Favole & Numeri
Troppe favole e pochi numeri. Il titolo dell’ultimo libro di Alberto Bisin contiene un riferimento esplicito sia alla malattia italiana, sia agli anticorpi necessari a riscattare questo paese di “santi, poeti e navigatori” e riportarlo sul sentiero della crescita economica. Favole e numeri, appunto, di cui IBL organizza domani la presentazione, assieme agli Studenti Bocconiani Liberali – Milton Friedman Society.
Il libro è un tentativo di spiegare l’economia ai non economisti, attraverso le grandi questioni dell’agenda economica e politica di oggi. Il grande tema è quello del rapporto tra lo Stato e il mercato – e come lo studio dell’economia può aiutare a ridefinirlo continuamente. Forzando un po’, mi viene da dire che il volume è lo svolgimento proposto da Alberto per una delle tracce della maturità: e mi chiedo come l’avrebbero affrontata gli studenti, se avessero prima letto questo saggio!
Il libro si articola attraverso quattro grandi capitoli dedicati ciascuno a una favola molto gettonata nel dibattito pubblico italiano: il ruolo del mercato e dei prezzi (e il “vero valore” delle cose), banche e finanza, Stato e finanza, e lavoro, produttività e welfare. In ciascuno di essi, Bisin prende di petto argomenti tanto comuni quanto fallaci. Lo fa con piglio divulgativo e didattico, mischiando riferimenti alla teoria – che fornisce l’impalcatura intellettuale per comprendere il mondo che ci circonda – a una serie di casi studio, o di “falsi miti”, utilizzati sia come pretesto per illustrare un approccio logico più generale, sia con l’obiettivo di smontare alcuni tra i cavalli di Troia più tenaci del declino italiano. Si passa, così, dalla “privatizzazione” dell’acqua all’uscita dall’euro, dalle banche al precariato, dalle fondazioni bancarie alle frecciate a Mario Draghi (avrei voluto dilungarmi di più sul punto ma Alberto ne discute in modo assai esplicito con Andrea Moro, qui).
La parte secondo me più interessante del libro è quella dedicata al rapporto delicato tra la finanza, le banche e la crisi (italiana e globale). La lettura di questo capitolo dovrebbe essere resa obbligatoria a chiunque si prepari a partecipare a un dibattito TV sul tema perché, qualunque cosa si pensi e qualunque tesi si intenda sostenere, è importante capire quale peso abbia avuto, sullo svolgersi degli eventi, l’enorme quantità di azzardo morale creato ora dalle banche centrali, ora dai governi, ora dalle organizzazioni internazionali. Bisin è estremamente chirurgico ed efficace nello spiegare che, in retrospettiva, i maggiori problemi – politici, e quindi economici – sono derivati dall’orrore per la parola “fallimento”, che esso riguardasse banche “too big to fail” oppure, a maggior ragione, che si applicasse a paesi come la Grecia. In entrambi i casi siamo arrivati, di fatto, a forme di fallimento più o meno controllate, ma lo abbiamo fatto rimandando a oltranza, e cercando di nascondere retoricamente la realtà, col risultato di aver contemporaneamente aumentato i costi dei default e aver impedito la comprensione dei fatti da parte del pubblico. Questo deficit di comprensione si è tradotto sovente nel supporto pubblico a politiche che, lungi dall’alleviare il male, lo aggravavano, in un circolo vizioso apparentemente senza fine. In questa categoria ricade anche la polemica, in buona parte sterile assai, sui presunti benefici dell’uscita dall’euro: il ritorno alla lira, probabilmente nelle intenzioni dei suoi proponenti e senza dubbio nelle sue conseguenze, sarebbe appunto l’equivalente di un fallimento, da tutti i punti di vista pratici. Bisin lo discute sia prendendo in esame la versione più seria della tesi (affidata alla voce di Alberto Bagnai) sia a quella più, come dire, fantasiosa. Non perdetevi, a questo proposito, la nota su Loretta Napoleoni.
Altrettanto interessante è la difesa della “speculazione”, la discussione sul concetto di austerità, la questione del difficile rapporto tra l’Italia, l’Europa e la Germania e, naturalmente, la ricostruzione della crisi del debito in salsa italiana. Il libro offre anche due strumenti di enorme utilità: una bibliografia ragionata e una “mappa” delle favole e dei numeri affrontati nel volume. Ho lasciato per ultimo l’aspetto più importante del volume perché voglio approfittarne per una piccola polemica: stima e rispetto si dimostrano così.
L’obiettivo dichiarato di Alberto è mettere le lenti dell’economista a disposizione del lettore – in particolare di un lettore immaginato privo di cultura economica e scientifica, come si conviene a santi, poeti e navigatori (oddio, i santi non saprei, ma poeti e navigatori con la matematica hanno abbastanza a che fare!). Il messaggio fondamentale che Bisin intende trasmettere è che l’economia non è una tesi: è, soprattutto, un metodo. Gli economisti possono avere interpretazioni diverse (anzi, hanno interpretazioni diverse) di molti fatti, ma condividono il linguaggio (gli strumenti) con cui li affrontano. Un grosso problema del dibattito pubblico italiano consiste nel fatto che buona parte della discussione su temi economici si svolge in una lingua diversa. E poiché le parole sono importanti, condividere alfabeto, grammatica, sintassi e lessico è essenziale per evitare un dialogo tra sordi alla fine del quale ci si raduna per parrocchie – perché è l’unica cosa razionale da fare. Le parole, nel caso dell’economia, hanno spesso la forma dei numeri:
la disciplina progredisce nel tempo, man mano che i modelli sono confrontati coi dati e man mano che nuovi modelli e nuovi dati sono prodotti e studiati.
Questo punto è molto rilevante rispetto a quanto sto per dire, ma vorrei sottolineare in ogni modo un aspetto centrale: i numeri non possono mai confermare una teoria (o un modello); possono solo smentirla. Quando diciamo che “l’evidenza empirica supporta la tesi x”, intendiamo dire “le osservazioni che sono state fatte di un dato fenomeno non sono incompatibili con la tale spiegazione”.
Nell’argomentare questo punto, che è in larga parte condivisibile, Bisin enfatizza però due passaggi che, a mio avviso, sono invece discutibili.
Il primo è quello, invero complesso, del rapporto tra l’ideologia e gli studi degli economisti. Alberto ha senza dubbio ragione nello squalificare come ridicola l’immagine del dibattito tra economisti come di una sorta di campionato di calcio tra le cosiddette “scuole”: keynesiani contro montaristi, austriaci contro neo-ricardiani, ecc.:
L’economia è un metodo in buona sostanza comune, ma con diversi modelli… le ‘scuole alternative’… hanno fallito; un po’ come hanno fallito le trasfusioni (magari con le sanguisughe) come approccio alla cura dei tumori. Ed esattamente come le trasfusioni alcune di queste scuole alternative sono state a un certo punto dominanti: certamente lo è stata l’economia keynesiana dal dopoguerra fino agli anni Settanta e il marxismo prima… un po’ meno l’approccio sraffiano e quello austriaco, che comunque hanno avuto un impatto importante nella disciplina, rispettivamente, negli anni Ottanta e dagli Trenta fino al dopoguerra.
Dove non mi convince questo ragionamento? Essenzialmente, nell’idea sottostante che l’economia (o, se è per questo, le scienze dure) proceda in modo più o meno corale verso una progressiva, e tutto sommato condivisa, maggiore conoscenza del reale, del tutto libera da qualunque condizionamento ideologico. La realtà è che l’ideologia (ossia, i valori) conta eccome, anche nel lavoro degli economisti: sia perché li indirizza verso questo o quel campo di studio, sia perché – data l’esigenza di riempire i modelli con dati che quasi mai sono esattamente quello di cui avresti bisogno – può spingere a enfatizzare un aspetto piuttosto che l’altro. Non c’è niente di male in questo, e il grado di sviluppo della disciplina consente di eliminare rapidamente i tentativi pacchiani di cucinare i dati. Ma da qui a immaginare l’economista come un individuo del tutto privo di giudizi di valore, o capace di tenerli rigorosamente fuori dalla porta dell’ufficio, ce ne passa. Astrattamente, Alberto ha ragione: l’economia è lo studio dei mezzi attraverso cui gli uomini agiscono, e i mezzi non hanno colore. Ma, nella pratica, il legame tra mezzi e fini è assai più stretto di quanto possa apparire (pensiamo all’annosa questione tra efficienza ed equità). Non per niente, Larry White ha deciso di intitolare la sua storia del pensiero economico The Clash of Economic Ideas: scontro tra idee, puro e semplice.
L’altra questione non del tutto convincente è strettamente collegata e questa, e riguarda la troppa fretta con cui Alberto liquida il contributo degli austriaci. Intendiamoci: Bisin ha in mente atteggiamenti che a volte ricordano quelli di una chiesa, con gli austriaci chiusi nel loro bel mausoleo a chiedersi cosa avrebbe detto Hayek del governo Letta o Mises del fiscal compact. Nella migliore delle ipotesi, questo è un mestiere da storici del pensiero economico, non da economisti (per quel che riguarda la peggiore delle ipotesi, faccio mio il posto di Pietro Monsurrò sull’austro-masochismo). Tuttavia, il pensiero, o il metodo, o l’approccio austriaco (non la “scuola”) ha avuto un ruolo fondamentale anche dopo gli anni Trenta. Basti pensare al modo in cui Hayek ha rivoluzionato intere branche dell’economia e permesso l’apertura di nuovi campi di studio. Fatico a immaginare la New Institutional Economics, l’economia comportamentale, la transaction costs economics, ecc. senza Hayek (sul suo contributo alla moderna macroeconomia si veda qui). Non male per un economista defunto.
Alberto ha però ragione su un punto, e qui mi riconcilio pienamente con lui: gli austriaci hanno contribuito e contribuiscono alla disciplina non in quanto “scuola”, ma in quanto individui; e hanno successo non quando aggiungono un mattoncino alla loro perfettamente coerente costruzione logica, ma quando si meticciano con gli altri (con le altre “scuole”), prendendo e offrendo in un continuo scambio di idee, di conoscenza, di approfondimento, di visioni e – sì – di valori.
Insomma, non esistono le “scuole” intese come squadre dove ciascuno ha la sua brava maglietta, esistono individui che contribuiscono alla disciplina offrendo nuovi argomenti, punti di vista, interrogativi, problemi. E lo fanno muovendo da prospettive che possono essere anche molto diverse tra di loro: quando devo ragionare sulla regolamentazione delle reti elettriche, sono costretto a mettere assieme un biologo “di sinistra” come Garrett Hardin, un eclettico come Ronald Coase, una scienziata politica come Elinor Ostrom, un austriaco come Friedrich Hayek, un solido uomo-MIT come Paul Joskow, e temperare tutti quanti coi caveat di un Chicagoan come Sam Peltzman. A quale scuola appartiene quello che ne viene fuori? La mia prima risposta è “boh”, la seconda è “chissenefrega”.
E nella certezza che anche Alberto Bisin condivida questo “chissenefrega”, chiudo la recensione e suggerisco caldamente a tutti di acquistare, leggere e meditare il libro, con la speranza che possa lasciarsi alle spalle un’Italia con qualche numero in più e qualche favola in meno rispetto a quella che ha trovato.
I liberisti si devono rassegnare, la crisi è figlia delle loro idee; è ora di cambiare.
C’è chi osserva il mondo e tenta d’interpretarlo e chi ha certezze assolute, chi cerca di spiegare le cose e chi interviene per il gusto di dire la sua, a priori, giusto per farsi notare. Stagnaro appartiene alla prima categoria, l’anonimo Spartaco alla seconda
Peggio: Spartaco incrocia quelli che lui decide siano i difetti con quelli che lui decide siano i nemici. Gli economisti liberisti, in Italia soprattutto ma in quasi tutto il mondo in crisi, hanno un alibi di ferro: hanno sempre contato meno del due di coppe quando regna spade
A dire il vero, i poeti non si occupano di matematica, i navigatori invece sì.
“Il libro è un tentativo di spiegare l’economia ai non economisti”………..
………………….
regressio ad infinitum… chi insegna economia ad economisti ? osservazione empirica ? come si fa ad isolare nessi causa effetto da rumore ?
come si fa a decidere, ammesso e nn concesso di risolvere punti di cui sopra, se è meglio effetto A o B ? lo decide il mercato del più forte o del più bravo ? la politica del più forte o del più bravo ? le lobby economiche sopra la politica ?
per questa ineliminabile vaghità essi litigano da sempre..
In fede
Quant
PS: matematica è giudizio sintetico a-priori nn appreso da esperienza eppur certo (Kant).. poi arrivò demo principio di indeterminazione (Godel)