Il diritto sospeso: logica della paura e paura della logica
Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Massimiliano Siddi.
Una delle tante vittime collaterali, ed invisibili, di questa tragica emergenza sanitaria, che è anche una grande emergenza libertaria, è la logica. Il concetto, apparentemente nitido, ma in realtà sfuggente e polivoco, è di quelli che impressionano per la carica di responsabilità filosofica, politica, e persino semantica, che si porta dietro da millenni, più o meno da quando i greci, con protervia umana pari solo a quella degli abitanti del paradiso terrestre, ci hanno inappellabilmente condannato a misurarci con le poliedriche sfaccettature di questo nome terribile.
Ed è un nome talmente ingombrante ed incommensurabile, che persino il discepolo che Gesù più amava, Giovanni, esordisce nel suo annuncio evangelico facendone un attributo di Dio: “In principio era il Verbo (logos, nella traduzione greca dei “Settanta”), ed il Verbo era presso Dio ed il Verbo era Dio”.
Ma non spaventi tanta involontaria pedanteria, poichè la nozione di logica di cui voglio trattare non è certo quella delle vette trascendenti della teologia, nè quella delle soffocanti e meravigliose costruzioni tassonomiche della logica formale, ma quella molto più rozza, che si situa al livello del linguaggio ordinario e del ragionamento comune, dei giuristi.
Proprio dei giuristi, ovvero di coloro che di un limite oggettivo, dell’impossibilità di costruire un sistema razionale universalmente valido, hanno sempre fatto un punto di forza, pretendendo con la violenza dell’interpretazione e dell’argomentazione di governare persino l’epistemologia di fenomeni naturali complessi come il nesso causale. Ma questo innegabile punto di forza, imperniato su un’ipostatizzazione della ragione assoluta nella molto più accomodante e spendibile ragionevolezza, su Perelman più che su Cartesio per intenderci, è proprio quello che la terribile crisi sanitaria e libertaria di questo tempo d’esilio domestico sta depotenziando, sino ad annichilirlo a mero discorso, a logica appunto, della paura. Non che questa logica non abbia una sua logica, ma, nel momento in cui il dispositivo generalizzato della paura, da deterrente psicologico, si trasforma in filtro ermeneutico prioritario, in canone privilegiato di giudizio, il giurista abdica al suo ruolo di “medium” tra l’ordinamento astratto e la realtà, per farsi ottuso esecutore di una narrazione funzionale e precostituita. Sotto questo profilo, è proprio la logica della paura ad imporre la paura della logica, trattandosi del solo strumento che lo spirito umano ci mette a disposizione per una decodificazione attendibile e persuasiva dei fenomeni naturali. La narrazione della paura non può certo permettersi i dubbi, od anche solo gli interrogativi, che un discorso logico inevitabilmente solleva, e non può che costringere il dibattito nelle per lei molto più tranquille acque del principio d’autorità (i valori assoluti, la scienza etc.). Solo che, per ironia della sorte, questa volta il principio hobbesiano “Auctoritas, non veritas facit legem” sono proprio i dogmatici a scagliarlo contro i giuristi, e non viceversa.
Chiunque pretenda, anche nella presente situazione d’eccezione, un minimo di rispetto dei canoni della logica giuridica, o anche solo di quelli minimali della logica di senso comune, si vede solitamente contrapporre dei non – argomenti, come l’enunciazione di valori astratti o, peggio, suggestioni scorrette, come la conta dei morti o le drammatiche immagini di una povera umanità sofferente.
Questo “virus” dialettico, ormai anch’esso pandemico, non risparmia più neppure la giurisdizione, la cui sola funzione, a parte l’ossessione, un po’ eticizzante ed un po’ burocratica, per la straordinaria amministrazione degli affari ordinari, sembra essere diventata quella, di stampo neo – corporativo, di concorrere, all’unisono e con piena unità di intenti con gli altri pubblici poteri, alla soluzione del problema sanitario, attraverso la repressione di qualunque condotta contrasti col dogma della permanenza domiciliare, interpretato come se non dovesse patire eccezione alcuna. In questo senso, come avveniva nelle repubbliche democratiche satelliti dell’Unione Sovietica, o negli Stati autoritari di impronta fascista, il giudice, sia pure con sfumature istituzionali ed ordinamentali molto differenti, non si comporta più da organo autonomo, in una cornice di reciproca indipendenza e di separazione dei poteri, equidistante sia dal cittadino sia da chi ricopre funzioni di governo, ma diventa e, soprattutto, si auto – percepisce come un organo che contribuisce in modo sinergico alla realizzazione di un obiettivo sanitario comune, anche rinunciando ad una piena ed effettiva funzione di controllo di legalità. Per uscire dalle astrazioni, è molto illuminante come anche la giurisdizione stia acriticamente avallando il fenomeno dell’anarchia normativa, e quindi dell’esplosione delle fonti del diritto, che ormai pervade integralmente il nostro sistema in questo periodo di virtuale sospensione delle categorie giuridiche ordinarie. Assistiamo, pressoché quotidianamente, ad un profluvio parcellizzato di normazione “territoriale” liberticida che entra in aperto conflitto precettivo anche con le disposizioni nazionali che riguardano la concreta possibilità d’esercizio dei diritti fondamentali, e non solo non ce ne preoccupiamo, ma accettiamo, con sonnambulismo degno dei protagonisti di una meravigliosa opera di Hermann Broch, che questa normazione funga addirittura da presupposto di norme sanzionatorie penali, senza che ci si ponga il minimo dubbio sulla compatibilità costituzionale di questo andazzo amministrativo. A farne le spese, tanto per citare alcuni esempi, innocue masse di podisti e di semplici passeggiatori solitari che, pur rivendicando il giusto diritto di attenersi ad espresse disposizioni nazionali, vengono invece criminalizzate dai nuovi “sovranotti” locali, sull’assurdo presupposto – si diceva a proposito della paura della logica – che proprio il rispetto di tali disposizioni nazionali sia l’oggetto del loro crimine e sia addirittura la causa dell’aumento dei contagi. E’ del tutto evidente, che questo perverso meccanismo non dovrebbe essere minimamente accettato da chi, a qualunque titolo, abbia la responsabilità del controllo di legalità; e invece così non sta avvenendo, perché, allo stato, i tribunali amministrativi stanno incredibilmente avallando la legittimità generale di questi provvedimenti.
Se, appunto, la logica della paura non avesse preso il sopravvento, inducendo anche chi deve prendere decisioni giuridiche ad avere paura della logica, nel caso di un’emergenza generale come quella attuale non sarebbe stata neppure riconosciuta, ai responsabili degli enti territoriali, sulla base della normativa vigente, la competenza ad emanare disposizioni lesive di diritti fondamentali più restrittive ed in contrasto con quelle nazionali.
Il T.A.R. Campania, invece, affrontando per primo la questione della legittimità di un’ordinanza emergenziale regionale, ha trattato molto superficialmente la questione della competenza, desumendone la sussistenza sulla base di un generico richiamo “per relationem”, nel testo del provvedimento impugnato, a “plurime disposizioni legislative che fondano la base legale del potere di adozione di misure correlate a situazioni regionalmente localizzate”.
Per chi non volesse arrestarsi sulla soglia dell’apparenza, e si volesse ostinare a coltivare gli ormai desueti vizi del dubbio e del rigore logico, varrebbe senz’altro la pena di analizzare puntualmente il reticolo normativo citato dal Presidente della Regione Campania, e supinamente ripreso dal T.A.R., per scoprire come attualmente quel potere e quella competenza regionale, nel caso di specie, siano semplicemente insussistenti.
Tralasciando, tra le disposizioni citate, quelle chiaramente inconferenti, in quanto nulla dicono in materia di competenza a provvedere, le disposizioni di rango normativo effettivamente rilevanti sono, in successione cronologica: l’art. 32 della Costituzione, l’art. 32 della Legge 23/12/78 n. 833 (Istituzione del Servizio Sanitario Nazionale), l.art. 117 del D.l.vo 31/03/98 n. 112 (Coferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali etc.), l’art. 50 del D.l.vo 18/08/00 n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), gli artt. 1, 2 e 3, commi 1 e 2, del Decreto – Legge n. 6 del 23/02/20 (Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID 19), convertito dalla Legge 05/03/20 n. 13.
A dispetto del coacervo normativo indicato, il sistema che se ne ricava è tuttavia chiaro, univoco e coerente con i principi di uno Stato di diritto, in cui le competenze devono seguire una logica di razionalità, efficacia e trasparenza, anche per non disorientare il cittadino, sempre più avviluppato in un groviglio di fonti di diritto concorrenti, incoerenti e contraddittorie.
Per venirne a capo non sono necessarie le doti di grandi logici come Aristotele, Gottlob Frege o Kurt Gödel, sarebbe semplicemente bastato affrontare la questione con i canoni ermeneutici ed i principi logici ordinari, senza subordinare tutto alla litania interpretativa dei soliti valori astratti. L’art. 1 del Decreto Legge n. 6 del 2020, norma “ad hoc” per questa emergenza nazionale, prevede genericamente che siano le “autorità competenti” a provvedere in relazione alle misure di contenimento; ma il successivo e fondamentale art. 3 specifica espressamente quale sia, in via esclusiva ed ordinaria, tale autorità competente: il Presidente del Consiglio, mediante d.p.c.m. adottati su proposta del Ministro della Salute e sentiti vari organi regionali a seconda che l’oggetto del decreto da adottare riguardi una, più regioni o tutto il territorio nazionale. Già tale previsione di sentire il presidente di una singola regione in relazione ad emergenze di carattere locale, implica logicamente la considerazione che, nel contesto dell’emergenza di rilevanza nazionale, anche la disciplina della particolare emergenza locale debba essere necessariamente fronteggiata a livello centrale, mediante d.p.c.m., e non con provvedimenti in ordine sparso degli enti locali, per l’evidente ragione che anch’essa debba essere valutata in un quadro complessivo ed olistico. Solo in casi di estrema necessità ed urgenza, e comunque sempre nelle more dell’emanazione dei citati dpcm, lo stesso art. 3, richiamando soprattutto l’art.117 del D.l.vo n. 112 del 1998 e l’art. 50 T.U.E.L., prevede che siano le regioni e gli altri enti locali a provvedere per i territori di loro competenza. Ne deriva che, una volta emanati i dpcm governativi, questi abbiano valenza cogente ed esclusiva, e le singole regioni e gli altri enti locali perdano qualunque competenza a provvedere. Deve ritenersi, pertanto, radicalmente esclusa la possibilità per gli enti locali di intervenire, con propri provvedimenti urgenti, più o meno restrittivi, successivi all’emanazione dei d.p.c.m., anche qualora non condividano, in relazione al loro territorio, la disciplina sancita in via generale dal Presidente del Consiglio. Per mera completezza residuerebbe il caso, più che altro di scuola, secondo il quale, subito dopo emanato il d.p.c.m. nazionale, insorga in un determinato territorio una particolare emergenza localistica che imponga, sempre nelle more di un ulteriore d.p.c.m. “ad hoc”, una pronta reazione dell’amministrazione locale. Non è, tuttavia, questa, all’evidenza, la situazione attuale, in quanto diverse amministrazioni locali si sono invece affrettate ad emanare subito dopo, e proprio in conseguenza, dei d.p.c.m. dei provvedimenti più restrittivi per la precipua ragione che non ne condividevano l’asserito lassismo, talora facendo persino su ciò gran “battage” mediatico. E come nel caso del paradosso di Russell o, più poeticamente, del personaggio mitologico narrato da Ovidio, Erisittone, quello che più mangiava e più rinsecchiva, si è, in pratica, arrivati all’assurdo amministrativo, passato indenne anche al vaglio giurisdizionale, di citare come fonti della propria legittimazione, nelle premesse dei vari provvedimenti locali, proprio i d.p.c.m. nazionali, ovvero il presupposto che avrebbe fatto venire meno tale legittimazione. Dall’analisi del quadro normativo varato specificamente per l’emergenza da COVID 19 consegue, dunque, con nettezza, trattandosi all’evidenza di “lex posterior specialis”, che non sussistano margini, per gli enti locali, con l’unica indicata eccezione “cautelare”, per rinvenire ulteriori appigli normativi legittimanti nella legislazione generale precedente a quella emergenziale da COVID 19, peraltro tutta richiamata e presa in considerazione dallo stesso Decreto Legge n. 6 del 2020. In ogni caso, anche andando a “spigolare” in tale legislazione, citata nell’ordinanza campana, non può che ritenersi confermata la tesi che esclude la possibilità per gli enti territoriali di provvedere in ordine sparso, con normazioni più restrittive rispetto a quella nazionale varata dal Governo.
Sul punto non può certamente essere invocata, di per sè, la generalissima disposizione dell’art. 32 della Legge n. 833 del 1978, la quale prevede la facoltà, per gli amministratori locali, di emanare ordinanze di carattere contingibile ed urgente, in materia sanitaria, con efficacia estesa alla rispettiva porzione territoriale. A prescindere dalla non troppo felice formulazione della norma, che non chiarisce bene se tale facoltà residui agli amministratori locali anche in caso di emergenza a carattere nazionale, come nel caso di specie, tale disposizione deve ritenersi comunque superata ed integrata, sotto lo specifico profilo, dal contenuto degli artt. 117 del D.l.vo n. 112 del 1998 e dall’art. 50 del T.U.E.L., che ne disciplinano i poteri “in subiecta materia”. Ebbene, il combinato disposto dei citati articoli riconosce agli amministratori locali il potere di emanare ordinanze contingibili ed urgenti in materia di emergenze sanitarie o di igiene pubblica, ma soltanto nell’ipotesi in cui si tratti comunque di emergenze “esclusivamente a carattere locale”. E’, quindi, analogamente escluso, anche sulla scorta della legislazione generale precedente a quella specificamente emanata per l’attuale crisi, che quando l’emergenza sanitaria abbia carattere non esclusivamente locale residui un concorrente potere normativo degli amministratori locali.
Ho lasciato volutamente per ultima l’analisi dell’art. 32 della Costituzione, che ho indicato tra le fonti di rango normativo rilevanti, sebbene nulla dica in punto di competenza, limitandosi alla generale ed astratta enunciazione di un principio. In proposito non occorre dire altro se non che lascia davvero interdetto l’interprete, che abbia ancora un minimo a cuore, non tanto il rispetto, quanto la stessa esistenza di un barlume di regole, il fatto che si possa arrivare a teorizzare che tale norma legittimi chiunque abbia una qualche funzione rappresentativa di una comunità territoriale, in nome del diritto alla salute, ad emanare “ad libitum” disposizioni lesive del diritto di libertà, pur in presenza di un articolato ordinamento che disciplina le competenze in modo specifico e rigoroso, proprio per i casi emergenziali.
Fin qui lo stretto diritto, ma se la logica, occorre purtroppo insistentemente ribadirlo, avesse ancora un senso spiritualmente direttivo tutti comprenderebbero che l’anarchia delle fonti impositive di sempre maggiori restrizioni, sebbene al momento riscuota il consenso di una popolazione sempre più spaurita e disorientata, oltre alle implicazioni politologiche in relazione alla frantumazione dell’integrità dell’ordinamento giuridico, è una logica comunque ottusa, anche sul piano logistico – operativo della strategia di contrasto all’emergenza.
Aristotele conclude il dodicesimo Libro della sua Metafisica, citando le parole di Agamennone nella narrazione omerica, con la seguente affermazione: “Ma le cose non vogliono essere governate male, ‘il governo di molti non è buono; uno solo sia il comandante.’”
Se, per un verso, questo principio è opinabile in filosofia, giacchè con esso Aristotele si opponeva alla visione duale platonica della realtà, ed è pericoloso in politica, per gli evidenti rischi di implicazioni autoritarie, per altro verso è, tuttavia, fondamentale nella gestione politico – amministrativa e logistica di un’emergenza come quella che stiamo vivendo.
E questo dimostra quanto sia fuorviante affidare le proprie certezze al feticcio ermeneutico dei valori assoluti per stabilire unilateralmente ed acriticamente i limiti delle libertà individuali altrui, giacchè è lampante come nel caso in questione, ad esempio, tale feticcio abbia condotto a giustificare una prassi irrazionale sotto il profilo logistico – operativo e pericolosissima, come precedente, per la tenuta dello Stato di diritto. E coloro che, per la logica della paura, sono impauriti dalla logica, cadono anche in un altro grossolano equivoco, ovvero nel classico paralogismo di chi scambia il concreto per l’astratto, non ponendosi il problema del contro – fattuale inverso. Si esprime, almeno per ora, consenso generalizzato alle misure anarchiche dei “sovrani” locali solo perché più restrittive di quelle nazionali; e ciò, sebbene in chiaro contrasto con l’ordinamento delle competenze in materia, viene accettato dall’opinione pubblica, e benedetto dai tribunali, nel convincimento un po’ metafisico che il principio di tutela della salute giustifichi qualunque misura da parte di chiunque abbia una parvenza di competenza e che queste misure, in particolare, siano giuste. Ma il principio logico del ragionamento avrebbe tenuto se l’ipotesi concreta fosse stata opposta, ovvero se le amministrazioni locali avessero emanato disposizioni più blande di quelle nazionali? In altri termini, la legittimità di quelle disposizioni locali sarebbe stata ugualmente affermata se avessero avuto un contenuto, in concreto, diverso? Dato il tenore che il dibattito ha assunto, soprattutto nelle posizioni fortemente manichee a suffragio della bontà delle restrizioni a prescindere, è lecito nutrire in proposito un dubbio più che ragionevole. Ma se così fosse, come sono convinto che effettivamente sia, sarebbe la prova che si sta giocando con i principi costituzionali senza basi logico – giuridiche, ma unicamente correndo dietro ad emozioni, paure ed idee preconcette.
Rileggendo in questi giorni l’opera fondamentale di Max Scheler, se non il più grande, quanto meno il più tenace assertore dell’oggettività e della materialità dei valori, mi ha fortemente colpito una delle sue argomentazioni contro il formalismo assiologico Kantiano. Citando il detto di Gesù “Nessuno è buono, se non Dio stesso”, Scheler fa delle considerazioni molto importanti sui valori in sè e sulla loro applicazione ai fenomeni umani. Gesù, spiega il filosofo tedesco, con questa frase non intendeva superficialmente dire che tutti gli uomini siano cattivi e che non esistano uomini buoni, ma, molto più acutamente, intendeva invece dire che il bene “non può mai consistere in una proprietà umana concettualmente determinabile” e che “per formulare un’adeguata definizione del valore non è mai sufficiente far astrazione dai tratti e dalle proprietà non pertinenti alla sfera dei fenomeni assiologici”. Indicare il bene ed il male facendo riferimento ad un “contrassegno extra – assiologico”, pensava lo stesso Scheler, oltre a rappresentare tipica manifestazione dello spirito farisaico, induce a confondere i valori in sè con i loro portatori e costituisce “un errore di carattere gnoseologico” oltre che “un grave abbaglio morale”. La lezione di Scheler è fin troppo chiara, e può essere perfettamente mutuata nel contesto della nostra situazione giuridico – sociale. Stabilire cosa sia buono o cattivo, legittimo o illegittimo, lecito od illecito, sulla base della sola astrazione di un principio – valore che ha peculiarità proprie – fosse anche quello della salute – è un’operazione ideologicamente e moralmente scorretta, che con la natura materiale dei valori non ha alcun rapporto e che tutti dovrebbero astenersi dal fare, se non per intelligenza, quanto meno per umiltà.