Il decreto del fare, Art.59 – Università
All’articolo 59 (Borse di mobilità per gli studenti universitari), il decreto legge riguardante “Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia” – giornalisticamente detto “decreto del Fare” – stanzia la somma di 17 milioni di euro per gli anni 2013-2015, con l’obiettivo di erogare borse per la mobilità a favore di studenti che intendano iscriversi a un’università con sede in una regione diversa da quella di residenza.
In apparenza, sembra che si voglia favorire la mobilità interregionale degli studenti quasi fosse obiettivo in sé: come se si trattasse di un “Erasmus interno” che porti i giovani liguri a studiare nel Lazio o quelli lombardi a frequentare le università delle Marche. Ovviamente tutto questo non avrebbe alcun senso e infatti lo scopo della norma è un altro. Sullo sfondo c’è la catastrofe delle università meridionali, come attesta ad esempio il fatto che ad esempio nel mio ateneo – l’università di Siena – più della metà degli studenti viene dalle regioni del Sud.
C’è da chiedersi, allora, se questo outsourcing abbia una logica. Potrebbe averla, ma vi sono almeno due considerazioni da farsi.
In primo luogo, se il legislatore è persuaso che le università meridionali sono – tranne alcune eccezioni – di livello assai basso (e d’altra parte sono molti quanti di spostano per andare a studiare a Roma, a Torino o a Milano) ne tragga le conseguenza. Decida di chiudere alcune università e di investire massicciamente in questo esodo degli studenti universitari. Se questo però non si vuol fare (e in effetti non lo si fa), non si capisce davvero quale sia il senso che porta a difendere lo status quo e finanziare il “turismo accademico”, che ormai fa coppia con il “turismo sanitario”. Perché le università del Sud sono difendibili se ci si impegna a porre le premesse per una loro riqualificazione, la fine di ogni nepotismo e l’introduzione di criteri selettivi e premiali che – alzando il livello della didattica e della ricerca – spingano i giovani a condurre in regione i propri studi universitari.
In secondo luogo, si è di fronte all’ennesima norma volta a trasferire risorse da una parte all’altra del Paese e, in buona sostanza, dal Centro-Nord al Sud. Sembra che decenni di assistenzialismo non abbiano proprio insegnato nulla e pare normale che una parte del Paese continui a essere penalizzata dal residuo fiscale (quella differenza tra imposte versate e servizi ricevuti, locali e nazionali, che vede il Nord nel suo insieme perdere ogni anno quasi 100 miliardi di euro) e l’altra essere ultra-politicizzata e quindi dissestata dall’affluire di ricchezze prodotte altrove. Sembra proprio che il volume di Luca Ricolfi (Il sacco del Nord, edito da Guerini nel 2010) non l’abbia letto nessuno e che ancora non ci sia resi conti che lungo questa strada si distrugge il Settentrione con la tassazione e si devasta il Sud con il metadone di Stato degli aiuti pubblici.
Per giunta, gli stessi criteri adottati per assegnare le borse di studio lasciano molto a desiderare, dato che la votazione minima deve essere pari a 95/100, ma è chiaro che un risultato di questo tipo è assai più facilmente perseguibile in un istituto professionale che non in un liceo. Non è detto, però, che la formazione conseguita di chi esce dal classico con 90/100 sia inferiore rispetto a quella di chi esce da un istituto alberghiero con 95/100. Anzi. Senza dimenticare che un altro dato che sarà tenuto in considerazione è la condizione economica della famiglia, con la conseguenza che si avranno nuove polemiche che opporranno i figli dei lavoratori dipendenti a quelli dei lavoratori autonomi.
Sullo sfondo di tali difficoltà c’è il permanere di un modello di università essenzialmente pubblica e nazionale, centralizzata, dipendente dal ministero e finanziata dai contribuenti. Continua a essere fuori da ogni dibattito l’idea di un’autentica devolution che consegni gli atenei alle regioni o alle città (secondo il modello elvetico, dove le università sono cantonali), creando una piena autonomia finanziaria e innescando meccanismi di vera concorrenza. Analogamente difficile sembra discutere sulla possibilità di processi che possano ampliare gli spazi per università libere e private, chiamate a soddisfare gli studenti e a offrire loro servizi di qualità. E tutti questi ostacoli sono anche legati al persistere della visione che vuole che il sistema universitario sia finanziato sempre e solo dai contribuenti, e non già dalle famiglie degli studenti.
L’articolo 59 che – dopo la compilazione di moduli, varie pratiche burocratiche e una graduatoria di merito assai contestabile – elargirà tali borse rientra perfettamente in quel modello di università, che però è importante iniziare a mettere in discussione.
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Battaglia persa, quella che vorrebbe modernizzare e soprattutto mettere in concorrenza le scuole/unicersità. Da una parte lo slogan è “la scuola pubblica non si tocca” (fatto salvo non ammettere il fatto che non funzioni), dall’altra c’è un quasi-odio malcelato verso l’istruzione, per motivazioni diverse e forse incomprensibili.
Ritengo che non solo alcuni atenei andrebbero chiusi, ma anche scuole superiori, per ridurre i costi, per ridurre l’offerta (inutile) di istruzione di basso livello, preferendo così aumentare il livello di quella restante.
Non credo, d’altra parte, che lasciare la gestione a regioni o città possa portare reali benefici, piuttosto moltiplicherebbe le inefficienze gestionali che la gestione centralizzata ha mostrato finora. Meglio piuttosto ridurre fortemente le sedi e rafforzare la qualità dell’offerta (questo si, si potrebbe lasciare alla gestione della Regione, salvo opportuni drivers di valutazione, che se non superati portano al commissariamento o alla chiusura).