I repubblicani d’America e il liberismo al servizio della Nazione – di Luca Tedesco
Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Luca Tedesco.
«Il concetto di sudditanza ligia, proprio delle antiche monarchie, poteva […] facilmente accordarsi cogli impedimenti molteplici che esse crearono all’emigrazione ed all’immigrazione. Ma, dopo la proclamazione dei diritti dell’uomo, dopo le roboanti promesse di ospitalità illimitata incluse nella costituzione federale degli Stati Uniti,(1) dopo le affermazioni gloriose del parlamento e della nazione inglese a favore della incondizionata ospitalità britannica, è naturale che le democrazie odierne si trovino imbarazzate a formulare in una teoria non contraddicente ai loro postulati politici ed etici fondamentali il regresso che intendono compiere, in questo come in parecchi altri campi, verso forme arcaiche e superate di intervenzionismo statale e di protezionismo».(2) Così si esprimeva nei primi anni del Novecento l’economista torinese Giuseppe Prato nel suo Il protezionismo operaio. L’esclusione del lavoro straniero.
Gino Borgatta, allievo di Pareto e Einaudi, e autore nel 1914 del “manualetto antiprotezionista” Che cos’è e cosa costa il protezionismo in Italia,(3) nella recensione entusiasta dell’edizione francese del lavoro di Prato apparsa sulla einaudiana Riforma Sociale, osservava con penna felice come storicamente la prima forma in cui si erano manifestate le tendenze restrizioniste nei Paesi anglosassoni, Stati Uniti, Canada e Australia prima degli altri, fosse stata l’esclusione degli immigrati di colore, prima cinesi e malesi, poi giapponesi. Si moltiplicarono così, spiegava Borgatta, «le più patetiche teorie per garantire la “purezza della razza bianca” (white Australia), per dimostrare l’incompatibilità di questa colle razze di colore e l’inferiorità delle eventuali commistioni, la moralità e la mentalità antitetiche di esse, oltre – qualche volta – la ragione economica dei più bassi salari di cui s’accontentano i gialli e coi quali fanno una disastrosa concorrenza ai bianchi».(4) Ma, continuava l’economista aostano, «come molte delle teorie antigialle inventate in questa fase fossero dei puri sofismi lo dimostra il fatto che, successivamente, quando le correnti migratrici bianche si affacciano con la loro formidabile concorrenza a quei paesi, non valgono evidentemente più la “purezza della razza bianca”, “l’antieticità delle morali e dei costumi” ecc., e quindi i sofismi dei proibizionisti debbon prendere altra forma».(5) Alla teoria, così, «dell’inferiorità delle razze di colore, succede la teoria degli undesirables: e l’ostracismo contro gli immigrati bianchi non colpisce solo pazzi, criminali, prostitute e simili, come sarebbe naturale, ma gli indigenti e gli analfabeti», nella piena consapevolezza che «queste limitazioni sono efficaci a tenere indietro gran parte delle masse immigranti italiane e slave, le più temibili concorrenti».(6)
Alle ragioni di carattere morale che giustificavano la condanna delle politiche che scoraggiavano la libera circolazione dei lavoratori, Prato aggiungeva, sottolineandole con forza, quelle di natura economica, tese a dimostrare per l’appunto la diseconomicità e l’irrazionalità delle legislazioni restrizioniste. Tali legislazioni, fortemente volute dai sindacati operai dei Paesi industrializzati, impedendo la concorrenza degli operai stranieri e creando il monopolio della mano d’opera a favore di quelli locali, svolgevano una funzione analoga a quella esercitata dalla politica doganale protezionista nei confronti della formazione dei trust industriali, con esiti, peraltro, economicamente ancor meno ottimali di quella.(7)
Prato concordava così con Sidney e Beatrice Webb, che avevano osservato come, pur in assenza di competitori, fino a quando «un’ulteriore aggiunta di capitale promette di rendere più del saggio di interessi che si pagano al banchiere od al portatore di obbligazioni per il suo uso, il trust capitalistico si sforzerà di allargare la sua produzione e di apportare tutti i perfezionamenti possibili nei suoi processi».(8) Il “monopolista capitalista”, insomma, avrebbe pur continuato ad organizzare i vari fattori di produzione in modo da produrre con il costo minore. «Una corporazione chiusa di operai – obiettavano invece i coniugi Webb – non ha […] interesse di sorta ad allargare i suoi affari. I singoli operai che formano il monopolio non hanno altro da vendere all’infuori della loro energia e sono per conseguenza interessati ad ottenere il massimo prezzo che sia possibile in cambio della loro merce, resa esattamente limitata. Se essi possono, coll’elevare il prezzo, esigere il medesimo reddito per un minor numero di ore di lavoro, converrà ad essi positivamente di lasciar insoddisfatta una parte della domanda mondiale. Essi non hanno nulla a guadagnare col diminuire il costo del processo di produzione, e restano effettivamente in perdita ogni volta che un’invenzione o un perfezionamento nell’organizzazione dell’industria fa sì che il loro prodotto sia compiuto con minor lavoro. Insomma ogni cambiamento sarà ad essi ostico, come quello che implica una mutazione di abitudini, nuovi sforzi e nessun guadagno pecuniario».(9)
A distanza di un secolo o poco più, le considerazioni dell’economista e liberista Prato sulla minaccia che la forza lavoro straniera costituirebbe ai danni di quella interna conservano ancora una qualche attualità se volgiamo lo sguardo al dibattito politico americano? Che il candidato repubblicano Mitt Romney in materia di politica economica e fiscale abbia deciso di interpretare in modo aggressivo agli occhi dell’elettorato il ruolo del difensore della libertà individuale contro la supposta esosità dello Stato è indubbio. La candidatura di Romney alla presidenza degli Stati Uniti già in agosto aveva ricevuto il sostegno di 400 economisti di orientamento liberista, tra cui sei premi Nobel (James Buchanan, Gary Becker, Robert Lucas, Robert Mundell, Edward Prescott e Myron Scholes).(10) Il piano economico del candidato repubblicano, volto alla riduzione della tassazione sulle imprese e sui redditi più alti, ha riscosso, in particolare, il plauso di Arthur Laffer, ispiratore della Reaganomics degli anni Ottanta. La proposta, poi, già presentata al Congresso statunitense dal candidato repubblicano alla vicepresidenza, Paul D. Ryan, è simile a quella di Romney, prevedendo due sole aliquote sul reddito, del 10 e del 25%, e un’aliquota sulle imprese del 25%. Durante il secondo dibattito tra Obama e Romney, infine, quest’ultimo ha anche affermato la volontà di ampliare i flussi commerciali, in particolare verso l’America latina.
In materia di immigrazione, Romney ha rilasciato delle dichiarazioni che riecheggiano lo spirito egualitario della frontiera. «L’America – così si è espresso – è una nazione di immigrati. Noi non siamo una nazione vincolata all’etnia, ma all’idea incontaminata che tutti gli uomini sono dotati, dal loro Creatore, di diritti inalienabili, alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità. Ecco perché i nostri antenati sono venuti in America e perché così tante persone, oggi, approdano sulle nostre sponde. Accogliere i nuovi arrivati che condividono i nostri ideali e lavorano sodo, per assicurare una vita migliore per se stessi e le loro famiglie, fa parte del nostro patrimonio».(11) Il diavolo, però, si sa, è nei dettagli. La petizione di principio di Romney favorevole a una grande generosità nell’accoglienza degli stranieri è subito seguita dalla precisazione che «componente integrante di ciò che rende l’America eccezionale» è solo un «forte sistema di immigrazione legale», sistema che per il candidato repubblicano deve incoraggiare essenzialmente l’ingresso di lavoratori qualificati, scoraggiare l’afflusso di altri soggetti ed espellere i clandestini oggi presenti all’interno dei confini Usa. I clandestini, infatti, denuncia Romney, da una parte beneficiano, pur senza contribuire a pagarne il costo, di alcuni servizi come quelli del Pronto soccorso ospedaliero, utilizzato anche come fornitore di cure non di emergenza; dall’altra sarebbero destinatari di “trattamenti preferenziali” da parte delle università pubbliche di diversi Stati della Federazione, trattamenti che si tradurrebbero in incrementi delle tasse anche a carico di quelli che clandestini non sono.(12)
Inoltre, secondo il candidato repubblicano alla presidenza, solo una politica immigratoria più rigida potrebbe contrastare la diffusione sul suolo Usa della criminalità di origine centroamericana e legata al traffico della droga.
Solamente una politica dell’immigrazione così concepita, dunque, potrebbe «avvantaggiare l’economia americana e il paese».
Questa precisazione ci sembra non di poco conto.
Per un nazionalista come Mitt Romney, vale a dire per chi ritiene che la libertà economica, non costituendo un principio irrinunciabile, costitutivo della persona umana e quindi non negoziabile, abbia solo un valore strumentale alla realizzazione del bene della Nazione, non fa difficoltà alcuna rinunciare a tale libertà ogni volta che tale rinuncia sia considerata politicamente opportuna.
Se si ritiene che il bene della Nazione consista nella difesa dei livelli occupazionali dei lavoratori indigeni, minacciati dalla concorrenza di quelli stranieri, e non del tenore di vita di tutti gli altri cittadini nella loro veste di consumatori, il programma di Romney possiede indubbiamente una solida coerenza interna.
Maggiori difficoltà incontrano o dovrebbero incontrare invece quegli americani (ma le medesime difficoltà teoriche si pongono anche per chi americano non è) che ritengono che la libertà economica, come qualsiasi altra libertà, sia espressione del diritto, sancito dalla legge naturale, dal principio giusnaturalistico precedenti ogni forma storica statuale, alla piena, assoluta proprietà di se stessi.(13)
A questi liberisti, liberisti in quanto sostenitori di una concezione “integrale” e non compromissoria della libertà, spetta l’onere di dimostrare che tale concezione sia compatibile con l’appartenenza ad un determinato Stato nazionale.
Una sfida impossibile?
Non necessariamente. La legalizzazione, ad esempio, del commercio degli stupefacenti, che i libertari integrali non possono non sostenere per principio, comporterebbe la scomparsa del circuito criminale prodotto dall’impostazione proibizionista. In questo caso la difesa della libertà di vendere ed acquistare un bene risulterebbe assolutamente conciliabile con il cosiddetto superiore interesse alla sicurezza e all’ordine pubblico.
Ma vi sono certamente altri casi in cui il diritto alla piena disponibilità della propria persona e delle sue manifestazioni esteriori entra in contrasto con altri supposti interessi nazionali. L’immigrato clandestino disposto ad accettare condizioni lavorative e retributive peggiori di quelle del lavoratore locale minaccia la stabilità e la coesione sociale precedenti il suo arrivo. In questo caso riteniamo che il libertario statunitense od europeo debba necessariamente scegliere. Scegliere se essere cittadino di uno Stato e in nome di questo suo status e della stabilità dello Stato espellere il clandestino o invece continuare a essere libertario integrale e difendere quindi il diritto di ognuno di circolare e insediarsi dove più gli piaccia, respingere come illiberale non solo la nozione di clandestinità ma anche quella di Stato nazionale senza il quale la figura del clandestino non sarebbe concepibile e ammettere come la propria causa sia intimamente antipatriottica e internazionalista.
Note
- In verità, in materia di immigrazione la Costituzione americana contempla solo il potere del Congresso di «stabilire una disciplina uniforme della Naturalizzazione» (art. 1, sezione 8). Per tutto l’Ottocento e oltre, così, la Corte suprema statunitense riconobbe in questo ambito «una sorta di “illimitato potere federale”» (S. F. Regasto, Gli Stati Uniti e il problema dell’immigrazione nella giurisprudenza della Corte Suprema, 29 novembre 2011, in http://www.forumcostituzionale.it/site/images/stories/pdf/documenti_forum/paper/0293_regasto.pdf). Cfr. anche S. Volterra (a cura di), Corte Suprema e assetti sociali negli Stati Uniti d’America (1874-1910), Torino, Giappichelli, 2004.
- G. Prato, Il protezionismo operaio. L’esclusione del lavoro straniero, Torino, Artigianelli, 1910, p. 180.
- Libreria della Voce, Firenze. L’espressione “manualetto antiprotezionista” appare come sottotitolo.
- G. Borgatta, “Economia sociale. Estimo. Protezionismo. Cooperazione”, in Id. (a cura di), “Rassegna bibliografica”, La Riforma Sociale, gennaio 1913, p. 85.
- G. Borgatta, “Economia sociale. Estimo. Protezionismo. Cooperazione”, p. 85.
- G. Borgatta, “Economia sociale. Estimo. Protezionismo. Cooperazione”, pp. 85-6.
- G. Prato, Il protezionismo operaio. L’esclusione del lavoro straniero, pp. 200-1.
- S. e B. Webb, La democrazia industriale, Torino, Utet, 1907 (ed. or. 1897), cit. in G. Prato, Il protezionismo operaio. L’esclusione del lavoro straniero, p. 203.
- G. Prato, Il protezionismo operaio. L’esclusione del lavoro straniero, pp. 203-4.
- Cfr. Economists Supporting Mitt Romney for President, in http://economistsforromney.com/.
- Si rinvia a http://mittromneymormone.com/180/mitt-romney-e-limmigrazione.
- In verità non vi è una tendenza univoca nei vari Stati statunitensi in materia di politica universitaria nei confronti degli studenti immigrati illegalmente. A fronte di alcuni, come la California, che hanno previsto recentemente aiuti finanziari statali per gli iscritti non regolari, altri hanno espressamente vietato la diminuzione delle rette universitarie per questi ultimi. Cfr. in proposito A.G., Stati Uniti, le borse di studio anche agli studenti clandestini, http://www.tecnicadellascuola.it/index.php?id=33747&action=view.
- Per una versione radicale di questa impostazione teorica si rinvia a un classico come Per una nuova libertà. Il manifesto libertario di Murray N. Rothbard (Macerata, Liberilibri, 1996, ed. or. 1973).
La sua affermazione che Romney sia un nazionalista che antepone il bene della Nazione alla liberta’ economica e’ alquanto bizzarra. In un mondo ideale forse avrebbe ragione. Ma gli USA di oggi non sono un mondo ideale.
Gli USA di oggi sono un mondo in cui 45M di persone, in buona parte minorities e immigrati latinos irregolari, vivono di aiuti pubblici. Anche grazie al principio della cittadinanza “ius soli”, forse giusto in altri tempi, ma oggi abbastanza antistorico.
Quindi mi sembra che il suo articolo manchi di argomento. Friedman riassunse il problema e la soluzione in una riga: “l’immigrazione incontrollata non e’ compatibile con un moderno welfare state”. Tutto il resto sono solo chiacchere.
Tesi “provocatoria” e piena di spunti di riflessione. Tuttavia, l’obiezione di Jack Monnezza mi sembra condivisibile. A meno di non voler azzerare o quantomeno ridimensionare drasticamente il welfare state. Potrei anche starci. Lo scambio potrebbe essere conveniente.
Lo scambio E’ conveniente.
Negli USA ormai la maggioranza dei votanti non ha più come riferimenti i valori fondanti della democrazia americana , anche perchè i wasp sono ormai una minoranza . A causa della enorme immigrazione , ispanici, asiatici oltre ai coloured determinano il risultato elettorale . E i loro valori sono diversi , molto più vicini a quelli socialisti europei .Infatti se le elezioni si svolgessero in Europa Barack Hussein Obama sarebbe eletto con almeno l’80% dei voti . Tutti i giornali sono schierati per lui. Si tratta di vedere se la maggioranza degli americani vuole diventare come l’Europa , che non mi pare goda ottima salute.
Purtroppo non si può essere liberalisti fino in fondo nel contesto di uno stato sociale.
E non si può pretendere che la gente esulti all’idea di avere le frontiere aperte, vivendo in uno stato che ti toglie ciò che è tuo per darlo a chi vuole lui (tenendosi una fetta, più o meno grossa, nel mentre).
Concordo con…tutti quelli che hanno scritto prima di me, sull’immigrazione, sul welfare e anche sul welfare senza immigrati, solo con troppi consumatori e pochi produttori. Però vedo improbabile l’evoluzione vista o auspicata da Mike e Mario45, almeno sino a quando resta il suffragio universale. E’ lecito attendersi una ulteriore deriva schumpeteriana ? E dopo ?
Sfida impossibile?
Da libertario/liberista accanito io dico: SI!
Anzi, la stessa questione è assurda ed inconcepibile; che cavolo significa “il diritto di ognuno di circolare ed insediarsi dove più gli piaccia”? ! ?
Secondo lei signor Tedesco sarebbe “espressione del diritto, sancito dalla legge naturale, dal principio giusnaturalistico precedenti ogni forma storica statuale…”? ! ?
Lei evidentemente non ha mai conosciuto il concetto di diritto di proprietà, questo sì alla base di ogni concezione libertaria e liberista della società umana, e vuole banalmente rilanciare le imputridite utopie di Rousseau senza il classico velenoso condimento marxista-maoista.
L’immigrato clandestino è un difetto, un errore, un’aberrazione di una società e di una nazione, proprio in quanto CLANDESTINO.
Che vuol dire persona che, non potendo introdursi in uno Stato nel rispetto delle leggi che lo regolano, decide di violarle con colpa, dolo e premeditazione per raggiungere ugualmente il proprio obiettivo.
E che di conseguenza deve essere assimilato a tutte le altre tipologie di fuorilegge che esistono in uno Stato, come il ladro, l’evasore fiscale, l’assassino, il corrotto, lo stupratore, il truffatore ecc. ecc. E trattato alla stessa stregua, cioè secondo il codice penale di quello Stato che ha cercato di imbrogliare; in questo giudizio la razza, la lingua, la religione, la terra di provenienza non c’entrano proprio un fico secco.
Quando il sig. e sig.ra Tedesco organizzano una cena mettono attenzione alla lista degli invitati o semplicemente ospitano anche l’arabo che spaccia a 100 metri da casa loro? Perchè se a livello micro avviene un fenomeno a livello macro dovrebbe avvenirne il contrario?La proprietà privata, una casa, un capitale,e anche il proprio patrimonio culturale e sociale è gestita a insindacabile giudizio del titolare senza doversi difendere da pelosi ricatti pseudo moralistici che vorrebbero ugualizzare (ovviamente nel senso di ridurre i migliori) gli individui per poi gestirli facilmente o va semplicemente prodotta allo scopo di essere redistribuita dai nostri politici?
Perdonatemi l’intervento a gamba tesa, ma leggendo i commenti: da gigi, teorico del collettivismo, al libertario col dogma di legge; credo che sara’ difficile fermare il declino. Ciao.