Gli Usa kyotano?
Ieri la Camera degli Stati Uniti ha approvato, tra le polemiche repubblicane e le defezioni democratiche, l’American Clean Energy and Security Act, noto anche come Waxman-Markey Bill dai nomi dei suoi primi firmatari, i parlamentari democratici Henry Waxman ed Ed Markey. Il primo dato politico è la vittoria dell’amministrazione, che è riuscita a far passare un provvedimento-bandiera per le credenziali verdi del presidente, Barack Obama. Il secondo dato politico è che la vittoria non è arrivata a costo zero, anzi, la Casa Bianca l’ha pagata carissima: 44 parlamentari democratici si sono opposti alla misura, che è passata di stretta misura (219-212) nonostante la schiacciante maggioranza del partito dell’Asinello, e solo grazie a otto repubblicani che hanno garantito il proprio appoggio alla legge. Tutto ciò nonostante il fatto che lo stesso Obama, e i suoi più stretti collaboratori, abbiano fatto tutte le pressioni possibili sulle loro truppe, nonostante il peso massimo di Waxman e Markey, e nonostante l’impegno di Nancy Pelosi, speaker della House.
La nuova legge, se approvata dal Senato, sicuramente porterà gli Stati Uniti più vicino all’Europa. Non tanto per i target che essa pone, che rispetto ai nostri sono relativamente lievi: l’obbligo di generare il 15 per cento dell’elettricità da fonti rinnovabili entro il 2020 e la riduzione delle emissioni di gas serra del 17 per cento al di sotto dei livelli del 2005 entro il 2020 e dell’83 per cento in meno entro il 2050 (ma questa è pura propaganda). Per raggiungere questi obiettivi, viene introdotto uno schema di cap & trade sul modello europeo, ed è davvero bizzarro perché il nostro sistema ha ampiamente dimostrato di non funzionare. Come spesso accade, tra le pieghe della norma si nascondono interessi particolari, come la protezione dell’industria nazionale attraverso l’imposizione di tariffe sull’importazione di beni da paesi che non abbiano a loro volta adottato adeguati standard ambientali (cioè, la Cina). Ironicamente, questo stesso tipo di misura veniva invocata fino a poco tempo fa dal presidente francese, Nicolas Sarkozy, non solo contro Pechino ma anche contro la stessa Washington.
I repubblicani hanno orchestrato la loro opposizione soprattutto sul fronte dei costi: contestando il controverso studio del Congressional Budget Office, secondo cui il”salasso” ai danni dell’economia americana sarebbe attorno ai 22 miliardi all’anno nel 2020, pari a circa 175 dollari a famiglia (ironicamente, circa il doppio dell’impatto stimato del piano 20-20-20 per la sola Italia). E’ probabile che gli economisti repubblicani abbiano ragione, e che il Cbo abbia giocato al ribasso, come del resto dichiara esso stesso nel momento in cui afferma che nel conto non sono stati inclusi gli impatti depressivi sull’economia. Come se si potesse estrarre un dente senza causare dolore.
La battaglia si trasferisce ora al Senato, dove nulla è scontato. I malumori che l’amministrazione ha dovuto sconfiggere alla Camera si ripresenteranno amplificati, mentre è incerto quanti repubbicani questa volta si schiereranno con la maggioranza (occhio a John McCain). E’ plausibile che l’amministrazione accetterà di annacquare il provvedimento in ogni modo, un po’ sul modello dell’esperienza europea, per comprare il consenso dei senatori democratici attraverso la generosa elargizione di doni (se non in valore assoluto, almeno in termini di vantaggi competitivi sui concorrenti) alle loro constituency. Di certo, se la cosa arriverà a compimento Obama si presenterà a Copenhagen da vincitore: non è detto che ne uscirà altrettanto bene, però, perché è scontato che tutto quello che potrà offrire, l’avrà già fatto. Non sarà in grado di sottoscrivere un impegno superiore a quello sotteso al Waxman-Markey Bill. Inoltre, se verranno confermate le clausole anticinesi, è possibile che Pechino finisca per mettersi di traverso, come in parte ha già fatto. Per paradossale che sia, a fronte del cedimento dell’America all’ideologia verde, il futuro del capitalismo è nelle mani del Partito comunista cinese.
Facciamo un po’ di fantapolitica.
Quando e se l’economia mondiale si riprenderà (forse già nel 2010 tornerà a crescere) la fame di energia porrà dei problemi seri.
E’ assai probabile che il greggio abbia raggiunto il picco e i vari liquids con il natural gas, sebbene abbondanti (secondo le ultime stime), non possono sostituire il greggio (soprattutto sul fronte petrolchimico…di cui si parla sempre troppo poco ma che è alla base della nostra economia).
Se questa premessa è vera, a parità di condizioni al contorno l’economia globale sarà destinata ad andare su e giù nei prossimi anni come sulle montagne russe.
Bisogna cambiare i pilastri dell’economia; aggiungiamo anche che attualmente c’è un disperato bisogno di inventarsi una “domanda” alternativa per non rimanere impantanati in una prolungata stagnazione.
Quindi, lobbies permettendo, l’idea è passare (lentamente o velocemente che sia) ad un’economia post-carbonio (anche costringendo le imprese a “shiftare” gli investimenti verso l’efficienza energetica e, si spera, all’autarchia energetica).
Ma ci vogliono i soldi…come facciamo?
E qui arriva il secondo probabile passo di Obama & C.
Svalutazione del dollaro e inflazione con ritorno in tempi brevi dalla posizione debitoria degli Stati Uniti.
Per funzionare al meglio ciò deve avvenire prima che il dollaro sia sostituito nella sua funzione di riserva valutaria mondiale.
In questi giorni si moltiplicano i segnali ( normali e strani, tipo il sequestro della finanza a Chiasso cui l’informazione ufficiale ha deciso di tacere…sic…) che i creditori degli Stati Uniiti incominciano ad essere nervosetti.
Che si ritrovino improvvisamente con carta straccia??
Giochetti pericolosi…
Ma state tranquilli questa è fantapolitica. Al massimo può andare bene per un romanzo di Le Carrè.
Saluti.