23
Apr
2015

Il fisco discrezionale: abuso di diritto, funzionari illegittimi, e Stato che non paga

In un paese civile e ordinato, il fisco dovrebbe essere una materia chiara nelle sue norme e rigorosa nella reciprocità dei rapporti: lo Stato rigoroso verso chi non ottempera al dovere fiscale, ma anche pronto a sottoporsi alla stessa regola quando è lui, a finire in torto verso i contribuenti. Invece, da decenni aggiungiamo stortura a stortura. Il dovere fiscale è fatto di norme sempre più complicate e fumose. E lo Stato, in nome della lotta all’evasione e in difficoltà nei conti pubblici, sempre più pretende dal contribuente comportamenti ai quali è il primo a sottrarsi. La conseguenza? Lo Stato rigoroso a senso unico perde credibilità e legittimità, e senza di queste non vincerà la lotta all’evasione

Alcuni esempi concreti, che danno evidenza al nostro assunto. Martedì è ripreso il tortuoso cammino dell’applicazione della delega fiscale, dopo l’incidente in cui il governo è incorso alla vigilia di Natale con un testo – rimasto senza padre, scomparso nel silenzio – in cui affiorava un’incredibile norma di depenalizzazione della frode fiscale. Dei tre decreti delegati approvati martedì in Consiglio dei ministri e che ora andranno all’esame parlamentare, uno molto atteso riguarda il cosiddetto “abuso di diritto”. Tra le tante stranezze indigeribili del nostro paese, vi era quella di un reato penale tributario, l’elusione fiscale da abuso di diritto, mai scritta da alcun legislatore in alcun codice, ma entrata nel nostro ordinamento attraverso estensive definizioni giurisprudenziali, cioè con sentenze dei giudici, fino a pronunzie di Cassazione che ne avevano definito la fattispecie. Era divenuto reato penale la scelta da parte di un’impresa, nel pieno rispetto delle leggi fiscali esistenti – ripetiamolo: nel pieno rispetto delle leggi esistenti, senza violarne alcuna – di allocazioni di asset o di attività da cui conseguisse un vantaggio fiscale. Poiché la norma ha creato infinite interpretazioni diverse, affidate alla discrezionalità del giudice, e vasto contenzioso, la legge delega chedeva di fare finalmente chiarezza.

La chiarezza è consistita nel fatto che il reato non sarà più penale ma amministrativo, ma per il resto esso resta praticamente com’era stato in precedenza definito dalla Corte di Cassazione. Certo, si scrive che sarà l’Agenzia delle Entrate a doverlo provare (altra stortura, nel nostro ordinamento ha finito per prevalere l’idea che spetti al contribuente l’onere della prova..), e si ammette benignamente la possibilità che l’impresa possa preventivamente interpellare l’Agenzia prima di compiere la sua scelta (altro segno che non ci siamo: chiedere preventivamente permesso prima di fare una cosa è la miglior riprova che le norme da sole non consentono di capirlo). Ma resta il fatto che, se nel pieno rispetto delle norme vigenti un’impresa dovesse compiere scelte o assumere condotte tali da realizzare un prevalente vantaggio fiscale rispetto a quello economico o organizzativo, ecco che allora Guardia di Finanza e Agenzia delle Entrate avranno comunque la facoltà di contestarlo in nome del fatto che il risparmio fiscale sia illegittimo. L’imprenditore non può perseguire un vantaggio fiscale consentito dalle norme, se non ci sono evidenze che il vantaggio prevalente conseguito in conto economico e patrimoniale venga da altro: come se il fisco fosse una componente residuale, del risultato finale annuale.

Aspettarsi da un simile “chiarimento” meno incertezza e contenzioso è del tutto singolare, per non dire lunare. Agenti del fisco e commissioni tributarie resteranno loro i veri e unici depositari di che cosa configuri il vantaggio fiscale legittimo rispetto a quello illegittimo. Da una norma così, le imprese ricavano la non trascurabile certezza di evitare il penale, non quella di sapere con sicurezza che scelte poter compiere tali da evitare contestazioni tributarie. E in ogni caso il precedente contenzioso resterà in piedi penale compreso, secondo la pessima abitudine del fisco di non riconoscere che, quando una nuova norma è in favore di presunti precedenti rei, l’accusa decade automaticamente.

Si dirà che nei decreti delegati vi sono comunque novità positive, dal decadere dei doppi termini di accertamento da 4 a 8 anni che l’Agenzia delle Entrate aveva ottenuto per sé in presenza di segnalazioni all’Autorità giudiziaria, alla fatturazione elettronica che gradualmente supera spesometro e scontrini. Verissimo: ma quanto a chiarire in che cosa consista la presunta elusione nella scelta di opzioni fiscalmente più vantaggiose offerte dalla stessa legislazione italiana ed europea, il decreto ha fallito la delega che gli era affidata. Ed è lo Stato a riservarsi discrezionalmente l’ultima parola.

A che cosa corrisponde questa opacità dello Stato verso il contribuente, quando il torto conclmato è dello Stato e non del cittadino? Vediamone alcuni esempi concreti. Il primo è la sentenza della terza sezione del TAR del Lazio il 15 febbraio scorso, sul caso della signora Ivana Antonietta Di Mambro. Riconosciuta la fondatezza della sua richiesta, e cioè il pieno riconoscimento di un indennizzo dovutogli dal ministero della Salute compreso il periodo dal 2009 a oggi, il TAR ha negato che siano dovuti alla signora anche gli interessi di mora intercorsi sul mancato pagamento. La giustificazione? Testuale: “vista la condizione in cui versa la Pubblica amministrazione debitrice, debitamente documentate, nonché la notoria situazione di congiuntura che ha imposto severi tagli alla spesa pubblica, particolarmente nel settore sanitario afflitto da disavanzi di notevoli dimensioni”. Chiunque dovrebbe insorgere, leggendo un simile dispositivo. Il contribuente, quand’anche ammesso a rateazione dallo Stato per mancanza di liquidi, paga profumati interessi di mora e non si può sottrarre. Lo Stato si scrive una sentenza per non pagarli al contribuente, al quale ha intanto anche alzato le tasse. Una cosa da monarchie assolute, in pieno dispregio dell’elementare reciprocità di legalità che deve caratterizzare i rapporti tra Stato e cittadino. Eppure nessuno ha fatto un plissé, di fronte a una simile decisione del TAR.

Altri esempi, dal pacco quotidiano di segnalazioni da parte di lettori e ascoltatori. La Colorex di Lugo di Vicenza mi manda copia dell’atto per il quale, avendo richiesto accesso al regime di compensazione dei crediti IVA maturati nella sua attività di export, l’Agenzia delle Entrate chiede all’azienda una fidejussione a propria garanzia – dovessero risultare impropri i crediti – di 80mila euro. Inutile dirvi che oltre a essere proporzionata all’importo del credito, la richiesta di fidejussione comprende eccome anche gli interessi sul periodo relativo, al 2%. Ha senso per voi, che lo Stato chieda soldi in garanzia a coloro che maturano crediti fiscali nei suoi confronti? Datevi una risposta. E ancora. Da un’Agenzia viaggi in provincia di Modena, il cui titolare ha rateizzato 1400 euro di contravvenzioni e bolli non pagati, la fotocopia di una cartella esattoriale relativa a 12 centesimi di errore e sottostima nei pagamenti a saldo effettuati. Per la cui estinzione il contribuente dovrà versare la bellezza di 117 euro.

Infine, piovono sentenze come quella della commissione provinciale tributaria di Milano, che danno ragione ai contribuenti che impugnano come illegittimi gli atti di accertamento ed esecutivi sottoscritti dagli 800 dirigenti sanzionati come illegittimi dalla Corte Costrituzionale. Esattamente l’opposto della tesi sostenyuta dalla direttrice di AgEntrate Orlandi,  per la quale è “vergognoso” anche solo pensar a impugnative di atti firmati da quei dirigenti, “perché i cittadini perderanno i loro soldi”. Un tono e un argomento incommentabile, da satrapìe dell’antico impero persiano.

Ha senso un fisco così? La risposta è una sola. No, non ce l’ha. Finché continua a darsi ragione da solo, chiedendo a noi di comportarsi come lui per primo non si comporta, il fisco deve riformare se stesso prima di riformare il paese.

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2 Responses

  1. Luca Maria Blasi

    Purtroppo, nonostante qualche segnale in controtendenza, paghiamo lo scotto non solo di un’amministrazione finanziaria proterva e autoreferenziale, ma anche di una giurisprudenza – soprattutto, ma non solo, tributaria – troppo pro-fisco, perché in senso lato “politica”, troppo sensibile alle ragioni di cassa dello Stato.

  2. Egr. direttore,
    scrivo in merito alla questione della Sentenza del TAR Lazio, per (almeno) provare a chiarire un equivoco lessicale e a spiegare l’orientamento del TAR. Ho provato a mandare una mail, ma mi dicono essere più efficace rispondere direttamente al blog.
    Chi scrive è un magistrato amministrativo (TAR Campania)e componente del direttivo e della giunta della nostra associazione più rappresentativa (www.anmadirettivo.it), ma scrivo a titolo personale.
    La critica, del tutto legittima, all’orientamento espresso dal TAR del Lazio deriva, almeno in parte, da un’errata percezione della questione giuridica. Pertanto, nella speranza di fornire un contributo di chiarezza, provo a spiegare a chi avesse la pazienza di leggere la questione (invero più complessa di quello che emerge a un primo sguardo).

    PENALITA’ DI MORA E INTERESSI DI MORA
    Provo a non essere pedante (ma è difficile vista la noiosità delle argomentazioni giuridiche).

    Gli interessi di mora sono quelli che paga ogni debitore che sia messo in mora. Questi, è ovvio, li paga anche la P.A. e nessuno si sogna di non riconoscerli ai ricorrenti.

    La penalità di mora è cosa ben diversa. Sul modello di quello che avviene in altri ordinamenti, il codice del processo amministrativo (approvato nel 2010) ha previsto che in caso di inottemperanza di una sentenza, il giudice possa condannare la P.A. a pagare una penalità per ogni ulteriore ritardo. Consideri che il TAR (in genere il giudice amministrativo), di solito, nomina un commissario ad acta affinchè provveda in 30-60 giorni nel caso in cui la PA perseveri nel proprio illegittimo inadempimento.
    Si è discusso della compatibilità tra il rimedio sostitutivo (il giudice mette un proprio delegato-ausiliario a fare materialmente quello che la PA non fa spontaneamente) e quello cd. compulsorio (la penalità di mora… una sorta di multa per l’ulteriore ritardo). Per molti, l’uno esclude l’utilità dell’altro (negli ordinamenti dove esiste la penalità di mora, di solito, non esiste il commissario ad acta), ma il legislatore l’ha prevista e, quindi, noi l’applichiamo.

    Orbene, vengo al dunque, il Consiglio di Stato -con una recente decisione dell’ adunanza plenaria- ha stabilito la compatibilità tra ottemperanza alla condanna al pagamento di somme di denaro e la penalità di mora. Molti la escludevano per evitare una sorta di ‘esplosione’ del debito dovuta al cumulo di interessi e penalità di mora (appunto facendo riferimento alla norma che consente di non condannare alla penalità di mora se manifestamente iniquo).
    La PA inottemperante, infatti, in questo caso -condanna al pagamento di una somma di denaro- paga:
    1- il capitale;
    2- gli interessi (di vario tipo a seconda del tipo di debito: compensativi, moratori, corrispettivi);
    3- le spese legali;
    4- le spese per il commissario ad acta;
    5….infine…. la penalità di mora.
    Ma tant’è… Se ha interesse, la questione è ben rappresentata nella Sentenza che trova al link che ho messo in calce (della sezione del TAR Campania dove lavoro ) al capo 7.
    Quindi, in molti casi, i TAR ritengono manifestamente iniquo il pagamento ANCHE della penalità di mora per le note condizioni del bilancio pubblico. Può essere non condivisibile, ma non è pazzesco… come sarebbe se si negassero ai poveri negletti debitori gli interessi.

    IL VERO SCANDALO
    Ciò posto, secondo me, lo scandalo non è nella Sentenza del TAR (o almeno, dal suo punto di vista, non solo).
    Schematizzo:
    I. la P.A. viene condannata con Sentenza DEFINITIVA al pagamento di una somma di denaro, quindi, perde un giudizio e deve pagare:
    a – somma per cui v’è condanna (a vario titolo: risarcimento, differenze stipendiali ecc.);
    b – interessi;
    c – rivalutazione;
    d – spese legali;

    II. La PA non paga pur dopo essere stata diffidata mediante invio della Sentenza di condanna in forma esecutiva (!); quindi, il malcapitato cittadino fa ricorso per l’ottemperanza innanzi al TAR (alternativamente all’esecuzione civile innanzi al giudice ordinario) e la P.A. viene condannata (se la domanda, come avviene nel 99% dei casi è fondata) al pagamento di:
    – (a, b, c, d);
    e – ulteriori interessi e rivalutazione;
    f – spese legali del giudizio di ottemperanza;
    g – spese per il commissario ad acta (lo chiedono tutti);
    h – penalità di mora (ma questo, almeno questo, molti TAR lo escludono con l’orientamento giurisprudenziale di cui si parla).

    E si pensi quando la condanna deriva dall’irragionevole durata di un processo….
    In tal caso, a monte di a, b, c, d, e, f, g, h c’è una condanna per il ritardo nella definizione di un processo (al TAR Campania, di recente, abbiamo deciso decine di ricorsi di ammessi al passivo di alcune procedure fallimentari… ancora non concluse, ma per cui già sono intervenute alcune condanne per irragionevole durata del processo…. non ottemperate).

    Concludo, nel senso, che a mio modo di vedere, la parte più grave della storia è che la PA non paghi i propri debiti -neppure quelli derivanti da sentenze definitive- in tempo con l’effetto di far lievitare esponenzialmente la spesa, di gravare, quindi, maggiormente il bilancio pubblico e di ingolfare ulteriormente la già malandata macchina giudiziaria.

    Ringrazio sinceramente chi ha avuto la pazienza di leggere l’intero post e torno al lavoro.

    la Sentenza di cui parlavo del TAR Campania può essere prelevata al sito http://www.giustizia.amministrativa.it >motore di ricerca > inserire Tipo provvedimento; Sentenza – Sede: Napoli – Anno 2015 Numero 2339

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