Il mondo secondo V.—di Gemma Mantovani
Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gemma Mantovani.
Il libro di Yanis Varoufakis che si intitola “L’economia che cambia il mondo” (Rizzoli, 2015) vuole essere semplice perché si rivolge alla figlia, ai non addetti ai lavori. In realtà è con la storia, anche la filosofia, ma soprattutto con il sano e vecchio buon senso che non si può che sorriderne, l’economia c’entra poco.
V. è greco, anche europeo. Ma è pure australiano. La domanda-tormentone del libro è la seguente: “Perché i guerrieri aborigeni australiani non sono sbarcati a Londra ma è successo il contrario?”
Per colpa dell’agricoltura, del surplus di cibo creato dagli uomini ingordi. Ci spiega V.: “Come per tutte le grandi rivoluzioni tecnologiche neanche in questo caso siamo stati noi a sceglierla. La tecnologia delle colture, l’economia agricola ci è stata… rivelata”: ma cosa vuol dire “rivelata”? Lui non lo spiega affatto. Il surplus agricolo, continua, ha generato i seguenti miracoli sociali (detto con sua evidente ironia): la scrittura, il debito, il denaro, gli stati, gli eserciti, il clero, la burocrazia, la tecnologia e perfino la prima forma di guerra batteriologica. Dunque la tragedia del surplus agricolo ha causato le suddette devastazioni della società. Perché, per esempio, nasce la scrittura? Per tenere nota dei debiti, spiega V. Pensate ai felici aborigeni australiani che mangiavano bacche e pesci in pace con la natura e che ora sappiamo avevano una poesia, una musica e una mitologia di altissimo valore culturale, senza i debiti e senza la noiosa scrittura per annotarli. Shakespeare, Balzac, Dostoevskij… che sarà mai la scrittura, se anche a causa della scrittura l’uomo ha continuato ad inventare e sviluppare tecnologia che poi lo ha ridotto a schiavo infelice?
Dopo la tragedia del surplus agricolo, arriva la seconda grande tragedia; il crollo del feudalesimo. Sì, avete capito bene. Perchè per V. i feudatari davano al principe, ma almeno si tenevano per sé parte della produzione che ottenevano con il loro lavoro. Le pecore, ci spiega, sono la prima grande causa della disoccupazione mondiale: sì le pecore, perché il valore della lana diventa alto, i contadini non servono più e, altro piccolo particolare, si continua con l’autolesionista attività di ricerca, tanto che nella dannata Inghilterra si inventa pure la macchina a vapore. Pecore + James Watt = la seconda grande tragedia nel mondo di V.: l’industria, le fabbriche, la rivoluzione industriale.
Oltre alle fabbriche, tutto questo commercio, questi scambi economici di beni fanno nascere un’idea strana: quella della “libertà”. Ma attenzione – precisa subito V. – ci sarà anche la libertà, ma si sono create una miseria ed una infelicità mai viste prima! In fondo, dice V., passino i commercianti, che sono sempre esistiti, ma gli imprenditori no. Passando da Frankenstein a Matrix, da Blade Runner a Star Trek (vi assicuro che oltre agli antichi greci questi sono gli unici riferimenti culturali significativi del libro) è presto detto: “Un esercito di androidi è il sogno di ogni imprenditore. E il sogno di ogni imprenditore si trasforma in un incubo quando diventa realtà”. Ma l’uomo non è così, non è il cattivo, perfido, inumano imprenditore canaglia e schiavista. V. ci dice che gli uomini veri sono quelli che donano il sangue e ti fanno vedere da casa loro un tramonto sul mare senza farti pagare. Già, i tramonti della Grecia. V., abbiamo detto, è australiano, molto australiano e si capisce. Cancella completamente l’uomo moderno, direbbe Le Goff. “E’ possibile spostare l’interesse privato con quello planetario”, si chiede V.? “Certo che è possibile, gli aborigeni ce l’hanno fatta benissimo”. Dopo gli aborigeni, i greci e i romani, c’e stato solo declino. Mi viene in mente una bellissima riflessione di Carlo Cipolla ne “Il mulino delle invenzioni”: “I greci e i romani avevano coscienza della loro civiltà ma non il senso del progresso; erano convinti che i loro più lontani antenati, benché in miseria, non fossero stati per questo meno felici. Dal medioevo la visione cambia, lo sviluppo tecnologico è correlato allo sviluppo civile e sociale. Questo è il dramma dell’uomo contemporaneo (nb: Cipolla scrive all’indomani di Chernobyl): gli spettri dei disastri ecologici/economici fanno idealizzare una perduta età dell’oro. Ritorna così l’atteggiamento dell’antico greco”. Il V. di oggi. Ma che è fuori tempo, anche fuori luogo, e sicuramente fuori dalla storia dell’umanità (si capisce l’amore per la fantascienza).
La tecnologia non è una “rivelazione” misteriosa. E’ espressione dell’umanità stessa, della sua libertà. Già, ma per V. la libertà è un incidente di percorso, non conta niente rispetto all’infelicità e alla miseria della società moderna. In conclusione mi domando e chiedo come una nazione abbia potuto affidarsi ad un signore che nega la storia umana degli ultimi mille anni raccontando favole banali trite e ritrite. Al solo fine poi, come scrive chiaramente in uno degli ultimi paragrafi, di perorare la causa dei tecnologicissimi bitcoin! Tanto rumore per nulla… Mi sembra davvero penoso. Ma carta canta. Anche se nel mondo di V. la scrittura non conta, il suo commerciale instant book non ce l’ha fatto mancare!
Manca solo quel concetto che dice che l’abbondanza di cibo e la civilta’ hanno favorito l’involuzione della specie umana poiche’ hanno mitigato gli effetti della selezione naturale.
Avrebbe potuto esprimerlo cosi’: “ti ricordi, figlia, quella volta che hai preso la broncopolmonite e ti ho curata con gli antibiotici? ecco: 2000 anni fa saresti morta.”
Saluti.
Gianfranco.
ps. il tutto, e’ necessario specificarlo, con un sorriso.
Mi sembra la brutta copia di “Armi, acciaio e malattie” del biologo americano Jared Diamond, un libro costato circa 25 anni di studi al suo autore. Possiamo immaginare la diversa profondità dei contenuti dei due libri che però partono da una domanda simile. il Diamond la riceve in Nuova Guinea e la descrive nell’introduzione al libro, che cito testualmente:
“I bianchi erano arrivati, avevano imposto un governo centrale, e avevano portato beni materiali il cui valore era apparso subito evidente ai guineani medesimi: asce di acciaio, fiammiferi, medicine, vestiti, bibite, ombrelli… Tutto ciò veniva chiamato dai locali con il termine collettivo «cargo».
Molti coloni bianchi disprezzavano i «primitivi» guineani senza mezzi termini; anche il più sciocco tra i «padroni» bianchi (chiamati cosi ancora nel 1972) godeva di uno standard di vita assai più alto di un politico locale importante e intelligente come Yali. Eppure io e lui sapevamo benissimo che, in media, i locali erano abili e capaci almeno quanto i colonizzatori; fatto questo su cui doveva aver rimuginato a lungo, quando mi chiese, fissandomi con i suoi occhi penetranti: «Come mai voi bianchi avete tutto questo cargo e lo portate qui in Nuova Guinea, mentre noi neri ne abbiamo così poco?» Era una domanda semplice, che proveniva dalla sua esperienza diretta. Sì, le differenze tra lo stile di vita dei locali e dei bianchi erano (e sono) ancora enormi, e lo stesso si può dire per molte altre parti del mondo: differenze enormi che devono avere cause fondamentali, anche se noi potremmo ritenerle ovvie. Eppure la semplice domanda di Yali non ha una risposta altrettanto semplice. Io, allora, non seppi cosa dire. Gli storici nemmeno, visto che sono in grande disaccordo, e i più ignorano del tutto la domanda. Negli ultimi anni ho studiato a fondo alcuni aspetti dell’evoluzione dell’uomo, della sua storia e del suo linguaggio; ora, venticinque anni dopo, in questo libro posso cercare di rispondere a Yali.”
Ora, visto che il Diamond ha scritto il suo libro prima di V., sono portato a pensare che quest’ultimo stia andando a rimorchio.
Ma se ha fatto il ministro come ha scritto il libro … possiamo comprendere certe situazioni di queste ultime settimane.
Alla domanda di V. c’è una sola risposta nell’anno Domini 2015: <>