Growsterity
Il perdurare della crisi economica e lo stallo della situazione greca mettono sul banco degli imputati le ricette di austerità. La stessa espressione, austerity, è ambigua. Con austerità si indica genericamente un programma che tende alla riduzione del rapporto tra deficit e Pil e tra debito e pil. Per raggiungere questo obiettivo gli Stati possono fare due scelte: aumentare le entrate o diminuire le uscite. È evidente però che fra l’una cosa e l’altra passa una certa differenza: non è la stessa cosa abolire le province o alzare l’Iva, privatizzare le municipalizzate o introdurre l’Imu, alienare il patrimonio pubblico o tassare con nuove accise. La verità è che in Europa l’austerità è stata imposta più al privato che al pubblico, è stata più sbilanciata sul versante delle entrate che sul lato della spesa (l’Italia è l’esempio più paradigmatico). Il nostro “consolidamento fiscale” è stato del genere “cattivo”, per parafrasare il Presidente della BCE Mario Draghi.
Ci sono però esempi in cui l’austerità ha funzionato come l’Estonia e la Lettonia. I due paesi baltici hanno avuto una rapidissima crescita economica fino al 2008 e poi sono entrati in una grave recessione a causa dello scoppio della bolla immobiliare. Il governo estone ha rifiutato le classiche politiche keynesiane di “stimolo” attraverso la spesa pubblica e dal 2009 ha invece percorso una strada di dure riforme: taglio del 10% degli stipendi del settore pubblico, innalzamento dell’età pensionabile, riduzione reale della spesa pubblica, semplificazione, liberalizzazione del mercato del lavoro, ha aumentato l’Iva ma non ha toccato la flat tax sui redditi che rimane intorno al 20%. Il paese ha subito un durissimo shock, ma oggi è in avanzo di bilancio, il Pil cresce al 7,6% (crescita più alta in Europa), la disoccupazione è scesa dal 19% all’11% e il debito pubblico è al 6% (non è un errore di battitura, è proprio il sei-per-cento). La Lettonia ha avuto una recessione ancora più forte con un calo del Pil del 24% dal 2007 al 2009, per evitare la bancarotta si è rivolta all’Europa per una piano di salvataggio da 7,5 miliardi. Di questi ne ha usati solo 4,4 e non per finanziare le proprie inefficienze, ma come investimento per le riforme e per aumentare la competitività. Ha chiuso la metà di tutti gli enti gestiti dal governo, ha ridotto di un terzo i dipendenti pubblici e del 25% lo stipendio agli altri, ha leggermente aumentato la pressione fiscale. La disoccupazione che aveva raggiunto il 19% è scesa al 15%, il Pil cresce del 5,5%, il debito pubblico è solo al 37% e, mentre economie più solide pensano di uscire dall’Euro, il paese è pronto ad entrare nella moneta unica a partire dal 2014. Va inoltre sottolineato che il presidente estone Ilves e il premier lettone Dombrovskis sono stati tra i pochissimi leader europei ad essere rieletti in piena crisi.
Naturalmente ci sono molti critici al modello baltico della growsterity (crescita attraverso l’austerità) e tra di essi non poteva mancare Paul Krugman, il guru dei neokeynesiani, che ha dedicato un post feroce alll’Estonia suscitando la dura reazione del presidente Ilves. I critici obiettano che durante gli anni di crisi i paesi baltici hanno subito una fortissima emigrazione, la crescita del Pil non ha ancora compensato la caduta degli anni precedenti, la disoccupazione seppure in calo è ancora alta e non si può prendere come modello un’area così piccola e marginale. Innanzitutto è curioso che molti di quelli che fanno queste osservazioni avevano esaltato l’Islanda, diventata il modello di chi “noi la crisi non la paghiamo” e “un altro mondo è possibile”: grillini e indignados di casa nostra inneggiavano al default senza rendersi conto che l’Islanda aveva ripudiato il debito delle banche (non quello pubblico) e si era affidata alle amorevoli cure del FMI. Paul Krugman indicava l’Islanda come “il sentiero non intrapreso”, una via fatta di rottura delle regole, spesa pubblica, svalutazione e inflazione, fregarsene degli investitori: secondo il columnist del NyTimes la sofferenza e il dolore non sono inevitabili, sono una scelta degli Austerians (i pro-austerity). Insomma per costoro i paesi baltici non sono un modello indicativo perché abitati solo da 6 milioni di persone, mentre lo è l’Islanda che è un’isola e di anime ne conta 300 mila (venti volte di meno). In secondo luogo è vero che i paesi baltici impiegheranno qualche anno per ritornare al livelli pre-crisi, ma lo faranno prima dei paesi che non hanno fatto riforme e hanno preferito aumentare la spesa e la pressione fiscale.
Un altro punto da sottolineare è il capitolo “solidarietà”, la parola invocata dai greci e dai loro supporters per far allentare l’austerità “imposta” dalla troika. La Grecia per ottenere il finanziamento europeo si era impegnata a tagliare del 20% i dipendenti pubblici: è di ieri la notizia che, dopo il pensionamento di 90 mila statali, il governo ne ha riassunti 70 mila. Per l’ennesima volta la Grecia ha imbrogliato i propri finanziatori. Nonostante ciò si continua a chiedere a chi ha fatto durissimi sacrifici come gli estoni di finanziare i privilegi di chi continua a taroccare i conti. Lo stipendio medio di un estone è il 10% inferiore al “salario minimo” di un greco che tra l’altro può andare in pensione 10 anni prima ed avere una assegno 4 volte maggiore. “In nome della solidarietà – ha dichiarato il presidente estone Ilves – si arriva al punto di chiedere ai più poveri di trarre d’impaccio i più ricchi da politiche che i più poveri non hanno mai pensato di seguire”.
La nostra solidarietà va all’Estonia.
Chissà, se alla fine della fiera, quando Marchionne avrà deciso che è meglio andarsene, Montezemolo avrà ancora voglia e convenienza a presentarsi in politica come rappresentante vincente dell’Italia che produce (ma solo se sovvenzionata e parastatalizzata).
Andiamo sempre peggio. Ed è inevitabile.
Tutto il sistema politico-economico de noantri che si regge sul connubio stato-banche sorretto dal keynesismo imperante è funzionale all’arricchimento delle classi dirigenti contigue e colluse in nome del welfare per la povera gente.
Ebbene, per la nostra fortuna di esclusi, questo sistema parassitario ed inflazionistico sta crollando (anche se la BCE stamperà dal nulla) inevitabilmente.
Questo è certo. Il quando è meno certo, ma prossimo.
Secondo è improprio parlare di keynesianesimo. Questa interpretazione si base su una lettura completamente distorta di keynes. In estrema sintesi keynes, analizzando la crisi del ’29, aveva elaborato un modello economico dove, secondo lui, davanti ad un’economia stagnante riteneva opportuno che gli stati -nota bene Stati con bilanci sostanzialmente in pareggio- dovessero spendere “investire” 8spesa pubblica per investimenti), perché questa spesa – che poteva essere sostenuta perché gli Stati NON ERANO indebitati e perché comunque potevano stampare moneta – avrebbe “riaccesso” l’ottimismo degli imprenditori e quindi questi dopo un pò, quando avessero visto la domanda nella sua componente pubblica stimolare l’economia avrebbero essi stessi ripreso ad investire, da qui il famoso “moltiplicatore” della teoria keynesiana. Ribadisco: esso implicava due presupposti: stato NON indebitato e possibilità di stampare moneta. Tant’è che il New Deal di Roosevelt, ispirato a questi principi, funzionò, pur senza risollevare completamente l’economia americana, che si riprese del tutto solo grazie alla spesa pubblica per gli armamenti durante la 2a guerra mondiale. Keynes aveva anche aggiunto che nei momenti in cui lìeconomia cresce gli Stati avrebbero dovuto DIMINUIRE la spesa pubblica per investimenti e far rientrare l’indebitamento. Oggi NON sussitono, nel modo più assoluto, le condizioni per un’aumento delle spesa pubblica per investimenti, perché gli stati sono indebitati fino al collo e quindi ulteriori aumenti di spesa dovrebbero essere finanziati da nuovi debiti e poi su questi debiti si dovrebbero pagare gli interessi e questi interessi andrebbero pagati, in sostanza, con ulteriori aumenti di tasse, visto che non si intende perseguire la strada dei tagli. Sarebbe quindi una follia. L’Italia dovrebbe intraprendere una strada di tagli pesanti, ma la classe politica attuale non lo farà, la spesa pubbilica e gli interessi da pagare su di essa continueranno, come un cancro, a divorare la aprte sana dell’economia -le aziende che producono ricchezza. Secondo me siamo vicini al punto di non ritorno, quando la ricchezza prodotta non basterà più per pagare i conti dello stato parassita, tutto crollerà e arriveranno tempi durissimi. NEssuna opera di ingegneria finanziaria dei tecno-euro-burocrati può sostituire l’unica condizione affinche l’economia si riprenda e cioè un alleggerimento decisio della pressione fiscale sulle aziende.
Quando si parla di “investimenti pubblici” mi sembra che si cada in un equivoco pericoloso, soprattutto in Italia. I politici sono sempre bravissimi a qualificare “investimento” ciò che spesso è solo spesa improduttiva (o, meglio, produttiva solo di voti); un esempio ? L’ Europa ovest dal dopoguerra ad oggi ha espanso G -T anche per impiantare ottime metropolitane: un investimento benvenuto, perchè ti libera dall’ obbligo della guida e dalle spese della benzina: risultato: oggi in molte capitali si può vivere senza macchina. Da noi ? Da cittadino romano mi vergogno quando vado all’ estero, nel vedere come si organizzano i trasporti cittadini: era chiaro prima di partire che la metropolitana di Berlino si sarebbe manifestata molto migliore di quella romana, ma sono rimasto, ad esempio, annichilito nel ’93 da quella madrilena, cioè da un posto dove, fino a soli 18 anni prima, regnava il fascismo in versione medioevale. Un guaio, anzi “il guaio”, del keynesismo è che lascia stabilire ai politici gli obbiettivi indipendentemente da quello che vorrebbe la cittadinanza: poi, nei paesi civili i politici spesso indovinano, magari anche al 75%, ma da noi i poltici sono dei bambini di 3 anni: non li lasciamo da soli in casa coi cerini ed il rubinetto generale del gas aperto.
@Francesco
Apprezzo molto il ripristino della verità che ci aiuta a distinguere fra Keynes e i “falsari” contemporanei che ne snaturano la teoria. In realtà certi personaggi ignorano (o fanno finta di ignorare) l’iper-inflazione della Repubblica di Weimar e quella dello Zimbabwe.
Purtroppo se guardiamo in casa nostra, tutti i partiti statalisti di centro destra, centro e centro sinistra non considerano neppure lontanamente l’ipotesi di ridurre la pletora di enti inutili, di enti periferici e l’inefficienza della burocrazia. Sanno sfornare solo delle formule improbabili per attirare su di se l’attenzione dell’elettorato come una cortina fumogena per coprire le proprie mosse. Si passa dalle liste civiche nazionali alle alleanze di 30 partitini, dalle boutade “dentro l’euro, ma anche fuori dall’euro” alla patrimoniale ed all’indebitamento come panacea universale; insomma fanno tutti a gara a chi le spara più grosse.
Un’idea che una non verrà mai fuori da questa gente perché l’unico obbiettivo che si pongono è il mantenimento di privilegi e clientele. Non possono dichiarare apertamente il loro vero programma.
A parte l’astensione o la follia demagogica di M5S, che alternative ha un cittadino chiamato alle urne? Non c’è forse un grave vuoto?
Questo articolo, molto interessante, dimostra, una volta di più, che i paesi pigs non meritano alcuna solidarietà, ma solo di fallire. Viva la Merkel, viva la Svezia, viva l’Estonia, viva la Lettonia!
@Francesco P
Infatti, c’è un vuoto enorme, nessuna forza politica “sana” che abbia una posizione seria e coerente per affrontare la situazione attuale. Grillo ha il pregio di sparigilare le carte con i tecon mafiosi che ci governano e di farli tremare un pò. D’altro canto dice la verità e per persone che usano il buon senso cu vuole poco a mettere a nudo le schifezze continue, di destra e sinistra e centro, che ci hanno perpetrato i partiti della 1a e 2a repubblica. Evidentemente gli Italiani, come popolo, mancano di quei meccanismi di autogestione che invece in altri apesi fanno sì che, quando le cose stanno prendendo una brutta piega, vengano espressa una classe dirigente in grado di di affronatre e risolvere i problemi con risolutezza e determinazione. Penso in particolare alla Gb, che ha espresso una Tatcher al momento opportuno, una Blair al momento opportuno e una Cameron che sembra stia affrontando la situazione attuale nell’unico modo possibile. In altre parole la GB, quando si tratta di fare la cosa giusta o la cosa sbagliata in momenti cruciali della sua storia, guarda caso, ha le persone giuste al posto giusto che fanno esattamente l’interesse del paese. Certo le politiche Thatcheriane non sono state indolori, ma in quel momento erano le uniche possibile per far sì che la GB non regredisse definitivamente senza possibilità di ripresa. Al momento giusto non sono entrati nell’Euro. Pure Blair, anche se Labour, penso che abbia fatto il meglio per il suo paese. Lo stesso per Cameron, che ha ben capito che il problema dell’occidente e quello di stati “spendaccioni” che così facendo metto il cappio al colllo delle proprie economie e quali non sono più in frado di regegre il confronto con ele economie “emergenti” ha un programma di tagli di ben 800.000 dipendenti pubblici, in un paese in cui il funzionamento della cosa pubblica certo non è paragonabile a quella Italiana. La cosa triste è che la GB ha un apaprato produttivo/manufatturiero e una vivacità di iniziative imprenditoriali non certo paragonabili a quelle Italiane, le quali però vengo uccise giorno dopo giorno dalla morsa letale della burocrazia e delle presiione fiscale dello stato Leviatano.
In risposta a Francesco.
Questa settimana sono usciti alcuni dati su come Cameron ed Osborne stiano facendo bene. L’indebitamento è cresciuto e dopo la timida ripresa stimolata dal “keynesiano” Brown è tornata la recessione.