2
Set
2009

Il cane a tre zampe

L’aereo Pippo è tornato a volare sui cieli italiani e ha sganciato due bombe: una su Piazzale Mattei, l’altra su Via XX Settembre a Roma. Il quotidiano britannico Financial Times dedica oggi un colonnino della sua informatissima e velenosissima rubrica Lex al più spolverato dei campioni nazionali italiani, cioè l’Eni. La riflessione – che cita come fonte, ed è piuttosto anomalo, il fondo Kinight-Vinke Asset Management – è semplice: Eni è un monopolio verticalmente integrato in un’epoca in cui questa struttura non tiene più. Quindi, separarla in almeno due tronconi potrebbe far felici gli azionisti e risolvere varie magagne, politiche e regolatorie oltre che finanziarie.

Il modello prevalente nell’industria petrolifera, infatti, è diverso da quello dell’azienda di Paolo Scaroni: da un lato vi sono compagnie forti nell’upstream, come Total, Bp e Shell (e, oltreoceano, ExxonMobil, Chevron, eccetera). Il core business di questi gruppi è la ricerca ed estrazione di olio e gas, a cui sovente si accompagnano una forte presenza nella raffinazione e una presenza (in declino) nella distribuzione di prodotti raffinati. Altre compagnie, come Gas de France, E.On, e Centrica si occupano invece della commercializzazione del gas (sui mercati wholesale e retail) e, al più, delle infrastrutture di distribuzione nazionali e/o locali.

Il modello Eni, secondo il Ft e Knight-Vinke, non tiene più, e la dimostrazione starebbe nel taglio del dividendo, che riflette una performance inferiore alle attese. Sul tema era intervento a suo tempo anche il Wall Street Journal, dando voce alle preoccupazioni degli investitori abituati a percepire lauti rendimenti dai loro pacchetti azionari. Il quotidiano americano evidenziava che i peers non erano ancora arrivati a una mossa tanto drastica (ma pagavano anche meno dividendi). In realtà, Paolo Scaroni non aveva molte alternative, dovendo mantenere il rating e avendo in ballo una serie di investimenti tanto impegnativi quanto, nello scenario post-crisi, azzardati. Ma dietro il taglio del dividendo c’è anche un segnale (intenzionale o no, poco conta) di natura politica: poiché i dividendi delle aziende partecipate vengono tradizionalmente percepiti dal Tesoro come una sorta di entrata parafiscale, ridurli in un momento in cui pure il gettito erariale è in drastica flessione equivale a vincere un round di braccio di ferro contro Giulio Tremonti. Non è una vittoria facile, e probabilmente non sarà una vittoria senza conseguenze.

Dunque, il Ft riprende una stima di Knight-Vinke secondo cui la disintegrazione dell’Eni potrebbe creare valore, come è accaduto nel Regno Unito con lo scorporo di Centrica e National Grid da British Gas. Il messaggio è chiaramente indirizzato allo stesso Tremonti: tanto che, tra i vantaggi dell’operazione, quelli finanziari passano quasi in secondo piano rispetto a quelli, diciamo così, collaterali, che di per sé sarebbero di poco interesse per la comunità finanziaria. Vediamo:

In cima alla lista c’è lo stato italiano, fortemente indebitato, che possiede il 30 per cento dell’Eni e deve spremere ogni centesimo possibile dai suoi asset. Poi c’è la sicurezza energetica. Si dice spesso che le compagnie europee devono raggiungere la scala sufficiente a negoziare con bulli come Gazprom. Ma se la divisione dell’Eni valesse il doppio dell’Eni di oggi, il problema sarebbe risolto. Infine c’è la regolazione. Bruxelles vuole sempre più dividere la produzione e il trasporto di energia dalla distribuzione. L’Eni farebbe bene a seguire spontaneamente tale strada prima di esserne costretta.

Scaroni si è sempre opposto a tale prospettiva, spalleggiato dal ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, e nonostante i colpi del capo dell’Autorità per l’energia, Alessandro Ortis. Certo è, come nota anche il Ft, che la riorganizzazione avviata da Scaroni, pur avendo probabilmente altre ragioni, risponde anche all’esigenza di distinguere i business regolati da quelli che non lo sono: da un lato con la vendita di Stogit e Italgas (prima controllata al 100 per cento dalla holding) a Snam Rete Gas (di cui Eni ha “solo” il 51 per cento); dall’altro col colpo di mano che ha portato alla rottamazione del brand Agip a favore di quello Eni.

E’ chiaro che la geometrica potenza manifestata fino a oggi dall’Eni di Scaroni tutto vuole fuorché il ridimensionamento. Ma non è detto che l’ipotesi di creare valore, arricchire le casse dello Stato, e ridimensionare un centro di potere talmente autonomo da potersi permettere il taglio del dividendo, non siano obiettivi degni dell’interesse di Tremonti. Il Dpef dice il contrario, ma il mondo, e perfino Tremonti, cambia.

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