Il Nobel a Obama, bilancio di un anno
Oggi Obama ha presenziato alla consegna del suo Nobel per la Pace. È la prima volta nella storia che si vince un premio di quella importanza prima di aver dimostrato nei fatti di meritarlo. Naturalmente, ha “dovuto” parlare da comandante in capo del più grande Paese del mondo attualmente impegnato in ben due guerre. E il succo a questo proposito sta in questa citazione dal discorso che ha pronunciato:
I face the world as it is, and cannot stand idle in the face of threats to the American people. For make no mistake: evil does exist in the world. A non-violent movement could not have halted Hitler’s armies. Negotiations cannot convince al Qaeda’s leaders to lay down their arms. To say that force is sometimes necessary is not a call to cynicism – it is a recognition of history; the imperfections of man and the limits of reason.
Non so quanto i pacifisti possano dirsene soddisfatti. In ogni caso, a un anno dalla trionfale elezione alla Casa Bianca, il realismo ha preso le sue belle vendette sull’idealismo della campagna elettorale. Per gli interessati, ecco un mio personale bilancio di un anno di Obama in politica estera. Avviso: vista la materia, è un po’ lungo.
Qual è il bilancio della politica estera americana, a oltre un anno dall’elezione di Barack Obama? Se giudichiamo i suoi tour esteri e le maggiori occasioni in cui la politica della nuova Amministrazione si è dispiegata in atti e decisioni concrete, direi che la formula più adeguata dal mio punto di vista è la seguente: un atterraggio molto ruvido. Dalle altezze dell’idealismo liberal alla ruvida complessità del mondo post Bush: con un’America ferita profondamente e ridimensionata dalla crisi economica; perplessa all’interno dalla solo parziale attuazione delle promesse elettorali su materie come Guantanamo, Iraq e Afghanistan; protesa obbligatoriamente a un rapporto preferenziale con la Cina; ancora sprovvista di reali novità sul delicato tavolo tra Israele e palestinesi; più lontana dall’Europa di quanto fosse in passato; incerta come in precedenza su alcune discontinuità centro e sud americane.
Eppure, tutto questo è valso in pochi mesi al presidente Obama la trionfale concessione del Nobel per la Pace. Un incoraggiamento venuto ancor prima che Obama si trovasse in condizione di far seguire alle sue parole i fatti. E che ha inevitabilmente deluso molti, quando sono venute scelte come quella sull’Afghanistan. Controversa e sofferta per più di un semestre, tanto da simboleggiare per questo solo fatto la manifestazione sin qui più eloquente dell’hard landing obamiano, e del suo team di consiglieri i più dei quali vengono dal Middle East Institute of Studies della Brookings. Eppure, nulla di tutto ciò si deve a presunta impreparazione del presidente. Né al fatto che l’Amministrazione sia troppo assorbita sull’assai impegnativa agenda di politica interna, economica e sociale, considerando quantità e qualità di advisor di primo livello rotanti intorno al segretario di Stato Hillary Clinton, o in Congresso come Paul Joula, Vance Serchuk, Bill Monahan, Tom Hawkins e Rick Kessler, l’ottimo staff director della Commissione Affari Esteri della Camera che a sua volta tra i suoi collaboratori può contare su una decina delle migliori menti liberal forgiate sotto l’amministrazione Clinton, e nei migliori campus americani. Obama per primo, nella sua precedente breve esperienza parlamentare, è stato membro della Commissione Affari Esteri del Senato. Ed era Joe Biden a guidarla, il suo vicepresidente, non a caso a giudizio di molti in politica estera il più importante e ascoltato vicepresidente che la storia americana ricordi da molto tempo a questa parte. Tutto si può dire insomma, ma non che la politica estera fosse per Obama pane non abbastanza masticato, come invece i dossier che riguardano moneta, bilancio e industria.
In questo primo anno, si può legittimamente affermare che dopo il discorso di insediamento due siano state le grandi occasioni in cui il presidente Obama ha deliberatamente concentrato la maggior enfasi, per dare vigore e impulso alla promessa che in politica estera l’aveva portato alla vittoria: una svolta netta, dall’unilateralismo della guerra al terrorismo proclamato e perseguito dall’amministrazione Bush, al multilateralismo programmatico e compartecipato, per restituire all’America l’immagine e i consensi meritati di un Paese che “si propone al concerto internazionale per il suo esempio e per la sua instancabile ricerca della persuasione, del dialogo, della reciproca convenienza, non per la forza delle sue armi e per la superiorità del suo modello”, come aveva ribadito all’insediamento.
La prima occasione ha coinciso con il primo viaggio all’estero carico di simbolismo e significato, con la tappa del Cairo e il discorso all’università Al Ahzar, cuore e testa del delicatissimo equilibrio tra plurisecolare tradizione di alti studi, e trentennale slittamento verso ideologia, prassi e proselitismo dell’islamismo dei Fratelli Musulmani.
La seconda occasione ha coinciso con l’intervento all’assemblea generale dell’Onu, in settembre. I due eventi costituiscono l’inizio e la fine della luna di miele di Obama in politica estera. La punta più alta è venuta con il G20 di Pittsburgh, sotto molti punti di vista il più grande successo americano in questo 2009, una specie di rappresentazione vivente – con la sua photo opportunity per cui occorrevano non uno, ma due grandangoli giustapposti agli obiettivi dei fotocronisti – della decisione di estendere la governance condivisa planetaria secondo criteri, logiche e obiettivi sin qui mai sperimentati.
Dopo tali occasioni, la realtà ha preteso i suoi aspri diritti, sostituendosi ai proclami di principio. Prendendo la forma, di conseguenza, del tour asiatico al vertice Asean e soprattutto della visita in Cina. E poi, della controversa e tanto attesa decisione sull’Afghanistan. Prima di due nuovi tentativi di ridare all’idealismo il suo afflato prioritario, a tribune cariche nuovamente di forte valenza simbolica ancor più che concreta, come il vertice di Copenaghen sul clima, e il discorso di accettazione del Nobel, a Oslo.
Prima di approfondire l’esame di questa oscillazione pendolare tra il cielo dell’ideale e la terra della realtà, occorre però una premessa. Che costituisce l’orizzonte obbligato, per tanti versi, in cui la politica estera di Obama si trova ad essere inscritta, qualunque siano poi le sue stelle polari e decisioni concrete. L’America di Bush jr era quella dell’11 settembre 2001. L’America di Obama è figlia del 15 settembre 2008. Temo che, nei libri di storia, questa seconda data non sarà scritta con neretto meno rilevante della prima. Anzi al momento, e per il futuro che possiamo scorgere di fronte a noi, direi proprio che le conseguenze della più grave crisi finanziaria ed economica del secondo dopoguerra determinano e determineranno una ridislocazione di forze, equilibri ed influenze assai più penetranti e di lungo periodo di quanto si sia prodotto per l’attacco jihadista all’America, e per la sua strategia di guerra globale al terrorismo. Si è rotto un paradigma ventennale di crescita finanziaria con rendimento annuale a doppia cifra sul mercato americano, meccanismo che a propria volta rendeva sostenibile un paradigma di crescita mondiale realizzato da Clinton spalancando le porte le porte del WTO alla Cina. Con quest’ultima che canalizzava parti crescenti del proprio eccesso di risparmio, ingenerato dalla crescita vorticosa del proprio export nel mercato a più alto assorbimento mondiale di beni di consumo a basso costo, proprio a sostegno del doppio deficit USA – commerciale e delle partite correnti – attraverso l’acquisto massiccio di asset denominati in dollari, e l’ammassamento di riserve nella stessa valuta.
Quel doppio paradigma si è infranto. La domanda interna americana per lungo tempo ancora stenterà a tornare ai livelli precrisi, dovendo riequilibrare l’eccesso di debito privato acceso per sostenere i consumi,e il calo del contributo al reddito disponibile realizzato dal deprezzamento degli asset immobiliari, nonché da una disoccupazione a doppia cifra. L’America è economicamente assai più debole di un tempo, non solo perché la crisi è nata dal modello della sua intermediazione finanziaria. Ma perché, con un debito pubblico che in pochi anni passa dal 40% al 90% del proprio GDP, sono gli States ad aver bisogno del traino rappresentato nell’economia mondiale oggi dalle ex emerging economies, ed è Washington ad aver bisogno che Pechino continui a comprare le obbligazioni pubbliche americane. Washington insomma ha bisogno di un asse con una Pechino economicamente e finanziariamente cooperativa, almeno se non più rispetto a come in precedenza Pechino aveva interesse a estendere il suo export in America, per dare maggior forza alla propria crescita interna.
L’Amministrazione Obama ha forse potuto sperare nei suoi primi mesi che anche la Cina vedesse la sua crescita interna più piegarsi verso il basso, verso un un 6% di aumento annuo che a giudizio di molti osservatori è la soglia sotto la quale nella Terra di Mezzo iniziano a determinarsi problemi interni di “mancate promesse” di benessere sin qui accese, con quantità di ridislocazioni coatte di manodopera dalle città alle campagne di troppi milioni di unità, per risultare gestibili senza sommovimenti e proteste. Va bene che la Cina è oggi il Paese con il più efficiente strumento al mondo di attuazione intertemporale delle decisioni economiche – l’Armata Popolare Cinese – ma a tutto c’è un limite. Al contrario, però, da aprile scorso Pechino ha mostrato una tempestività e una decisione economica assolutamente preziose. Non solo per sé, ma per il mondo intero. Incomparabilmente più importanti nella ripresa del commercio estero di quanto non si siano dimostrati i salvataggi bancari da una parte, e dall’altra i programmi occidentali di sostegno all’economia reale. Pechino ha deciso di sostituire domanda interna all’export che mancava per la caduta americana destinata a protrarsi. Lo ha fatto non solo con un programma mostruoso di lavori pubblici finanziato dalle riserve accumulate, e annegando le proprie famiglie e imprese di liquidità bancaria (da agosto, la politica monetaria ha cambiato di segno, tornando alla prudenza). Soprattutto, Pechino ha saputo coinvolgere tutti i Paesi del Far East – di qualunque colore politico fosse il loro governo in carica – in una comune scommessa di politica estera ed economica. Poiché la Cina non è in grado di produrre i beni intermedi e finali richiesti in quantità pazzesche da una domanda interna in via di esplosione – le vendite di auto sono schizzate nei trimestri ultimi a botte del più 76%, la Cina sarà nel 2009 il primo mercato mondiale con 13 milioni di unità vendute – Pechino ha abbassato selettivamente le maglie dell’import verso i prodotti del Far East, consentendo a tutti loro crescite record dell’export in sostituzione della domanda americana svanita. In tal modo, non solo Corea del Sud e Taiwan, Thailandia e Vietnam contribuiscono a una crescita cinese da consumi superiore al 9%. Ma, soprattutto, disegnano un Pacific Ring politicamente ed economicamente sinocentrico, come nessun esperto di politica estera americana, nemmeno il più antieuropeo, avrebbe mai osato immaginare.
È questa svolta obbligata di prospettiva, integralmente disegnata dalle prospettive economiche e finanziarie, dalla debolezza degli Usa e dalle vecchiezze dell’Europa, quella con cui Obama ha dovuto fare i conti nel primo bagno di realismo in cui ha dovuto immergersi, recandosi a Pechino. Non una delle sue richieste di fondo è stata accolta. Non la pressione sull’Iran fino alla disponibilità per nuove sanzioni, in caso di rifiuto di Teheran delle richieste ONU sul processo di arricchimento del combustibile nucleare, disponibilità che pure, almeno in termini generali, Obama era riuscito a strappare da Mosca. Né tanto meno Pechino ha aperto un varco alla rivalutazione dello yuan-renminmbi , legato al dollaro da un peg semifisso che per la Cina è oggi garanzia duplice. Non sciogliendolo, Pechino impedisce al dollaro di svalutare troppo, cosa che danneggerebbe le riserve di greenback cinesi – 1 trilione di $, più almeno altri 2 trilioni in titoli pubblici e corporate – e al contempo, poiché il dollaro svaluta comunque – più del 15% sull’euro da aprile scorso, oltre il 20% sullo yen – le merci cinesi ci guadagnano in competitività aggiuntiva, come ne avessero bisogno.
L’Afghanistan è il teatro sul quale la torsione tra promesse e realtà si è manifestata con più evidenza. I sei mesi di rinvio della decisione, dal momento della nomina del generale McChrystal alla testa del contingente americano e della contestuale richiesta di un suo immediato assessment dei suoi desiderata per vincere, hanno accompagnato Obama alla perdita di quasi venti punti di popolarità tra gli americani. Alla fine, i 30 mila nuovi militari inviati, più gli altri 20 mila ai quali Obama aveva già detto sì alla sua elezione, non corrispondono né alla richiesta piena dei vertici militari, né tanto meno alle attese dei liberal e dell’elettorato che in Obama ha creduto. Le richieste rivolte al presidente Karzai, ulteriormente indebolito da un’elezione inficiata da brogli e imbrogli che avrebbe dovuto suggerirne il passo di mano, appaiono pressoché del tutto irrealizzabili. Proiettando verso la parte finale del primo quadriennio di Obama il rischio di apparire impossibilitato a ritirarsi senza perdere la faccia da una parte, e dall’altra ancor privo di una netta distinzione tra Taliban, signori della guerra e leader tribali afghani da una parte, e Al Qaida dall’altra. Il Pakistan non è né rassicurato né impegnato fondo in fondo, da una tale strategia. La Cina continuerà ad aver mano libera con la minoranza uighura nello Xinjiang. L’India a temere di pagare prezzi crescenti, all’intolleranza di nuovo in salita tra nazionalismo indù e musulmani. Persino l’Iraq potrebbe riesplodere, se a questo punto la surge afghana non dovesse aver successo di fronte a recrudescenze di caduti USA ai quali l’Amministrazione si rivelasse non capace di reggere. Per gli alleati NATO impegnati in Afghanistan, tra cui l’Italia, è una decisione subìta, non compartecipata. Del resto, come il presidente francese Sarkozy non ha perso occasione di dichiarare al suo Consiglio dei ministri – almeno secondo la cronaca ufficiosa pubblicata da Le Canard – “la verità è che l’America di Obama considera oramai del tutte secondari noi europei”. Anche i Paesi esteuropei che più si erano avvicinati all’America di Bush, come Polonia e Cechia privati dello scudo antimissile, per indurre Mosca a maggio collaborazione sul dossier iraniano.
Ma è il Medio Oriente, la scacchiera in cui finora Obama non ha mosso un pezzo. Anzi, col tempo ha perso consensi. Eppure, al Cairo aveva pronunciato un discorso tanto aperturista nei confronti dell’Islam e del blocco arabo-musulmano, che molti commentatori erano rimasti senza parole. Obama si è spinto allora a presentare l’Islam come luce della conoscenza che avrebbe aperto la strada al Rinascimento e all’Illuminismo. Lasciando tutti di stucco, si spinse a dire che l’Islam ci ha dato la stampa – ma come, e i cinesi? – e la comprensione delle malattie. Tutto ciò al fine di aprire un ponte verso governi e classi dirigenti musulmane, senza alcuna commistione con Al Qaida. E senza la tradizionale comprensione e solidarietà verso Israele. Come ammonisce Benny Morris, Obama si è abbeverato alla scuola multiculturalista di Edward Said, che in definitiva non conosce, non ama e non apprezza Israele. Sarà anche per questo che, senza mostrare al momento reale capacità di influenza sul governo Netanhyau e sulla sua agenda, l’America di Obama sta assistendo senza grandi iniziative a tre processi altrettanto pericolosi. Il primo è che Al Fatah e Abu Mazen trattano riservatamente il riavvicinamento con Hamas, a seguito del venir meno della prospettiva “due Popoli-due Stati” dichiarata dal governo d’Israele. Il secondo è che Hamas ed Hezbollah in Libano continuano a riarmarsi, grazie all’Iran che attraverso di loro “parla” ai ceti dirigenti di Egitto e Arabia Saudita, oltre che naturalmente di Siria, Giordania ed Emirati. Il terzo è che, grazie a tutto questo, Ahmadinejad è più forte e non più debole, di fronte alla sua opposizione interna che non demorde dallo scendere in piazza, ma appare completamente isolata. Il Medio Oriente, proprio sulla tensione Iran-Israele, potrebbe tornare a diventare improvvisamente e tragicamente incandescente.
Un bilancio troppo pessimistico e ingeneroso? No. Bisogna comunque augurarsi che Obama ce la faccia. Un anno è troppo poco, per giudicarlo. Che il realismo prendesse le sue rivincite, è amara lezione della storia che puntualmente si ripete. Ma le risorse politiche e diplomatiche degli USA restano imprescindibili, in questo mondo più aperto e più caotico del dopo Lehman. Certo è la prima volta nella storia, che solo dopo aver vinto un premio Nobel per la pace, si deve dimostrare di meritarlo davvero. Facendo anche la guerra.
Sinceramente, dopo che hanno dato il nobel della pace ad Arafat non mi interessa più a chi lo danno e tanto meno la relativa posologia (prima, dopo o ….. durante 🙂 ).
Eh sì, anche il povero Obama (dopo un annetto) si è svegliato e ora deve fare i conti con la realtà, ed ecco allora che la “ricetta di guerra” di George W.Bush diventa più condivisibile…..alla faccia dei tanti “pacifisti” europei che lo adoravano come un novello Gandhi…..
@ Pastore Sardo: i soloni di Stoccolma, oltre ad attribuire il Nobel per la Pace ad un personaggio come Arafat, lo hanno pure dato a un certo signor Le Duc Tho (che lo ha…rifiutato…) macchiatosi dei peggiori crimini di guerra….
Per dovere di cronaca, mi tocca precisare che Obama, già prima di vincere le elezioni, aveva mostrato di essere molto più “concreto” di quello che si pensa comunemente. “Lasciatemi essere chiaro: l’Iran rappresenta una grave minaccia”, aveva detto senza mezzi termini nel 2007. E ancora: “il mondo deve impedire all’Iran di acquisire armi nucleari e lavorare per eliminare il programma nucleare nordcoreano. Nel perseguire questo obiettivo, non dobbiamo mai escludere l’opzione militare”. Alla faccia del bambino ingenuo che solo ora comincia a rendersi conto di come funziona il mondo…