10
Ago
2009

Il guaio di Silvio, la santa diffidenza verso il big government

La levata di scudi generale odierna contro l’idea delle nuove gabbie salariali è giusta e sacrosanta: ma più che altro era scontata. Silvio Berlusconi, con la sua intervista al Mattino rilanciata oggi in interviste radiofoniche, su questo tema ha fatto il bis dell’errore di pochi giorni prima, quando il governo ha avuto la leggerezza di evocare la Cassa per il Mezzogiorno come precedente per l’annunciata nuova politica di sviluppo per il Sud.

Hai voglia a dire poi che la Cassa non c’entra, e a ripetere oggi da parte di altri ministri che Berlusconi non ha in mente le vecchie gabbie salariali, ma retribuzioni con una componente commisurata ai costi locali, tra cui “anche” quello della vita. In realtà Silvio semplifica volutamente ogni questione tecnica quando decide di cavalcarla lui. Non sarebbe stato da conoscitore degli italiani, mettersi a parlare di contrattazione decentrata di produttività come abbiamo fatto noi qui. Così facendo, Berlusconi deliberatamente non è che si “esponga al rischio” che una parte mica piccola di italiani, anzi maggioritaria, capisca esattamente che il modello sono la Cassa per il Mezzogiorno da una parte, e le vecchie gabbie salariali dall’altra: è invece proprio ciò che Silvio vuole, che il più degli italiani capisca quello. Poi, alla minoranza  che ha passione e cognizione per i problemi tecnici e per la strumentazione di dettaglio, si spiegherà successivamente che naturalmente si ha in mente qualcosa di molto diverso. Ma quel che conta è la deliberata mistificazione dell’obiettivo, in nome della semplificazione che contemporaneamente al Sud arriva come “più sociale”, e al Nord come “più meritocratica”. La comunicazione di maggior sostegno popolare – anche magari quando autoelidente e-o contraddittoria logicamente – prevale sulla possibile coerenza attuativa. A questo proposito, il mio totale dissenso non è motivato dalla prevalenza del comunicatore sullo statista: l’aspetto che più fa imbizzarrire la sinistra. Ma, tanto per cambiare, dal “nostro” punto di vista minoritario. Quando si vive la terribile realtà di un big government che intermedia più del 50% del reddito nazionale, “ogni” equivoco – anche se a forte consenso popolare – che ne alimenti ulteriori estensioni e discrezionalità è un male in sé e per sé. Per questo, nei periodi di dura crisi economica, lo statista liberale deve essere dieci e cento volte più cauto e preciso nell’usare le parole e annunciare nuove misure, rispetto a quelli socialisti e statalisti di tutti i credo. In proposito, esemplare tutto quanto oggi detto in un blog del NYT dal conservative  Ross Douthat, rispetto al liberal Gail Collins. Il punto non è affatto che lo statalista sia per forza di cose più corrotto di chi è convinto dello Stato minimo, o che – simmetricamente – chi crede meno nello Stato tenda ad essere più corrivo verso comportamenti pubblici più inclini a servirsi delle istituzioni a fini privati. È l’esperienza concreta plurisecolare, a insegnarci che a prescindere dalle intenzioni del proponente  – si tratti della Health Reform negli Usa da parte di Obama, di nuove politiche al Sud per Berlusconi – far capire di voler estendere ulteriormente un governo già tanto pervasivo si traduce in un danno di medio e lungo periodo largamente superiore a quello del consenso a breve. È un criterio che vale sempre, per noi. Ed è per questo che Berlusconi sbaglia, prima e più ancora che nel merito.

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1 Response

  1. A proposito di gente che nel lungo termine farà danni, il possibile futuro prossimo Primo Ministro del Giappone vuole farla finita con il “fondamentalismo di mercato alla occidentale”.
    http://www.nakedcapitalism.com/2009/08/sea-change-in-japan-western-market.html
    http://www.ft.com/cms/s/0/e041b3e6-85d8-11de-98de-00144feabdc0.html

    Ma non gli è bastata la crisi decennale che hanno avuto?
    Chissà come reagiranno i mercati, con il debito pubblico giapponese al 180% del PIL.

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