Il costo del monopolio: 50 miliardi di euro
Questa mattina, in un’affollata conferenza a Milano il fondo Knight-Vinke Asset Management ha presentato il suo progetto di ristrutturazione dell’Eni. Qui si trova il comunicato ufficiale. La critica di Eric Knight, numero uno del fondo, è a grandi linee questa: dentro l’Eni convivono due/tre soggetti completamente diversi. C’è anzitutto una oil company tradizionale, attiva nell’upstream e fortemente internazionalizzata. Poi c’è una utility, che importa e vende gas in Italia. Infine c’è l’unità infrastrutturale, una tipica macchina da dividendi che però è penalizzata dal fatto di essere parte del più vasto corpaccione dell’Eni. L’integrazione verticale – che in questi termini rappresenta un caso unico rispetto alle altre imprese simili – imprime uno sconto sul valore del titolo, perché crea al mercato difficoltà di valutazione. Quindi, scorporare in qualche maniera le attività di Eni aiuterebbe a far emergere il valore nascosto, che gli analisti di Knight-Vinke stimano oggi in circa 50 miliardi di euro: secondo le loro proiezioni, il valore del titolo potrebbe grosso modo raddoppiare.
Perché, allora, a nessuno è venuto in mente di comportarsi così? Secondo quanto ha riferito Knight, il management dell’Eni ha risposto alle richieste del fondo (che ha in pancia circa l’1 per cento del Cane a sei zampe, e rappresenta altri soggetti che detengono una quota analoga) muovendo sostanzialmente due argomenti: l’integrazione verticale renderebbe l’Eni meglio equipaggiata dal punto di vista negoziale, e consentirebbe di sviluppare importanti sinergie (i principali punti della risposta si trovano qui). Non si tratta di una novità, visto che sono le due carte che sistematicamente Paolo Scaroni scopre quando le richieste di separazione di reti e stoccaggi si fanno troppo forti. Knight risponde che (1) le altre major, pur non avendo una utility a valle, riescono a chiudere contratti non peggiori di quelli dell’Eni, quindi il vantaggio competitivo deve essere davvero ridotto; e (2) dall’analisi effettuata, non sono emerse sinergie significative.
Lo studio di Knight-Vinke è importante soprattutto sotto il profilo regolatorio, perché conferma una tesi dell’Autorità per l’energia, che aveva riscontrato una dinamica simile nell’Enel dopo la cessione di Terna: la perdita della presa monopolistica sui mercati non è necessariamente fonte di indebolimento per gli ex monopolisti. Anzi, togliendogli la certezza del ricavo li spinge a farsi più competitivi, portandoli così – paradossalmente – a rafforzarsi, mentre i consumatori possono beneficiare della concorrenza. Oltre a questo, Knight ha sottolineato più volte la precarietà finanziaria del gruppo, che trova conferma nel taglio del dividendo e dipende da un lato dalla necessità di presidiare il rating e mantenere l’indebitamento sotto controllo (un’esigenza soprattutto della oil company, che finisce per danneggiare la utility); dall’altro dall’indisponibilità dello Stato di sottoscrivere aumenti di capitale o, in alternativa, accettare una ricapitalizzazione la cui conseguenza sarebbe una sua discesa al di sotto della soglia del 30 per cento.
Questo è, secondo me, un punto cruciale. Knight ha precisato di non avere alcun interesse alla discesa dello Stato, e ha evidenziato che il suo piano è compatibile col mantenimento agli attuali livelli. Il che è tecnicamente vero. Ma lo è fino a un certo punto: non solo perché, in caso di breakup, almeno per quel che riguarda la oil company non ci sarebbe più alcuna pseudo-giustificazione “strategica” per il Tesoro. Soprattutto, però, il ceto politico non ha alcun interesse a recidere il cordone ombelicale che lo lega alla più grande industria italiana, e che gli attribuisce innumerevoli poteri e influenze (a partire dalla nomina del management). Spesso si dice che San Donato chiama, e Palazzo Chigi risponde. La realtà è molto più complessa. E se può essere vero che l’Eni esercita un ruolo guida sulla politica estera italiana (tanto da irritare gli americani), è ancor più vero che l’Eni è spesso strumento di politica industriale nelle mani del governo, per esempio quando si tratta di mantenere aperti impianti improduttivi o inefficienti, o addirittura perché all’occorrenza funziona da bancomat.
E’ questo il fattore che va introdotto per chiudere l’equazione. Chiaramente, se anche i calcoli di Knight-Vinke fossero esagerati, e dunque la creazione di valore conseguente alla riorganizzazione dell’Eni valesse 25, 10 o 5 miliardi di euro, comunque sarebbe ben superiore ai benefici presunti delle “sinergie”. Quello che, politicamente, vale più di 5, 10, 25 o financo 50 miliardi di euro è la facile accessibilità a una leva che ricorda molto da vicino, nella forma e nella sostanza, le “vecchie” partecipazioni statali. E dunque, come noi dell’IBL abbiamo sostenuto tra l’altro nel nostro Manuale per le riforme della XVI legislatura, è illusorio pensare di poter ottenere dei miglioramenti senza passare anche per la privatizzazione del gruppo.
Dice: la privatizzazione non è in agenda. Perfetto. Ma finché le cose andranno avanti così, i 50 miliardi di sottovalutazione dell’Eni saranno il minore dei mali.
Il sospetto attivismo di Eric Knight mi fa pensare che l’Eni stia lavorando bene.
Qui il mercato non c’entra nulla…è solo questione di politica estera e di sfere di controllo.
Le riserve “facili e abbondanti” sono in mano agli Stati non alle Majors, nonostante i desideri degli anglosassoni e/o delle anime belle. Perfino in Brasile dovranno accodarsi alla Petrobras.
E l’unico modo per negoziare con gli Stati è mandare a negoziare lo Stato, non un amministratore delegato qualsiasi.
Mi dispiace, ma la realtà è questa. Non esiste mercato nel mondo dell’Energia…al massimo oligopolio feroce.
Quando e se il mercato dell’energia diverrà come quello dei telefonini allora si potranno fare tutti gli spezzatini che vogliamo. Altrimenti, anche se a malincuore, è meglio così.
PS. chissà se il signor Knight sa delle vigliaccate delle majors in Iraq per non far entrare l’Eni…Sarebbe interessante capire che ci siamo andati a fare noi italiani, perdendo anche “qualche” vita se poi ci boicottano non stando ai patti.
“Knight ha sottolineato più volte la precarietà finanziaria del gruppo, che trova conferma nel taglio del dividendo e dipende … dalla necessità di presidiare il rating e mantenere l’indebitamento sotto controllo (un’esigenza soprattutto della oil company, che finisce per danneggiare la utility)”. Secondo il Signor Knight, dunque, lENI vale poco perchè si preoccupa di fare pochi debiti. Se si scindesse, la compagnia utility potrebbe indebitarsi e allora … . Idea geniale e già ben (si fa per dire) sperimentata: creare valore fittizio facendo debiti. Il tutto ammantato da qualche ben calcolo matematico dalle basi fumose. Finchè i pretesi liberali italiani continueranno a dare spago alle tesi di qualsiasi furbacchione che si ammanta della parola liberismo per farsi meglio gli affari suoi, il liberalismo italiano non ha speranze.
Azimut – Non credo che la politica estera sia *la* ragione di questa iniziativa, che pure molto probabilmente non è sgradita a Washington. A me pare che i problemi sollevati da Knight siano reali, e le soluzioni plausibili. Possono essere migliorate, o addirittura rigettate? Certamente sì. Quello che non capisco è perché si debba affrontare con tanta animosità quella che, in fin dei conti, è la richiesta di un azionista importante interessato a valorizzare il proprio investimento.
Fabio – Non è che il debito sia una maledizione del Signore. Indebitarsi eccessivamente è sbagliato e pericoloso; ma altrettanto sbagliato è non farlo, quando serve e se è giustificato. Knight ha ragione quando dice che una oil company e una utility tollerano diversi livelli di debito, visto che banalmente la seconda può garantire un cash flow del quale la prima non ha certezza. Comunque, il debito è solo uno dei metodi di finanziamento di un’azienda che ha bisogno di capitali (e l’Eni ne ha un fottuto bisogno). Un altro strumento è la ricapitalizzazione: solo che questa via è di fatto sbarrata dal Tesoro, che non sarebbe in grado si sostenerla senza ridurre la sua quota. Infine, i “pretesi liberali” non “danno spago” alle tesi di nessuno: prendono atto di una proposta che ci pare seria (e che è discutibile), sottolineandone soprattutto quello che veramente ci interessa, cioè gli aspetti positivi sotto il profilo regolatorio. Sono cose che dico e diciamo da tempo, e continuerò e continueremo a dirle. Se poi il nodo regolatorio può essere sciolto senza danneggiare gli azionisti, non vedo perché non dovremmo guardare con interesse a questa prospettiva.
Caro Stagnaro, grazie innazitutto per la risposta. Quello che Lei osserva è giusto. Senonchè la divisione ENI che produce cash flow e che si può quindi indebitare è quella utility, mentre quella che ha bisogno di risorse è la oil company, che non si può indebitare. La separazione consentirebbe quindi di fare inutili debiti alla società di utilty e non risolverebbe il problema della oil company. Quanto agli aspetti regolatori, il mercato dell’energia non è un mercato libero perché i venditori sono riuniti in un cartello (l’OPEC), oppure così grossi da poter determinare comunque, entro certi limiti, il prezzo (Russia). Se in un mercato si mette in concorrenza solo il lato della domanda, senza mettere in concorrenza anche quello dell’offerta, si consegnano i compratori nelle mani dei venditori e questo non è un libero mercato. Esattamente come non lo è in Italia, e questo sarebbe davvero un bel discorso da fare per un liberale, il mercato della telefonia. Qui un’apparente liberalizzazione consente alle compagnie telefoniche di praticare tariffe talmente complesse e articolate che nemmeno l’autorità garante è in grado di metterle a confronto in modo affidabile: figuriamoci il consumatore. In quel settore sarebbe pro mercato un intervento regolatorio che, lungi dall’imporre le tariffe, stabilisse 3, 5 o 10 criteri standardizzati di tariffazione onde permettere una reale libertà di scelta del consumatore e, quindi, una vera concorrenza. In conclusione, ritengo che la realtà sia infinitamente più complessa di qualsiasi teoria e che il mercato non sia un dio, ma solo un ottimo sistema per far funzionare l’economia e produrre prosperità: uno strumento che deve essere maneggiato, tenendo conto delle condizioni concrete in cui si opera.
Non è che l’ENI intralci i piani degli americani e che questi la vogliano semplicemente eliminare? (domanda retorica e risposta scontata). Poi è singolare o peggio che le lezioni arrivino dalle locuste che hanno appena finito di devastare con i loro giochetti l’economia mondiale. Ed è ancor più singolare/sospetto che queste proposte/cavallo di Troia/pillole avvelenate vengano offerte a una società solida, che fa utili e che non ha ceduto terreno nemmeno dal punto di vista borsistico contrariamente a parecchie società della corporate America che hanno bilanci che fanno acqua da tutte le parti similmente a diverse società privatizzate e sottoposte a cure di finanza anglosassone.
Scarthorse: sì, lei ha sicuramente ragione, un’analisi seria di una proposta di ristrutturazione industriale non può certo prescindere dal complotto demoplutigiudaico…
Fabio – La proposta di Knight risponde anche alla sua obiezione (mi scuso se non sono entrato nei dettagli a questo livello, ma intendevo soffermarmi sul lato regolatorio). Il fondo suggerisce di spezzare Eni in 2/3 tronconi: una oil-co, una gas-co ed eventualmente una net-co. Il debito attuale di Eni verrebbe interamente attribuito alla gas-co e alla net-co. Quindi l’obiettivo, almeno in principio, non è creare nuovo debito, ma distribuire in modo più efficiente il debito attuale, attribuendolo alla parte dell’azienda che genera cash flow e quindi può tollerarlo senza problemi, a differenza della oil-co che, complice anche la quota pubblica che impedisce ricapitalizzazione, è stretta tra l’incudine del rating e il martello del bisogno di capitali.
Quanto al resto, sono in totale disaccordo. Sull’Opec: è un caso studio di cartello inefficiente. Sulla concorrenza nell’upstream gas: il mercato sta evolvendo verso un maggior livello di competizione, grazie soprattutto al Gnl, ma soprattutto se lo si guarda in una prospettiva europea: il grado di diversificazione a livello Ue è molto significativo, il problema è creare interconnessioni tra i nostri mercati nazionali. Infine, sull’utilità di creare concorrenza a valle: non vedo in quale modo questo possa “indebolirci” nella negoziazione coi fornitori. Comunque questi sono temi più ampi e più complessi, che come IBL abbiamo affrontato in varie occasioni, tra cui l’Indice delle liberalizzazioni e i due rapporti sulla Sicurezza energetica e Il mercato del gas naturale.
Lasciamo perdere le facezie complottistiche. E’ un dato di fatto che l’ENI ad est rappresenti in concorrente scomodo per le concorrenti statunitensi. Mi pare la faccenda sia stata trattata anche sulla stampa anglosassone, non senza una certa stizza. Ed è un dato di fatto che l’ENI, per fortuna scampata alla stagione delle privatizzazioni glamour sia in salute nettamente migliore rispetto a chi fu sottoposto a tale cura. Senza contare che a beneficiare della sua ottima forma sia la comunità nazionale e non solo qualche consiglio di amministrazione ed amici connessi.
Ci mettiamo a “ristrutturare” anche chi sforna utili e solidità? Nell’interesse di chi?
Dimenticavo un ulteriore tragico dato di fatto: visto quello che hanno combinato a livello globale con i loro intrallazzi e teorie i finanzieri di quella scuola mi sembra che sul pianeta terra, anzi nell’intera galassia, siano proprio gli ultimi a poter proporre o insegnare qualcosa a chicchessia fosse anche a una tribù dell’Amazzonia dedita al baratto. Mi scuso per i due post consecutivi.
Buongiorno a tutti,
sapete indicarmi dove trovare la versione completa ed originale dell’analisi di Knight?
Grazie
Scarthorse – Per favore, non mischiamo piani diversi. Un conto sono le beghe tra il governo americano e quello italiano per il rapporto, secondo gli americani troppo stretto, tra Gazprom e l’Eni. Altra cosa è un progetto, lanciato da un fondo che è azionista dell’Eni, di riorganizzazione del gruppo, che di per sé non prevede alcuna revisione delle strategie commerciali dell’azienda o del suo portafoglio di contratti di lungo termine. Quanto alla solidità finanziaria dell’Eni, sarà anche come dice lei, ma il taglio del dividendo suggerisce che le cose non vadano così bene. L’ultimo suo post è poi davvero qualunquista: Knight-Vinke non mi risulta abbia “combinato a livello globale” proprio nulla. E comunque non stiamo discutendo del proponente (o almeno a me non interessa farlo): stiamo discutendo della proposta.
Feyeem – Un’ampia documentazione era stata distribuita alla presentazione del piano, ed è su quella che mi sono basato, ma è in formato cartaceo. Copia delle slide proiettate è disponibile, in formato elettronico, su siti specializzati come Quotidiano Energia e Staffetta Quotidiana. Suppongo che Knight-Vinke stesso faccia pervenire la documentazione a chi ne faccia richiesta, visto che hanno tutto l’interesse a diffonderne i contenuti.
1) il taglio del dividendo c’è stato x gli azionisti privati ma non x lo Stato che tra una tantum social card + robin tax + tassa Libia (che al di là della foglia di fico formale ha un valore strategico di partita di giro incalcolabile e fuori dal bilancio Eni)
2) l’uscita dal Nabucco e l’entrata nel SouthStream Eni/Gazprom ha fatto arabbiare l’ambasciatore Usa Thorne… mera coincidenza ?
X Carlo S. : ho visto il vostro link a Limes x il dibattito su South Stream a cui partecipi anche tu.. veramente molto bello.. lo consiglio a tutti xrchè ha portata STRATEGICA (con la S maiuscola) x l’Italia e l’Europa.. mi riservo di leggerlo meglio x eventuali osservazioni.. x ora grazie.. Piero
Piero – (1) E’ vero che, nel saldo tra taglio del dividendo ed extraentrate da Robin Tax e tassa pro Libia, il Tesoro ci ha guadagnato. Ma il taglio del dividendo ha una portata che va al di là della partita meramente finanziaria, e che riguarda anche il Tesoro quale azionista di riferimento: perché attira l’attenzione sul rating del debito. Ed è proprio per incidere su questa caratteristica dei bilanci dell’Eni che Knight-Vinke ha fatto la sua proposta. Il punto, comunque, non è condividerla o avversarla, ma considerarla per quello che è: cioè un progetto serio di valorizzazione dell’Eni.
(2) Le posizioni di Thorne, che già Spogli aveva espresso, non sono nuove o soprendenti. Le spinte americane per il Nabucco sono sotto la luce del sole. Ma non vedo che relazione questo possa avere con l’iniziativa di Knight-Vinke. E se anche ce l’avesse, chissenefrega? A me non interessa discutere le intenzioni, ma la sostanza della proposta.
(3) Felice che abbia apprezzato il dibattito su Limes!
1) scusa l’ignoranza.. ma non capisco la connessione dividendo tagliato x gli azionisti “privati” e rating del debito di Eni che dovrebbe essere collegato al ratio (statico) con i mezzi propri ed alla capacità di produrre cashflow (anzi “inversamente” collegato alla distribuzione dei dividendi che riduce l’autofinanziamento).. cosa mi sfugge ?
2) beh che ci sia quantomeno una convergenza di interessi/alleanza Usa (del Nero Obama che in altri post pure difendo) è altamente verosimile.. non credo che le intenzioni siano cosìpoi neutre.. dietro le apparenze introducono distorsioni nei comportamenti non dichiarati.. e quindi alterano pure i fini.. ed i risultati..
Piero –
(1) La questione è semplice, in realtà. Il taglio del dividendo è stato uno strumento (modesto nell’entità, ma molto esplicito nel messaggio) di tutela della solidità patrimoniale. La questione è spiegata abbastanza bene qui, comunque:
http://www.soldionline.it/notizie/azioni-italia/s-p-vede-grigio-su-eni
(2) Non nego che ci sia una convergenza di interessi, che è ovvia – come è ovvia la convergenza di interessi nelle liason Eni/Gazprom e Berlusconi/Putin. Discuto che ci sia un rapporto di causa-effetto. E soprattutto ribadisco che non mi interessa: mi interessa molto di più il merito del progetto, che è stato illustrato in modo sufficiente a consentire a tutti di farsi un’idea.
Spero che l’ENI non si lasci abbindolare da un fondo che con un 1%(o poco più) pretende niente di meno che spaccare una società consolidata.
– per avere (ipoteticamente) in proprio portafoglio le azioni che valgono di più(+dividendi) e che probabilmente serviranno per ottenere più prestiti (ah! l’ingegneria finanziaria)
– limitare le possibilità dell’azienda italiana all’estero distruggendo il valore derivante dall’integrazione verticale consolidata. Pura politica.
Il resto è fuffa, secondo me.
@Carlo Stagnaro
buongiorno.
Un commento sulla proposta di spezzatino.
per quanto riguarda la supposta Net.Co la Comunità europea ha già da un paio di anni avanzato richieste specifiche a Eni per quanto riguarda i gasdotti TAG, TENP e Transitgas cioè quelle infrastrutture che l’Eni (e sottolineo, l’Eni) ha sviluppato per il trasporto di gas in Europa e che connettono Italia con Austria dove a Baumgarten inizia il TAG (e docve South stream o nabucco un domani si potrebbero connettere) e che connettono l’Italia ai giacimenti olandesi e norvegesi attraverso la Svizzera (Transitfas) e quindi la Germnia (Tenp). Eni potrebbe già esser in fase di studio per cedere proprietà o controllo di tali infrastrutture.
sulla questione di divisione in upstream company e utility faccio fatica a capire: se in questi ultimi diciamo 3 anni una società come Eni ha speso fiori di miliardi di euro per acquistare “clienti” gas (utility) in Europa come nel caso di Distrigas perchè poi deve ceder o non usar questa leva per ottenere coi paesi produttori condizioni migliori nell’accesso all’upstream ? grazie.