Gas, la Caporetto delle liberalizzazioni è la distribuzione?
Intervistato dalla Stampa di oggi, Massimo Orlandi, ad di Sorgenia, dice che
la difficoltà è legata a quello che potremmo chiamare, facendo un paragone con la telefonia, l’ultimo miglio del gas. Ovvero un operatore privato come Sorgenia non riesce ad attraversare l’ultimo metro di tubo che dà l’accesso al gas. Il mercato è in mano ai distributori del gas che in Italia sono oltre 400… Soprattutto le utility più piccole fanno ostruzionismo: non fornendo in tempo le misure sui consumi del gas o fornendole sbagliate.
Qui è disponibile una sintesi dell’intervista. Sebbene la distribuzione non sia l’unico ostacolo alla piena concorrenza, non c’è dubbio che, all’atto pratico, essa sia quello maggiore e più subdolo. Le reti di distribuzione locale del gas sono, infatti, frammentate (la maggior parte sono di piccole e piccolissime dimensioni, cosa che – da un punto di vista strettamente economico – non ha senso, perché questo è un business fortemente sensibile alle economie di scala e soprattutto di densità). Inoltre, nella maggior parte dei casi sono verticalmente integrati nelle utilities locali, perlopiù a controllo comunale e spesso beneficiarie di affidamenti diretti, che hanno ogni incentivo a mantenere l’opacità e non investire nello sviluppo delle reti, allo scopo di trattenere il maggior numero di clienti nel mercato vincolato. Tant’è che, come ricorda lo stesso Orlandi, a sei anni dalla completa apertura del mercato del gas (1 gennaio 2003) solo il 3 per cento delle famiglie e piccole imprese è passato al mercato libero, contro il 4,7 per cento delle famiglie che hanno “switchato” nel mercato elettrico, di più recente apertura (1 luglio 2007) (a me risultano dati ancor più positivi).
Il tema posto da Orlandi è quello che, specie dal punto di vista dei piccoli consumatori (e dell’interesse per le aziende ad andarseli a prendere), fa effettivamente l’interesse. Altrimenti non si spiegherebbe che le offerte sul mercato elettrico siano state assai più aggressive che quelle per il gas, a dispetto del fatto che i due mercati subiscono vincoli simili nelle altre fasi della filiera. E’, dunque, importante affrontare i due corni della questione: la frammentazione industriale e la scarsa trasparenza delle letture. Per quel che riguarda quest’ultima, nel settore elettrico è stata risolta e garantita tramite l’installazione di contatori elettronici, che forniscono misure in tempo reale e oggettive. A sua volta, questo investimento è stato reso possibile dalla spinta dell’Autorità e dalla disponibilità dei maggiori operatori della distribuzione e cioè, a fortiori, dal più forte grado di concentrazione. Quindi, anche per il contatore elettronico la causa ultima sta nella frammentazione della distribuzione locale del gas.
Quindi, la scommessa è quella di trovare una formula per indurre un processo di aggregazione. L’Autorità ci ha provato con un documento di consultazione e una serie di prese di posizione successive, ma anche qui mi pare che la via seguita rischi di essere sterile, anche se per ragioni opposte. L’Autorità, in sostanza, ha condotto un’indagine sui bilanci della distribuzione, e ha creduto di individuare una “dimensione minima” al di sotto della quale la scala è insufficiente. Ma questa logica è debole, non solo perché inevitabilmente trascura le specificità locali (la distribuzione in un territorio montano è diversa dalla stessa attività esercitata in una grande città nel mezzo della pianura. La “dimensione ottima” di un’impresa, insomma, non dovrebbe essere stabilita autoritativamente, anche perché essa è necessariamente funzione di una quantità di variabili, tra cui la tecnologia in uso (che oggi è ovviamente diversa da ieri e da domani) e le scelte regolatorie (in particolare sulle tariffe, cioè le entrate, e la qualità del servizio).
A questo si aggiunge una normativa demenziale. Le reti oggi sono per la maggior parte in mano a soggetti formalmente privati, ma, allo scadere delle concessioni (la maggior parte delle quali terminerà entro la fine del 2010), dovranno tornare in mano agli enti locali, i quali dovranno riassegnarle tramite gara. Un elemeno fondamentale delle gare – di fatto l’unico – è il canone di concessione, cioè quanta parte delle loro entrate le imprese sono disposte a pagare ai comuni. Il risultato è che i margini, stretti tra una certa rigidità dei costi industriali (determinata dal rispetto degli standard di qualità imposti dall’Aeeg), il cap sulle entrate (imposto tramite la regolazione tariffaria), e quella tassa impropria che versano agli enti affidatari (il canone), finiscono per essere così risicati da non determinare alcuna dinamica virtuosa. La vera scelta, che però è una scelta anzitutto politica e quindi regolatoria, dovrebbe essere quella di un modello regolatorio univoco, anziché mischiarne due: o si regolano le tariffe di imprese private che posseggono le reti (eventualmente estendo gli obblighi di unbundling anche ai piccoli o spingendo l’acceleratore sulla separazione proprietaria), oppure si decide che le reti sono pubbliche e vengono affidate tramite gara, facendo sì che il controllo sui prezzi (cioè sulla remunerazione del capitale) avvenga attraverso i termini dell’affidamento. I due modelli sono ugualmente interessanti, anche se io tendo a preferire il primo (proprietà privata + regolazione tariffaria + separazione proprietaria). Ma finché non si compie una scelta netta, qualunque tentativo di soluzione rischia di essere peggiorativo, aumentando la confusione normativa e riducendo la trasparenza.
E’ come in cucina: quando un piatto risulta insoddisfacente, entro un certo limite si può tentare di “salvarlo” aggiungendo nuovi ingredienti, o aumentando le dosi di quelli vecchi. Ma se la ricetta era sbagliata, conviene ricominciare da zero.
L’AD di Sorgenia, come chiunque lavori per Sorgenia o abbia lontanamente a che fare con quella azienda, dovrebbe vergognarsi anche solo di guardarsi allo specchio la mattina.
Che pensino alle loro politiche commerciali fraudolente, agli sconti autoreferenziali, ai prezzi al netto perdite scambiati per PED, ai prezzi indicizzati venduti per fissi, ai servizi a pagamento opzionali nascosti fra le pieghe contrattuali, alle falsità ed alle menzogne che i loro agenti quotidianamente spacciano per l’Italia. Il loro problema non è prendere clienti.Il loro problema è tenerseli più di un mese, il tempo che arrivi la prima fattura ed il cliente realizzi che razza di contratto ha firmato. E venga da noi piccole municipalizzate, che abbiamo sportelli sul territorio, a piangere per tornare indietro. Questo loro atteggiamento, unito a quello dei loro colleghi mascalzoni di Enel Energia, sta bruciando il libero mercato e trasformandolo in una gara a chi le spara più grosse, seguendo il triste sentiero tracciato dalla telefonia. E la chiamano energia sensibile…