Gli individui risolvono la crisi economica se lo Stato…—di Federico Morganti
Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Federico Morganti.
Chiunque appartenga alla ristretta galassia liberale-liberista sa bene quanto sia importante la crescita economica e quali siano le condizioni che possono agevolarla: uno stato leggero, la certezza del diritto, stabilità istituzionale. Condizioni tanto più importanti in tempo di crisi, quando l’occupazione, le opportunità di investimento e le possibilità di risparmio delle famiglie languono. Il liberista diffida, e a ragione, della pretesa dello stato di fornire la ricetta per uscire dalla crisi. Lo ha ben sottolineato Emilio Rocca in un recente intervento su “Leoni Blog”. Semplicemente, lo stato non ha gli strumenti per far promuovere, in positivo, la crescita del paese. Non c’è sussidio o intervento a favore di questo o quel gruppo che potrà aiutare l’Italia a riprendersi. Le energie per la ripresa non verranno dall’apparato pubblico, bensì dal basso: dai comuni cittadini, da imprenditori piccoli e grandi, commercianti e produttori di beni e di servizi (in una parola: di valore). La vera domanda, dunque, non è “cosa può fare lo Stato per risolvere la crisi economica?” bensì “cosa può fare l’individuo per risolvere la crisi economica?”. È il secondo e non il primo a produrre valore e a contribuire dunque a quell’indicatore aggregato della crescita di un paese qual è il PIL. “La risposta migliore dell’individuo di fronte alla crisi economica”, scrive Rocca, “sarebbe quella di produrre maggiore valore”.
C’è del vero in queste considerazioni, ma c’è anche qualcosa che manca. Per rendercene conto, basta porre un’ulteriore domanda: come mai nel nostro paese gli individui fanno fatica a produrre valore, a innovare, a escogitare nuovi modi per servire il consumatore? A questa domanda, il liberista dà una risposta secca: lo stato, sotto forma di tassazione, burocrazia e regolamentazione schiacciante.
Se ciò è vero, ne consegue che c’è molto che lo stato può fare per mettersi la crisi alle spalle: può ridurre la spesa pubblica e tagliare le tasse; può razionalizzare la spesa pensionistica; può rivedere il funzionamento della pubblica amministrazione; può alleggerire il carico regolatorio e burocratico sulle imprese; può spingere l’Unione Europea a rimuovere le barriere commerciali con il terzo mondo. Poiché è lo stato a imbavagliare le energie degli individui con lacci e lacciuoli di ogni tipo, esso si trova in un’ottima posizione per promuovere la crescita, e cioè rimuovendo quei vincoli. È lo stesso Rocca, del resto, a suggerirlo: “Cosa direbbe [Adam Smith] di elettori che affrontano la crisi economica chiedendo allo stato di fare esattamente l’opposto di una famiglia di buon senso, ovvero di aumentare la spesa e di fare più debito?”. Ma la riduzione della spesa e del debito pubblico devono necessariamente passare per un cambio di rotta della politica.
Come spingere la politica a fare questo, come diffondere un po’ di cultura liberale tra gli organi istituzionali è un problema di non facile soluzione, su cui è perfino lecito essere pessimisti. Ma può il liberale escludere a priori che la politica possa fare qualcosa per la crisi? E quali sono le strade più promettenti che il liberale deve invece battere? Possiamo certamente promuovere la diffusione delle idee liberali, una maggiore educazione ai benefici del mercato e della globalizzazione: obiettivi senz’altro auspicabili benché raggiungibili solo nel medio-lungo termine. Ma nello sforzo di istruire circa i benefici dello stato minimo e dell’autonomia del mercato, non dimentichiamo che, purtroppo, in Italia lo stato non è “minimo” e di libero mercato ce n’è ben poco. Per far sì che gli individui contribuiscano all’uscita dalla crisi è dapprima necessario rimuovere gli ostacoli che impediscono loro di farlo. E per far ciò, una cosa che lo stato può fare in effetti c’è: farsi da parte, e speriamo per molto tempo.
… il mondo della produzione ” innovata ” ha preso il volo, si e’ spostato dove la mano d’opera costa meno e con poche condizioni; si puo’ ripartire ad esempio dall’artigianato, un’artigianato aggiornato negli strumenti ( non mancano ) e nella cultura d’attivita’ con lo sguardo rivolto proprio a quei paesi di cui sopra – e non solo – che pero’ ambiscono ai contenuti che ci caratterizzano e che ci sono riconosciuti: tutte le attivita’ artigiane vivono in sottoccupazione perche’ gli oneri – non le paghe – sono sproporzionate alle modalita’ lavorative perche’ nate da mediazioni politiche e non dai contenuti dei processi.
Inoltre piu’ del 95% delle attivita’ nazionali occupano da 5 addetti un giu’ … santo cielo, non mi sembra cosi’ impossibile strutturare un progetto adeguato a queste realta’ !
armando calosso
@falegnamerianuova