1
Mag
2009

Fiat-Chrysler e l’editto di Caracalla

Per l’industria dell’auto italiana, cioè per Fiat Group Automobiles, l’intesa con Chrysler è l’equivalente dell’editto di Caracalla. Nel 212 dopo Cristo, Marco Aurelio Antonino figlio di Settimio Severo prese definitivamente atto che Roma era irreversibilmente “internazionalizzata”, dunque la sua cittadinanza andava estesa a tutti gli abitanti dell’Impero per riscuoterne le tasse, altrimenti le casse imperiali col cavolo che bastavano a pagare le legioni senza di cui non si ascendeva (e si restava) sul trono. La conseguenza fu la sempre più accentuata e poi definitiva emarginazione del Senato, come organo di legittimità e controllo della sovranità. In cambio, però, c’erano un paio di altri secoli di sovranità da guadagnare. Le cose non andarono proprio come previsto, ma era un atto di realismo.
Anche nell’intesa Fiat-Chrysler, c’è non solo un comandante militare capace di grandi intuizioni e veloci campagne come Marchionne, ma pure un Senato che accetta la rischiosa prospettiva di contare assai meno: cioè Exor che ha il controllo di Fiat, la Giovanni Agnelli&co alla quale partecipano in forma di sapa gli eredi Agnelli che controlla Exor, e risalendo ancora la Dicembre ss, in cui John Jaki Elkann con il 30,1% della sapa custodisce i custodi dell’intera catena. Tra le tante cose che all’indomani dello storico accordo i media italiani non mettono molto a fuoco, per le ragioni oggettive richiamate da Alberto Mingardi (a proposito, però: il neodirettore della Stampa mi è piaciuto, Mario Calabresi invece di levare peana ha preferito fare il giornalista vero, con un’intervista a Marchionne nella quale l’ad ammette che con le donne non batteva chiodo vergognandosi dell’accento, e aggiunge per amor di verità che senza Opel e altri pezzi di Gm nel mondo l’accordo è ancora largamente subottimale…) c’è innanzitutto il saggio realismo di chi, alla testa della catena, mostra davvero di non essere più tetragono nella difesa del controllo, di Fiat com’è e soprattutto di ciò che è obbligata in qualsivoglia modo a diventare, se intende sopravvivere. Jaki Elkann l’aveva già detto diverse volte, ma tra il dire e il fare ci sono di mezzo tutti i numerosissimi matrimoni internazionali falliti dalla Fiat in passato. Questa volta si fa sul serio, ed è bene così. Si potrebbe parlare di paradossale rivincita della posizione umbertina su quella dell’Avvocato, come in fondo da Umberto venne l’indicazione di Marchionne nel 2004. Ma sarebbe pura letteratura fiattista, quella in cui eccellono Castronovo e Berta. In realtà, l’esplosione dei mercati dell’auto è una delle più benefiche conseguenze della crisi finanziaria, perché ha mandato al pettine d’un colpo tutti i nodi che nell’ultimo decennio i giganti dell’auto -soprattutto americani – tentavano di eludere. E’ questo, a rendere del tutto diversa la situazione, e dunque fuori luogo anche ogni riferimento al passato torinese.
Proprio per questo, la consapevolezza di dover fare di necessità virtù a Torino poteva essere condivisa solo da un controllo societario estraneo alla vecchia generazione, e perseguita e realizzata da un capoazienda che la Fiat l’ha rimessa in piedi dal fallimento in cui versava proprio perché geneticamente altro e diverso, dalla precedente tradizione subalpina. Un anno e mezzo fa misi al lavoro una giovane giornalista del giornale che allora dirigevo a un libro che resta ancor oggi la miglior guida interpretativa (insieme a quello del professor Giuseppe Volpato, edito dal Mulino la scorsa estate) per comprendere che cosa davvero abbia fatto nei primi 4 anni a Torino Marchionne, al di là dell’agiografia mediatica. Si intitolava appunto “Il rebus Marchionne”. Davamo atto a Mr. Pullover, numeri alla mano, di aver realizzato nei primi tre anni gli obiettivi di recupero efficienza e utili annunciati per il quarto. Ma concludevamo con un giudizio e una domanda. Il giudizio era relativo al fatto che i piani al 2010-11 risultavano, nelle date e allora prevedibili condizioni di mercato, non alla portata dell’azienda (soprattutto per i marchi Alfa e Lancia, di cui si ipotizzava più del raddoppio dei volumi con oltre 300mila veicoli a testa l’anno). Lo slogan marchionnesco, “in 5 anni ciò che Toyota ha fatto in 50”, era attuato e credibile per la miglior efficienza del management e degli impianti, ma non poteva funzionare a fronte di un’intensità di capitale in ricerca per unità prodotta drammaticamente sottodimensionata, rispetto a quella dei maggiori concorrenti (FGA ha investito tra 2002 e 2006 poco più di 11 miliardi, i francesi di PSA 22, Daimler 25, Renault 26, Nissan 32, Volswagen 46, Toyota 73). La domanda, di conseguenza, era rivolta agli azionisti. O un matrimonio con un partner complementare e forte, accettando il ridimensionamento sia pur portando in dote motori e cambi avanzati e una ricca panoplia di alleanze già operanti nei diversi segmenti, da Ford a Psa a Tata. Oppure uno “spacchettamento” della conglomerata, separando l’auto da camion, veicoli industriali e agricoli, per liberare valore e aumentare la leva possibile dei finanziamenti da chiedere al mercato per crescere.
La crisi mondiale è come dicevo benefica, perché mette l’intero settore dell’auto di fronte a interrogativi che prima gravavano solo su Fiat. Ma la proprietà intanto una risposta l’ha data, accettando di mettersi in gioco in un matrimonio con un partner debole ma che rappresenta l’accesso diretto al mercato Usa, e che consente di avere tutt’altre credenziali dal passato per aggregare anche ciò che più serve, cioè partner credibili in Cina e Russia (il peggior fallimento internazionale di Marchionne, purtroppo, sta in quei due mercati decisivi), nonché rafforzamenti in Europa e Sudamerica (per questo servono gli asset che GM potrebbe dismettere, tra Vauxhall e Opel come in Brasile dove Fiat è leader, e per fortuna che il Brasile di Lula regge alla crisi visto che in questi anni l’utile auto di Fiat viene al 90 e più per cento solo dal Brasile e dalla Polonia, gli unici stabilimenti del gruppo torinese che in questi anni sono andati in over capacità produttiva, con margini altissimi).
Nessuno è in grado di dire oggi a quali condizioni societarie avverrà un domani la “salita” di Fiat al 35% di Chrysler, perché ciò comporterà denari da investire che oggi la Fiat non ha (più 6 che 5 miliardi di debiti finanziari, più di 7 miliardi di debito obbligazionario, da poche settimane degradato al rango di junk bond). Ma quei denari potrebbero venire davvero, non solo dal governo e da primarie banche Usa oltre che italiane, se entro i primi 9-12 mesi Washington e i mercati vedranno che il tornado Marchionne si produrrà in Chrysler come ha beneficamente funzionato a Torino.
Di incognite ce ne sono moltissime. Mi limito ad elencarne alcune, tra quelle che mi sembrano maggiori. Il mondo degli analisti per esempio è diviso sulla “natura” della crisi in corso. Gli ottimisti a oltranza ritengono che si tratti di una pura crisi della domanda, effetto del piantarsi drastico dei consumi a causa dello spavento
ingenerato dalla crisi finanziaria e bancaria. Basterà che i governi varino iper rottamazioni incentivate in Europa – come puntualmente avvenuto in Germania, Italia, Francia, UK ecc -e magari stanghino di tasse alla pompa gli americani per indurli a “comprare verde”, ed ecco che i volumi torneranno tali da poter consentire a ciascuno il suo, senza necessità di grandi rivoluzioni. Non sono di questa idea. La crisi è salutare perché mette alla frusta il settore dell’auto mondiale dal versante dell’offerta: la sovraccapacità produttiva nell’ordine del 30% è figlia di un quindicennio di rinvii di scelte necessarie, poiché tranne la Gran Bretagna nessun grande Paese avanzato ha voluto rinunciare al suo o ai suoi campioni nazionali dell’auto, senza mai imboccare un’ottica davvero globale (Renault-Nissan è stata l’eccezione, grazie a Goshn), con la scusa che l’auto resta “strategica” e ogni occupato in fabbrica se ne porta dietro altri sei nell’indotto. L’auto, in realtà, è un settore a tecnologia matura assai meno decisivo dell’ICT o dell’energia, e quei ragionamenti sono solo comprova di come politici e regolatori ragionino con la testa rivolta all’indietro, e manager e proprietà siano lesti nel saperne approfittare.
Se la crisi è dell’offerta – e dunque l’America deve accettare di incidere in profondità, come sta facendo a spese del contribuente, i suoi tre giganti malati – è pur vero che nessuno è in grado di dire davvero oggi quali saranno le modifiche “strutturali” della domanda, una volta che si esca dal puro terrore ribassista in materia di redditi disponibili dei consumatori. Su questo capitolo gravano molti equivoci, quanto a lettura della futura domanda di veicoli nel mercato Usa, come negli altri avanzati. Solo degli sciocchi possono credere che la 500 si venda a centinaia di migliaia di unità nell’America profonda o nel Nordovest (idem dicasi per le Alfa, al di là di qualche migliaio per amatori). Una delle tre condizioni sottoscritte da Marchionne come test del successo verificabile in progressione, per consentire a Torino di giungere domani al controllo industriale di Chrysler (quello di fatto, resterà per chissà quanto ai sindacati, che oggi ragionano, ma un domani che la domanda riparta, auguri) è di produrre entro il 2012 una vettura che faccia 40 miglia a gallone, 16,5 km a litro. Si può fare benissimo, già oggi qui in Europa siamo pieni di auto che consumano meno. Ma il punto è che quella da produrre in Chrysler dovrà essere una vettura “americana e per gli americani” a tutti gli effetti, non una 500 superfetata. E quanto a Daimler e BMW, saranno le loro berline di lusso a continuare ad attirare volumi crescenti di ricchi russi e cinesi, così come VW è il gruppo che meglio in questi anni ha saputo giocare a livello mondiale la complementarietà di ben 7 marchi diversi.
Marchionne lo sa benissimo. E del resto all’accordo c’è potuto arrivare proprio perché era l’unico capoazienda dell’auto al mondo più canadese e americano che del proprio Paese d’origine, e insieme perché la nazione su cui insiste Fiat è, paradossalmente, la meno “ingombrante” agli occhi Usa rispetto alla tetragona Germania o all’infida ma velleitaria Francia. La relativa debolezza dell’Italia ha aiutato il deal, invece di ostacolarlo. Oltre alla memoria del terribile errore compiuto da Gm pagando 2 miliardi per non esercitare l’opzione su Torino negoziata da Fresco.
Marchionne se ne sarebbe andato, se non fosse scoppiata la crisi che gli ha prima impedito di lasciare Torino per UBS, e poi sempre la crisi non gli avesse fatto balenare quella che oggettivamente è l’occasione della vita. Per gli eredi Agnelli, in termini machiavellici è una fortuna assai superiore alla virtù. Una fortuna da alimentare con preghiere incessanti a Numi dell’Olimpo, e con la necessità di iniziare rapidamente a pensare a nuovi mezzi finanziari per il balzo mondiale, ben superiori al miliardo di euro che Exor ha in cassa, e che del resto non intende convogliare nell’auto. Senza adeguate risorse per crescere, si rischia di ripetere l’errore dei successori di Caracalla. Si affidarono solo all’alea delle legioni, e furono 70 anni di terribile anarchia, fino a Diocleziano.

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6 Responses

  1. piero

    Piccola critica, che mi permetto: va bene il grigio (come colore del testo), ma se così chiaro, associato ad un carattere così piccolo e ad articoli lunghi si fa davvero fatica a leggere

  2. Paolo B.

    Un errore compiuto in questa operazione è la mancanza di una adeguata solidità finanziaria da parte di fiat, proprio per poter fare quel balzo mondiale di cui lei parla.
    Evidentemente la società pensa di guadagnare nel lungo periodo. Ma se i modelli della casa torinese rimangono poco appetibili o persino inconciliabili con lo stile USA la faccenda si complica, non crede?
    Rimarebbe solo la partnership tecnologica sui motori a minor consumo e rispetto ambientale. Bastera?E il know how è adeguato?
    La soluzione sta davvero nella rivoluzione verde o bisogna ancora andare avanti ad incentivi temporanei per risollevare il settore?.
    Finora la vera rivoluzione in questa operazione è un ritorno ad un modello di economia socialista, basti osservare il peso sindacale nell’accordo. Come può allora la fiat uscirne vincente??.
    Paolo B.

  3. Rino P.

    Quoto per intero l’intervento dell’amico Paolo B. e mi verrebbe da aggiungere altro in tema di svolta socialista dell’amministrazione Obama. Tempi bui… molto bui…

    Una richiesta all’amministratore di sistema: si potrebbe avere un pulsantino di stampa in fondo alla pagina? Grazie.

  4. Paolo B.

    Nel 2010 il fondo monetario internazionale prevede una ripresa dell’economia trainata da America e Cina. Ovviamente con tutte le dovute cautale.
    Il problema è che una ripresa senza crescita è come un abito sartoriale senza le cuciture e quegli accorgimanti artigianali che lo rendono unico e funzionale.
    Questo è il rischio per l’Europa e in particolare per l’italia;Qualche osservatore parla di analogia col Giappone, il quale dopo una lunga fase di depressione-deflazione degli anni 90 fu caratterizzato da un ristagno della sua economia.
    Infatti nonostante il peggio passò la crescita, resa difficile da un invecchiamento demografico e un elevato debito pubblico, divenne una chimera.
    Sostanzialmente sembrerebbe che il destino nostro e anche europeo sia quello di rimanere bloccati nella decrescita ,che al massimo può rallentare.
    Io credo però la realtà di ogni paese sia particolare, nel senso che la crisi non è uguale per tutte e di conseguenza anche le ricette. Secondo voi l’aumento massiccio della spesa pubblica per il rilancio dei consumi è la soluzione per il veccihio continente?

  5. simone bellandi

    Alla gratitudine e ai complimenti vorrei aggiungere un modesto contributo invitandovi come ha suggerito il primo post ad un ritocco al corpo del carattere o al punto di grigio… comunque son dettagli. stringeremo un po’ gli occhi.
    Buon lavoro e grazie!!!
    Simone

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