Google e il paradosso dell’antitrust
Nella recente decisione su Google Shopping, l’Unione europea ha stabilito che la presentazione “non neutra” dei risultati di ricerca di Google danneggi i concorrenti, chiedendo pertanto a Google di ristabilire la parità di trattamento tra sé e i propri competitors. La CCI, al contrario, vede nella presentazione non neutrale dei risultati non solo un’attività non dovuta da parte di Google, ma addirittura un rischio di confondere i consumatori, e per questo richiede che Google semplicemente di identificare più chiaramente quando dà la priorità ai suoi contenuti.
Quarant’anni fa Robert Bork – professore universitario e avvocato generale degli Stati Uniti – pubblicò un libro intitolato “Il paradosso dell’Antitrust”. Secondo Bork, la giurisprudenza antitrust negli Stati Uniti oscillerebbe pericolosamente tra due diverse interpretazioni, tra loro incompatibili, sul fine ultimo del diritto della concorrenza: la massimizzazione del benessere dei consumatori, oppure la difesa dei piccoli imprenditori dalla competizione di imprese più efficienti e capaci di dominare i propri mercati. Il paradosso, secondo Bork, è proprio questo: che talvolta il benessere dei consumatori può corrispondere alla predominanza di poche imprese in grado di offrire prodotti e servizi migliori a prezzi più bassi, facendo sì che i due ‘fini’ del diritto della concorrenza si trovino in contraddizione fra loro. Quale delle due interpretazioni debba prevalere, da allora, è rimasta questione irrisolta, lasciando ampia discrezionalità ai giudici e alle diverse agenzie antitrust e, di conseguenza, generando spesso incertezza tra gli operatori economici coinvolti.
Un esempio paradigmatico del paradosso di Bork è quanto sta accadendo, in seno a tutte le agenzie antitrust del mondo, rispetto a Google, la cui posizione di predominio sul web è oggetto di continue rivendicazioni da parte dei suoi concorrenti. Rivendicazioni che spesso – e soprattutto in Europa – vengono interpretate in base al secondo criterio illustrato da Bork: la difesa dei ‘piccoli’ dalla capacità predatoria delle multinazionali. Un criterio esegetico che, per noi, è ormai la prassi. Ma non lo è per tutti, a conferma dell’esistenza del problema segnalato da Bork: in India, pochi giorni fa, l’autorità antitrust locale (Competition Commission of India, o CCI) ha emesso una sentenza – giunta al termine di un’indagine durata sei anni – che interpreta la posizione dominante di Google da un punto di vista diverso e interessante.
Il giudizio della CCI riguarda una serie di questioni accorpate tra loro, tutte legate alla preferenza accordata da Google ai propri servizi, o a quelli esercitati da società controllate o clienti di Google. La CCI ha ad esempio esaminato la preferenza accordata dal motore di ricerca a Google Maps, YouTube e Google Shopping rispetto a servizi equiparabili, così come l’algoritmo utilizzato da Google AdWords (la piattaforma pubblicitaria di Google) per determinare i risultati in evidenza nelle ricerche. Come quasi tutte le altre agenzie antitrust che si sono occupate di Google, anche la CCI riconosce in quella di Google una posizione dominante derivante dal fatto che esso è al tempo stesso un operatore del mercato e la “porta d’accesso” privilegiata dei consumatori alle ricerche sul web. Il che, secondo la Corte, comporta l’esistenza di una “speciale responsabilità”, in capo a Google, nel non esercitare abusivamente tale posizione dominante. E in effetti è innegabile che Google costituisca un importante punto di contatto tra i propri concorrenti e i consumatori. Ma – e in questo sta la portata innovativa della sentenza – la CCI non sostiene che il servizio prestato da Google sia un “servizio essenziale” e tantomeno un “servizio pubblico”, che Google dovrebbe pertanto gestire come parte terza e imparziale.
Secondo la corte indiana, Google ha sì una speciale responsabilità della gestione dei risultati di ricerca sul proprio portale, ma ciò non può in alcun modo comportare il divieto di continuare a innovare i propri servizi, anche a discapito dei propri concorrenti. E ciò perché è proprio l’innovazione nei propri servizi – ad esempio per quanto riguarda il loro design – ad aver fatto e a fare la forza di società come Google. Così, ad esempio, secondo la CCI non si può chiedere a Google di mettere sullo stesso piano Google Maps e altri servizi di geolocalizzazione, in quanto la differenza nei tempi di risposta e nella precisione dei risultati penalizzerebbe i consumatori. E perfino nell’unico caso in cui sostiene l’illiceità del comportamento di Google, cioè nel caso di Google Flights, il giudice indiano non chiede a Google di mostrare i risultati di tutti i suoi competitors, ma semplicemente di avvisare l’utente che i risultati riguardano – appunto – soltanto il motore di ricerca interno di Google, e non i risultati aggregati di altri motori di ricerca.
Nella recente decisione su Google Shopping, l’Unione europea ha stabilito che la presentazione “non neutra” dei risultati di ricerca di Google danneggi i concorrenti, chiedendo pertanto a Google di ristabilire la parità di trattamento tra sé e i propri competitors. La CCI, al contrario, vede nella presentazione non neutrale dei risultati non solo un’attività non dovuta da parte di Google, ma addirittura un rischio di confondere i consumatori, e per questo richiede che Google semplicemente di identificare più chiaramente quando dà la priorità ai suoi contenuti. Una distinzione assai significativa, nel merito ma soprattutto nel metodo: perché individua nel comportamento di Google un problema non per i suoi concorrenti, bensì per i consumatori, che potrebbero essere ingannati da un servizio poco chiaro. Mentre c’è chi cerca di costringere Google ad attenersi a tecnologie e norme obsolete in nome del mantenimento dello status quo, la CCI tiene in considerazione i benefici che Google ha prodotto per i consumatori, imponendo solo ritocchi necessari a fare chiarezza sulle condizioni offerte.
Twitter: @glmannheimer