Il mito di Proteo ed Eidotea
Trasformismo e illusionismo come rappresentazione ingannevole versus conoscenza vera, lavoro indipendente e ricerca della verità.
Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Carlo De Filippis.
Proteo è il “verace Vecchio del mare”, divinità marina e oracolo, presentato da Omero in un celebre episodio dell’Odissea (libro quarto, versi 363-569). Egli vive accanto al mare, nell’isola di Faro, in prossimità dell’Egitto, con la figlia Eidotea e un branco di foche appartenente a Poseidone. Proteo conosce gli avvenimenti passati, presenti e futuri. Inoltre, è in grado di cambiare aspetto, assumendo le più svariate sembianze (animali, vegetali, acqua e fuoco), per sottrarsi alle interrogazioni degli uomini. A lui intende rivolgersi Menelao per avere informazioni e consigli sul ritorno in patria e superare le perduranti difficoltà del suo viaggio. Eidotea, nome parlante (da eidos – idea, forma, figura – ed eidesis, conoscenza), istruisce Menelao sul comportamento da adottare per vanificare la strategia difensiva del padre Proteo e raggiungere l’obiettivo: egli deve acquattarsi e mimetizzarsi tra le foche, attendere che il Vecchio esca dal mare a mezzogiorno per riposare tra queste, poi afferrarlo e trattenerlo con forza, ignorando le sue molteplici trasformazioni.
Quando Proteo si accorgerà dell’intrusione, “tenterà allora – avverte Eidotea – di divenire ogni cosa che in terra si muove, e acqua e fuoco che prodigioso fiammeggia, ma voi tanto più tenetelo fermo e stringetelo”.
L’incursione nell’ambiente abituale, la mimetizzazione, l’immobilizzazione mediante l’uso mirato della forza, la resistenza a trucchi e artifici: questo è il procedimento prefigurato e suggerito da Eidotea per vanificare la reazione di Proteo e accedere alla conoscenza vera da lui detenuta. Quando avrà esaurito il suo repertorio di trasformazioni e tornerà al suo aspetto normale, “lascia allora la forza – raccomanda Eidotea – libera il Vecchio, o guerriero, e chiedi chi degli dei ti perseguita, chiedi il ritorno, come potrai navigare sul mare pescoso”.
Menelao mette scrupolosamente in atto le istruzioni ricevute. Proteo, da parte sua, di fronte all’agguato, utilizza la sua “techne ingannevole” (δόλια τέχνη): “prima divenne leone dalla folta criniera, e poi serpente e poi pantera e grosso cinghiale, diventò liquida acqua e albero dall’alto fogliame”. Ma i suoi sforzi trasformistici sono efficacemente contrastati dalla determinazione, dall’avvedutezza e dalla forza di Menelao e dei suoi compagni: “ma noi tenevamo forte, con cuore costante”. Cosicché, “quando alla fine fu stanco il maestro d’astuzie”, si rende disponibile alle richieste e Menelao ottiene ciò che vuole: informazioni e suggerimenti.
All’analisi e all’interpretazione del mito di Proteo ed Eidotea si sono applicati scoliasti e commentatori di diverse epoche. In questa sede, interessa solo fare qualche riflessione sulla natura delle due technai esibite da Proteo.
La prima, la divinazione o mantica, è una “prestazione professionale” nota e riconosciuta nella Grecia antica, consistente nell’interpretazione di segni e nella predizione del futuro.
La seconda, il cambiamento di forma, è definita da Omero techne ingannevole, conformemente a un giudizio ampiamente diffuso nella cultura greca arcaica e classica che riguarda, in primo luogo, la techne in quanto tale, associata spesso ad artificio, inganno o apparenza. La medesima correlazione è peraltro riproposta poco dopo (v. 329), proprio nel racconto di Proteo relativo alla congiura ordita da Egisto nei confronti di Agamennone e culminato nell’uccisione di questo.
Anche in Esiodo (Teogonia, v. 540), la locuzione δόλια τέχνη è utilizzata per denotare il comportamento ingannevole di Prometeo che, a Mecone, in una situazione in cui dei e uomini vivono insieme, effettua una spartizione disuguale di un bue sacrificale e confeziona le due parti risultanti in modo da rendere attraente quella peggiore (le ossa bianche spolpate) e orientare verso questa la scelta di Zeus. La sanzione conseguente è la sottrazione del fuoco agli uomini. Da qui la spirale di azioni e reazioni che caratterizzano il mito di Prometeo.
Tornando all’Odissea e all’episodio considerato, l’evocazione dell’inganno e dell’artificio, oltre a richiamare una consolidata diffidenza etico-sociale nei confronti delle technai e dei detentori delle stesse, investe anche la specificità della techne metamorfica di Proteo: infatti, essa riguarda – secondo commentatori antichi – non la realtà ma l’apparire. Proteo non cambia realmente aspetto, non agisce sulla realtà, rimane sempre se stesso, il Vecchio del mare; ma fa credere ciò che non è, la metamorfosi, manipolando l’immaginazione dei suoi interlocutori. Gian Antonio Gilli, nella sua ricostruzione dell’atteggiamento greco nei confronti delle technai in epoca arcaica e classica, sviluppa e documenta tale lettura del mito. Se le trasformazioni di Proteo fossero state reali, la forza e il coraggio di Menelao e dei suoi tre guerrieri sarebbero stati inutili: il loro tentativo di neutralizzazione non avrebbe avuto successo, non avrebbero potuto prevalere e avrebbero dovuto infine soccombere. Il gioco di prestigio e l’illusionismo: ecco il contenuto della techne di Proteo, secondo quest’antica prospettiva interpretativa di tipo razionalistico-empirico. Si può dire, in base ad essa, che nell’VIII secolo a.C., è offerta da Omero, nella forma del mito, la descrizione di una specifica abilità che si esplica nella comunicazione e consiste in pura rappresentazione. Sempre in questa prospettiva interpretativa, l’accezione corrente del termine proteiforme come sinonimo di capace di mutare forma (oppure opinione), risulta solo parzialmente adeguata alla situazione e, in ultima analisi, fuorviante in quanto denota un mutamento nel soggetto titolare della capacità mentre, in questo caso, il mutamento esiste solo nella percezione del destinatario della performance. Il nucleo centrale della specializzazione metamorfica di Proteo consiste nel far credere qualcosa che non esiste realmente, nel dare all’apparenza connotazione di realtà oggettiva. Essa si esprime istantaneamente come potere dell’immagine, sulla base di un approccio top down che non richiede un qualche tipo di collaborazione dell’interlocutore, tanto meno un suo ruolo attivo e consapevole.
Il mito omerico di Proteo, alla luce dell’interpretazione proposta, rivela che nella Grecia arcaica l’illusionismo esiste, si interpone tra l’essere umano e la realtà oggettiva ma può essere neutralizzato e la conoscenza della verità può essere raggiunta. Occorrono l’aiuto della divinità, in forma d’accompagnamento e rivelazione, nonché determinazione, forza e coraggio. All’epoca, la ricerca del vero non si è emancipata dalla religione e non è ancora diventata un primario interesse pubblico.
L’esperienza successiva della polis ateniese ci dice che la migliore difesa dalla techne ingannevole e dalle opinioni distorte (pseudes doxai) è la solida cintura protettiva costituita dal riconoscimento della tensione ontologica dell’essere umano verso la verità (tutti possono raggiungerla), dall’impegno individuale e collettivo nella sua ricerca, dalla partecipazione diretta dei cittadini al governo, dalla pratica della conversazione e del confronto critico aperto. Assieme all’innovazione politica rappresentata dall’assunzione di decisioni collettive sulla base della discussione pubblica, la polis comporta un’innovazione sociale che è la precondizione della prima: il ruolo preminente dei contadini coltivatori diretti e degli artigiani. V’è una correlazione tra la contrastata emancipazione dei contadini dal predominio dei re “mangiatori di doni”, dōrophágoi, (Esiodo, Opere e giorni, v. 38, 221 e 264), tra l’affermazione sociale del lavoro autonomo e la concezione emergente della tensione dell’essere umano verso la verità, concepita anch’essa come liberazione, come transizione dall’oscurità alla luce. La funzione delle attività produttive indipendenti piuttosto che il pur presente e rilevante rapporto sociale schiavistico è il dato socio-culturale primario e differenziante del periodo. Nel codice genetico della nostra civiltà c’è dunque un’esperienza fondamentale di disintermediazione della rappresentanza, l’autogoverno, caratterizzata da una speciale coniugazione d’individualità e socialità, configurantesi anche come autopoiesi, autocreazione dell’individuo libero. Riprendendo la riflessione di Hannah Arendt, filosofo militante e permanentemente impegnata nella ricerca degli antidoti al totalitarismo, si può dire che i Greci hanno inventato uno spazio pubblico aperto incentrato sull’idea che ciascuno tende all’essere, in quanto ne è parte integrante, e sull’impegno diretto, la partecipazione attiva e la discussione.
E oggi? Nulla di nuovo sotto il sole. La techne ingannevole è sempre quella: il trasformismo come prestazione professionale speciale. Le sue manifestazioni sono molteplici: il marketing del cambiamento apparente e la collocazione di questo sul mercato come cambiamento reale magari riciclando merce invenduta giacente in magazzino (ad esempio, la demonizzazione dell’uso del contante, la finanziarizzazione forzosa dei rapporti sociali e lo smantellamento delle attività produttive indipendenti), le mosse ad effetto dei facitori di meraviglie (ad esempio, promuovere la formazione ad ogni costo di un governo “per fermare l’ondata populista”, per poi poterlo quotidianamente criticare e ricattare, allo scopo d’acquisire risonanza mediatica), l’evoluzione funambolica di posizioni ed equilibri in funzione di convenienze e opportunità contingenti (ad esempio, dalla simpatia per i “gilet gialli” all’aggregazione indifferenziata nel sostegno di Ursula), il disinvolto riposizionamento di performer sotto forma finanche di alternativa a se stessi (ad esempio, dalla recitazione apparentemente convinta dello slogan “il carico fiscale è il principale problema” a quella altrettanto affettata dello slogan “l’evasione fiscale è il principale problema”), la realtà oggettiva utilizzata come materiale di costruzione di narrazioni autoreferenziali, la manipolazione delle coscienze volta a far credere ciò che non è (ad esempio, che l’intendimento vero è nell’annuncio o nel titolo mentre si trova, più o meno camuffato, nel testo del discorso o della legge), la scelta selettiva e talvolta subdola (se non l’invenzione di sana pianta) dei fatti e il fact checking medesimo adoperato spesso come espediente per deformare la realtà oggettiva che si dichiara di voler controllare.
Gli antidoti? Sempre gli stessi: il coraggio di andare a vedere cosa c’é dietro la performance illusionistica e, soprattutto, la dialettica delle opinioni riferita ai fatti, all’interno di uno spazio pubblico aperto basato sulla discussione e caratterizzato dall’interesse individuale e collettivo alla verità. Illusionismo e trasformismo non possono prevalere, fin quando tale spazio esiste. E’ questo il punto.
In un quadro di riferimento caratterizzato da incertezza, confusione e disorientamento, rimangono comunque la possibilità del raccordo alla corrente carsica transepocale e planetaria della disintermediazione della rappresentanza e la riaffermazione, sulla base di approccio storico-critico e con intelligenza progettuale, di principi costitutivi della nostra civiltà. Non è poca cosa.
Letture di riferimento
Omero, Odissea, versione di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino, 1963
Esiodo, Teogonia, traduzione e commento di Graziano Arrighetti, Einaudi-Gallimard, Torino, 1998
Esiodo, Opere e giorni, traduzione e commento di Graziano Arrighetti, Garzanti, Milano, 2012
Gian Antonio Gilli, Origine dell’eguaglianza, Einaudi, Torino, 1988
Hanna Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano, 2014