblicani sono galvanizzati dalle recenti vittorie, e hanno gli occhi puntati sulle elezioni di mid term alla fine di quest’anno. Sarebbe davvero ingenuo per loro concedere a Obama una vittoria dal significato politico tanto profondo, in cambio di alcune concessioni dal sapore puramente tattico (per quando significative). La seconda riguarda la congiuntura economica: sebbene gli Usa sembrino avviati a uscire dalla recessione, i danni della crisi sono ben lontani dall’essere riassorbiti, senza contare la perdita strutturale di competitività a favore delle economie emergenti e le tensioni delle finanze pubbliche. L’America non può permettersi di frenare la ripresa imponendo dei vincoli che, se vogliono essere efficaci, dovranno essere dolorosi. La terza ragione riguarda gli equilibri lobbistici: lo strumento che il presidente ha in mente, anche per le pressioni europee, è un meccanismo di cap and trade, uno strumento ormai sputtanato dal fallimento europeo e considerato sempre meno efficiente dal mainstream economico. Lo scambio delle emissioni continua a essere promosso da soggetti il cui peso lobbistico è in calo: alcune grandi società petrolifere, grossi intermediari finanziari, et similia (giova forse ricordare che dei due più convinti sostenitori del cap and trade negli ultimi anni, il mercato ha fatto piazza pulita: erano Enron e Lehman Brothers). Il variegato mondo degli independents (il vero nerbo della lobby petrolifera americana, che non ruota certo attorno agli interessi delle multinazionali) è scettico nei confronti di uno strumento che non capisce, e che capisce di non poter padroneggiare. Perfino un pezzo di mondo ambientalista è sempre più disilluso in merito (il Wwf ha invitato a Roma uno dei vati del catastrofismo climatico, James Hansen, per sentirsi dire che il cap and trade è una patacca e che il nucleare invece merita attenzione e finanziamenti).
Obama sta, insomma, giocando d’azzardo. La mia scommessa è che fallirà sul clima, ma in ogni caso, almeno per quel che riguarda il rilassamento dei vincoli all’esplorazione petrolifera, ha ottenuto un risultato oggettivamente importante e utile. Se io fossi un repubblicano, direi: Well done, Mr President.
Per quale motivo la costa pacifica non è stata toccata dal provvedimento? Il motivo è lo scarso potenziale o ci sono ragioni politiche? Se consideriamo che anche il New England non è stato interessato mi pare che prevalga un discorso puramente politico…per me Obama ha detto “male che vada sono tutti stati repubblicani”