23
Mar
2011

Generali, Unicredit e Intesa

Il focus di cronache e attenzione dei media è su vicende “mondiali”, dal Giappone prima alla Libia oggi. Nella disattenzione generale dei non addetti ai lavori, tuttavia, in poche settimane si va profilando una nuova fase degli equilibri ai piani alti del potere finanziario italiano. La polemica in Generali di Diego della Valle a Cesare Geronzi, in nome del “largo ai giovani”, ha rapidamente ceduto il passo a uno scenario ben più complessivo. Ad affrontarsi – non ho detto a scontrarsi – sono e saranno le due maggiori filiere bancarie italiane, Unicredit da una parte e Intesa dall’altra. In palio, chi giocherà a venire un maggior ruolo in Mediobanca e Generali, cioè chi influenzerà di più il rispettivo management da una parte, e chi avrà più voce in capitolo sulle controllate dall’altra, da Rcs a Telecom Italia. In bilico, la posizione francese in Mediobanca, eredità dell’ultima fase della Mediobanca di Vincenzo Maranghi, concepita come cuscinetto tra i soci privati e quelli bancari di piazzetta Cuccia, e garante in passato della lunga presidenza Bernheim a Trieste. Avvertenza: qui purtroppo non si parla di andamenti e risultati, creazione valore e strategie aziendali, come vorremmo noi con un’ottica di puro mercato. Si parla di “potere” nel mercato, la malattia relazionale tipica del quadro clinico italiano. 

Inizio del conflitto vero: non le dichiarazioni di Della Valle, ma il no italiano “di sistema” (Banca Intesa e Bankitalia) all’acquisto da parte francese (Natixis) dell’asset management di Unicredit, Pioneer, destinato invece ad Eurizon di Intesa; il no altrettanto “di sistema” (Consob) al salvataggio del gruppo Ligresti (5% di Mediobanca e socio Unicredit) tentato dai francesi di Groupama, per accrescere l’influenza transalpina in Mediobanca e di Vincent Bolloré come vicepresidente in Generali. La politica, in realtà, malgrado Repubblica straparli sul tema, c’entra poco o nulla. Il Tesoro di Giulio Tremonti è per la difesa del risparmio e del settore assicurativo come settori strategici – esattamente come vale per l’energia rispetto a Edf in Edison, o nell’alimentare rispetto a Lactalis in Parmalat, ma di questo parleremo  parte e l’ha già fatto Carlo Stagnaro– ergo guarda alle mosse “nazionali” con esplicito interesse. Ma ciò non significa che entri nel coté interno a Mediobanca e Generali. Almeno finora.

In sintesi estrema, e dunque con molte approssimazioni di cui chiedo scusa, la questione è questa. Allontanato Alessandro Profumo da una Unicredit prima banca italiana per internazionalizzazione e dunque più esposta a necessità di ricapitalizzazioni e abbassamento di leva finanziaria, Banca Intesa era in posizioni di maggior forza. Profumo, oltretutto, era per una prospettiva “non entrista” nelle vicende Mediobanca-Generali-Rcs. Non è un caso che sia la sola Intesa, al centro di tutte le operazioni che la stampa presenta come “di sistema”, da Alitalia l’altroieri a NTV ieri, da Pioneer a Parmalat-Granarolo oggi. Senonché nella Unicredit post Profumo le fondazioni socie non pensano affatto a un ruolo caudatario. Palenzona, a loro nome, ha esposto un programma d’intenti in cui il slavataggio di Ligresti da parte della nuova Unicredit significa più forza in Mediobanca e più forza all’autonomia “italiana” di Generali, anche rispetto all’arrembaggio “largo ai giovani” di amministratori privati o indipendente in realtà filo-Intesa.

Quest’ultimo fronte ha già indirettamente risposto attraverso alcune chiose comparse sul Corriere della sera: meglio che l’11% francese in Mediobanca si rassegni a non contare più e a non veder confermato il patto di sindacato che scade a fine anno, che immagini sin d’ora di cedere la sua quota a italiani. E’ ovvio che attualmente sia Intesa, e non Unicredit, a ritenersi più forte nel fornire a soci italiani a sé “vicini” le risorse per rilevare la posizione francese. A guardare con più interesse a una Rcs in cui, nel tempo, le posizioni dellavalliane si rafforzino. E a sciogliere, nel tempo, il ruolo residuo di Mediobanca sulle partecipate.

Sarà partita lunga. Se la si deve guardare con occhio di mero bilanciamento di potere, meglio un’Italia in cui le fondazioni di Unicredit si rafforzino tornando a immaginare per l’istituto un ruolo di contrappeso. Altro sarebbe – tutt’altro, ma proprio questo sarebbe il mio povero punto di vista ideale – se si dovesse giudicare con un’ottica di puro mercato. In quel caso, non molti degli intrecci attuali tra soci e controllati dovrebbero sopravvivere. Testate come il Corriere sarebbero più libere, e Repubblica la pianterebbe di rappresentare ogni questione in base è a chi è più amico di Letta o Tremonti. Per questo lunga vita a quei pochi soci privati – come Caltagirone – che in Generali e altrove stanno perché hanno messo risorse proprie, non devono nulla a questa o quella grande banca, e parlano il minimo indispensabile: se non negli organi deputati e numeri alla mano, non per bilance di potere attuali o future.

1 Response

  1. carissimo dottor Giannino io sono un asino che raglia (lo sa perchè ) qui tra lo stato ladro come lo chiama giustamente lei (che è dire poco )e gli amici degli amici siamo messi male ,io le posso dire solo una cosa O SI CANDIDA ALLE PROSSIME ELEZIONI con chi vuole lei o da solo ed io la voterò oppure si prenda la residenza a Montecarlo cosi almeno lei pagherà meno tasse e vivrà meglio .
    continui pure a girare il coltello nella piaga tanto ormai abbiamo il callo
    devotamente moretti paolo

Leave a Reply