Il green deal europeo non è politica ambientale ma (dannosa) politica economica (soprattutto in agricoltura)
Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Flavio Barozzi, Presidente della Società Agraria di Lombardia
L’editoriale con cui gli amici dell’Istituto “Bruno Leoni” commentano alcune scelte del cosiddetto “green deal” voluto dai vertici politici dell’unione Europea (leggi qui) è pienamente condivisibile e metodologicamente corretto. Comprensibilmente concentra l’attenzione del lettore su temi di “pronta presa” attinenti alla politica industriale, quali l’auto elettrica o il nucleare. Per questo merita forse una integrazione sui temi della politica agricola ed agroalimentare, rispetto ai quali gli impatti del “green deal” appaiono non meno rilevanti, tanto sul piano della sicurezza alimentare, quanto su quello degli effetti negativi di un approccio “ideologico” nei confronti dell’economia in generale, dei rapporti sociali, e paradossalmente persino dell’ambiente.
Gli studi condotti da autorevoli istituzioni di ricerca quali le Università di Wageningen e di Kiel, oltre che dallo stesso Joint Research Centre dell’UE, e persino da un “concorrente” economico dell’agricoltura europea come USDA, concordano nel delineare nella sostanza scenari a dir poco inquietanti a seguito all’adozione delle “strategie” Farm to Fork e Biodiversity, che costituiscono la base del “green deal agricolo”: calo delle produzioni agricole comunitarie e del tasso di autoapprovvigionamento, riduzione dell’occupazione, aumento dei prezzi dei prodotti alimentari, perdita di potere d’acquisto dei consumatori; il tutto senza significativi benefici per l’ambiente, ma solo con “l’esportazione” di alcuni possibili impatti della produzione agricola verso Paesi extra-UE cui sarebbe delegato (con effetti a livello “strategico” tutti da verificare…) il compito di produrre cibo per i cittadini europei.
La Commissione UE attualmente in carica pare refrattaria a qualsiasi osservazione tecnica: pochi giorni fa ha licenziato un parere in cui piuttosto incredibilmente dichiara che “gli studi indicano che i maggiori impatti [del cosiddetto regolamento “taglia agrofarmaci”, un altro dei fronti caldi del “green deal agricolo”, ndr] si verificano su colture di limitata rilevanza per la sicurezza alimentare, come la vite ed il pomodoro” (leggi qui). Ogni commento sulla “irrilevanza” della produzione della vite e del pomodoro in Italia appare superfluo…
Per contro l’UE continua a propugnare la più ampia diffusione della cosiddetta “agricoltura biologica”, incurante non solo delle evidenze sperimentali sulle ridotte rese unitarie (dal 20 al 70% in meno rispetto alle produzioni da agricoltura integrata a seconda dei casi), sulla discutibile sostenibilità ambientale (trattandosi di una pratica caratterizzata in molte situazioni da bassa efficienza tecnica nell’uso di fattori non riproducibili quali suolo, acqua ed aria), ma anche dei ricorrenti scandali sulle truffe che travagliano il settore, di cui la recente inchiesta giudiziaria sul falso riso “bio” in Lombardia rappresenta solo l’ultimo esempio.
La recente approvazione della “normativa UE per il ripristino della natura”, passata a stretta maggioranza al Parlamento Europeo, aggiunge ulteriori elementi di inquietudine. Non si capisce infatti se essa sia ispirata da una “avversione ideologica” verso l’essere umano come “gestore” delle risorse naturali, perché questa – con i suoi alti e bassi, le sue contraddizioni, i suoi errori, ma anche con le sue straordinarie conquiste, a cominciare da quelle delle “rivoluzioni” agricole – è la storia stessa dell’umanità dal giorno in cui un nostro lontano progenitore (forse neppure appartenente al genere Homo) scoprì il fuoco, facendo dell’uomo l’unica specie che ricava energia da fonti non metaboliche, ovvero la più “innaturale” forma di vita esistente sul pianeta; o se obbedisca piuttosto a logiche politico-economiche di piccolo cabotaggio (o di grandi e forse non del tutto confessabili interessi…) sul modello del “tanto peggio, tanto meglio”, che finiscono per coincidere con certi radicati filoni di pensiero (“L’agricoltura è una maledizione per l’umanità, costretta ad un duro lavoro da quello che è il vero peccato originale, la sua moltiplicazione eccessiva, per cui è stata cacciata dai paradisi terrestri della raccolta e della pastorizia: ‘Ti guadagnerai il pane col sudore della fronte!‘”, scriveva negli anni ‘70 il “paleo-ambientalista” francese Renè Dumont).
Noi preferiamo le parole del grande agronomo bresciano Agostino Gallo (1499-1570): “Mi piace che voi chiamate l’Agricoltura per benedetta, attesoché ella è veramente la più santa, la più dilettevole, la più onorevole, la più utile di qualsivoglia arte; perciocchè è quella che dà il vivere a tutto il mondo”. Per questo auspichiamo quell’approccio realistico e costruttivo che dovrebbe riconoscere il ruolo centrale dell’agricoltura come unica attività umana in grado di produrre risorse rinnovabili partendo dal più straordinario processo biochimico della natura: la fotosintesi clorofilliana – la via metabolica più importante nel mondo biologico del nostro pianeta – che consente di convertire l’anidride carbonica catturata dall’atmosfera in molecole organiche da cui tutta la nostra esistenza dipende. L’obiettivo di un simile approccio è studiare come massimizzare l’efficienza dei processi e ridurne con la conoscenza gli inevitabili impatti. Per questo, nel sostenere quella “intensificazione sostenibile” dell’attività agricola comunque necessaria per far fronte all’ulteriore aumento della popolazione mondiale atteso entro il 2050, riteniamo – in scienza e coscienza – di essere molto più dalla parte dell’ambiente di tanti sedicenti “ambientalisti” che propugnano solo sfascio e decrescite dalle prospettive molto infelici.