Franco Debenedetti: il private equity non lascia un cimitero
Pubblichiamo questo intervento di Franco Debenedetti, crossposted su Generazione Pro Pro.
Finanza predatrice, secondo Dario Di Vico, quella del private equity: in 10 anni, sotto i suoi “ferri” sarebbero uscite “più macerie che vero sviluppo”. Sotto accusa sono i buy out, cioè le operazioni con cui i fondi comprano imprese, le rendono efficienti con scelte che la proprietà non aveva capacità o volontà di prendere, e le rivendono.
Avrebbero orizzonti temporali limitati: ma il loro mestiere non è costruire conglomerati, bensì smontarli; e se in 3 anni non si riesce a produrre discontinuità, meglio passare la mano. Farebbero ricorso smodato della leva finanziaria: l’equivalenza teorica tra finanziamento in equity e in debito dimostrata da Franco Modigliani, può produrre dolori in momenti di stretta creditizia. Ma la leva media (in Italia di 1,9 volte), è poca cosa rispetto alle operazioni immobiliari a debito che hanno riempito le cronache: le banche han lavorato mesi per risolverle, un private equity mai le avrebbe fatte.
I “barbari alle porte” alla fine degli anni 80 hanno promosso la grande ripresa dell’economia americana. Da noi, Prysmian vale in Borsa più della Pirelli di cui faceva parte; Moncler è stata salvata dal fallimento; Galbani e Sisal continuano ad andare bene; Morgan Grenfell non riusciva a mettere a posto la Piaggio, ma col successivo cambio di proprietà è ritornata a casa del suo investimento, e ora l’azienda guadagna e cresce.
Nessuno ha detto che sia sempre la ricetta giusta, né che riesca a tutti, né sempre: d’altra parte nessun successo è per sempre. A Di Vico non piace il capitalismo delle grandi famiglie salvato da Cuccia. Non l’OPA alla Colaninno, che non fu private equity, perché il debito rimase in capo all’Olivetti e non alla Telecom, e l’operazione per abbatterlo, approvata dal mercato, fu bloccata da un’inchiesta della magistratura, che poi l’archiviò dopo cinque anni.
Non il private equity: ha operato, scrive, “la più grande operazione di politica industriale del nostro Paese”. Un paradosso, dato che l’”ideologia” del private equity è l’assenza di disegno, sia sulle direzioni dello sviluppo sia sui mezzi atti a perseguirlo. Ma un paradosso rivelatore: da noi “politica industriale” l’hanno fatta solo IRI, ENI ed Efim. Che sia questo ciò di cui anche Di Vico sente la mancanza?
Intervento quanto mai opportuno. In questo momento si tende a fare di tutte le erbe un fascio, ed a criminalizzare ogni e qualsiasi operazione di finanza straordinaria. Anche quelle realmente a supporto dello sviluppo industriale e quelle costruite con un occhio alla produzione, e non alla finanza fine a sé stessa. In parte ciò deriva da scarsa comprensione dei meccanismi finanziari sottostanti le operazioni di private equity, in parte da interessate commistioni a gettar via il bambino con l’acqua sporca, magari per fare qualche favore agli amici degli amici. A quale di queste due categorie possa essere attribuito il pezzo di Di Vico è rimesso alla valutazione dei lettori.