Il nuovo Governo scelga un ministro liberale per il Mezzogiorno
Il risultato elettorale è ormai archiviato. La competizione interna alle coalizioni – assai più che quella fra le coalizioni – ha definito i nuovi rapporti di forza e definirà in queste settimane i veri obiettivi programmatici della nascente legislatura. Per quanto se ne sa, la nuova maggioranza è già al lavoro – con apprezzabile sobrietà – per dare al più presto un governo al paese.
Le questioni che quest’ultimo si troverà ad affrontare saranno, in larga misura, questioni di prima grandezza capaci di incidere in profondità sulle traiettorie future del Paese. Molte di queste sono al centro del dibattito politico ed economico da tempo e su di esse l’Istituto Bruno Leoni ha già avuto modo in modi e tempi diversi di esprimere una propria valutazione. Una di esse ha suscitato, invece, una attenzione tutto sommato marginale salvo poi rivelarsi, all’alba del 26 settembre, per quella che è: una questione forse decisiva per il futuro prossimo dell’Italia. Parliamo del Mezzogiorno.
Non è certo la prima volta che, al momento del voto, centro-nord e sud prendono strade differenti e non è certo la prima volta che il voto meridionale pesa significativamente sugli equilibri politici nazionali. Ma, diversamente da quanto era accaduto in passato, il 25 settembre ha preso forma e sostanza un partito meridionale. Il che plasticamente esprime non solo i diversi punti di partenza o le diverse condizioni di aree diverse del Paese ma, anche e forse soprattutto, i loro diversi obiettivi.
Non che la “questione meridionale” non fosse un punto nell’agenda dei precedenti governi ma le forme in cui la stessa si concretizzava (e la cultura delle diverse maggioranze che si sono avvicendate) avevano portato ad affrontarla – da un quarto di secolo a questa parte – con dosi crescenti di un particolare narcotico: la spesa pubblica, intermediata in particolare dagli enti locali. È una scelta che nella domenica del 25 settembre ha presentato il suo conto. Quali che siano gli obiettivi e le aspirazioni del Paese, una parte importante del Mezzogiorno intravede per sé un futuro che contempla solo l’assistenza e si organizza politicamente di conseguenza.
È una novità carica di implicazioni. L’Italia ha assoluta necessità di riprendere un sentiero di crescita sostenuta e sostenibile. Di tornare a crescere, nel lungo periodo, almeno quanto i suoi principali partner europei. Perché questo avvenga è imperativo che il processo di crescita non solo coinvolga l’intero Paese ma che il Mezzogiorno cresca più del Centro-nord del Paese e cominci a ridurre il divario che lo separa dal Centro-Nord. Ma la realtà è che il prodotto interno lordo per abitante meridionale è oggi circa il 55% della corrispondente quantità centro-settentrionale. Era circa il 58% dieci anni fa, poco meno del 59% trenta anni fa. La conclusione è una sola: le politiche regionali avviate alla metà degli anni Novanta con la cosiddetta Nuova Programmazione e proseguite, d’intesa con l’Unione Europea, con correzioni solo marginali nel corso del tempo hanno – quale che fosse la loro incarnazione politica – fallito (e ciò non ostante molti dei loro principi di fondo sono stati, purtroppo, in parte travasati nel PNRR). Il loro solo concreto risultato è un Mezzogiorno ormai convinto di dover (e poter) indefinitamente vivere di assistenza. La condicio sine qua non per riportare a crescere il Mezzogiorno è una loro radicale messa in discussione. Ci permettiamo di offrire al Presidente del Consiglio in pectore un consiglio non richiesto. Ci viene quotidianamente ricordato che l’identità di questo o quel ministro sarà cruciale per rassicurare i nostri principali partner e le istituzioni internazionali. È bene sapere che l’identità del prossimo ministro del Mezzogiorno sarà essenziale per capire se e fino a che punto sappiamo prendere atto dei nostri fallimenti e invertire la rotta. E con ciò far sì che sia l’intero Paese a risalire la china.