Il pregiudizio anti-hayekiano dei figli di Hayek
È bizzarro quanto innegabile che per molti, tra noialtri talebani del mercato, i testi di Hayek siano sacri, ma non così sacri. Hayek non è sexy; Hayek si ama coi “sì, però…”. Hayek non appassiona perché non ha la coerenza di Mises, il coraggio di Leoni, il radicalismo di Rothbard, il sapore pop di Friedman.
Sarebbe risibile porre in discussione la rilevanza dell’opera di un pensatore che, non pago dei propri contributi alle scienze economiche, peraltro sufficienti a garantirgli un premio Nobel, ha arricchito di riflessioni seminali campi vasti e diversi come la teoria politica, la filosofia del diritto, l’epistemologia, la storia delle idee, e persino la psicologia.
Allora le riserve sul conto di Hayek vanno cercate altrove che nelle pur fondate critiche ad un liberalismo con avvertenze. Forse nel fatto che Hayek sia riuscito a manifestare la propria importanza anche oltre il recinto di un movimento che nei decenni ha imparato a coltivare la propria marginalità come un fiore raro. È, banalmente, la diffidenza di Paperino per Gastone.
Quel che Hayek ha capito – e che i suoi figliocci non hanno saputo valorizzare – è che nel gioco degli intellettuali la tattica conta quanto il talento e le regole quanto il pallone. È comprensibile che l’Hayek che fonda la Mont Pelerin Society ci affascini meno del Mises che di fronte ai suoi membri sbraita: “you bunch of socialists!”. Ma proprio quell’Hayek – quello che ha capito il valore dell’organizzazione, quello che ci ha mostrato che il pensiero non cammina da solo, quello che ha ispirato Antony Fisher a farsi imprenditore di idee – è la nostra unica speranza di sfuggire all’irrilevanza.
Se oggi il movimento variopinto dei liberisti è più forte, lo deve in massima parte ad Hayek. Caro Friedrich, ti vogliamo bene, e scusa se non te l’abbiamo detto abbastanza.
Non la coerenza, ma la problematicità, è ciò che distingue Hayek da Mises.