Fatti reali e miti keynesiani – 1
Si fa un gran parlare della Grande Depressione, la crisi che, iniziata nel 1929, finì solo nel 1941, quando si iniziò a paracadutare l’esercito di disoccupati ancora esistente sulle spiagge di Iwo Jima (come dice sempre un mio amico, anche se Iwo Jima fu invasa nel 1945 e senza paracadutisti).
La storia economica della Grande Depressione è ancora aperta, tant’è che l’ultimo paper rilevante di cui sono a conoscenza è del 2009 [1]. A distanza di ottanta anni dall’inizio della crisi, e di settanta dalla sua conclusione, quindi, non esiste ancora una versione certa di ciò che accadde, e una spiegazione definitiva delle cause e delle conseguenze della crisi. Ciononostante, esistono una serie di “fatti”, e tutta una serie di miti, di cui discutere.
I fatti (più alcune interpretazioni, che riempiono i buchi dove i fatti non sono evidenti) si trovano più o meno tutti su “A monetary history of the United States” di Friedman e Schwartz.
La Fed fu fondata nel 1913 e si impegnò subito a finanziare la Prima Guerra Mondiale, creando un’inflazione notevole (i prezzi salirono del 150%). La fine della guerra coincise con una rapida ma profonda crisi, iniziata nel 1920, e in un anno e mezzo la produzione calò di un terzo (per poi risalire subito dopo) e i prezzi scesero del 40% (per poi rimanere costanti). In pratica, la crisi del 1920 rimosse quasi tutte le distorsioni monetarie ed economiche provocate dalla guerra mondiale, e durò molto poco, anche se fu profonda. Fossero tutte così, la teoria delle crisi economiche non sarebbe poi così importante.
Nei successivi dieci anni non parve succedere nulla di interessante. I prezzi erano stabili e la produzione saliva rapidamente, anche grazie all’innovazione tecnologica (radio, automobili…). Gli economisti – come Irving Fisher – che ritenevano che la stabilità dei prezzi avesse qualcosa a che fare con la stabilità economica pensavano che tutto andasse per il meglio. I Roaring ’20s però avevano due problemi, di cui il primo oggettivamente verificabile: il sistema bancario divenne più fragile, e l’economia iniziò processi di produzione insostenibili. La Fed, salvando le banche dalle conseguenze della loro sovra-espansione, stimolò una riduzione delle riserve monetarie che aumentò la fragilità del sistema bancario agli shock (come notato da Friedman e Schwartz), inoltre (come sostengono gli austriaci) ogni boom generato dalla creazione di credito è destinato a collassare perché il credito è considerato una forma di risparmi reali, ma i risparmi reali si ottengono solo riducendo i consumi (cosa che nel boom non accade). Ora, l’instabilità non è un fatto ma una ricostruzione: la calma degli anni ’20, comunque, si rivelò completamente infondata.
Negli anni ’20 la Fed intervenne ripetutamente per impedire le recessioni: nel 1921, nel 1924, nel 1927 tagliò i tassi e aumentò il credito per aiutare l’economia a superare crisi momentanee, e ogni volta l’economia riprese rapidamente a crescere. Soltanto nel 1927 si venne a creare una doppia bolla, azionaria e immobiliare, che indicava che il credito elargito dalla Fed (per gli austriaci) e il moral hazard creato dalla garanzia del suo intervento (che era un sussidio per le banche a comportarsi scriteriatamente) andava a finire sempre di più verso attività fondamentalmente tossiche e prive di utilità economica.
Qualsiasi riferimento al lungo periodo di calma che viene chiamato “Great Moderation”, dal 1987 (inizio era Greenspan) al 2007 è puramente voluto. La simmetria delle due situazioni è perfetta, e la crisi del 1920 è da considerarsi una disinflazione tanto quanto la cura Volcker, mentre le crisi e gli interventi successivi seguono la stessa logica degli interventi di Greenspan, e la stabilità dei prezzi è stata in entrambe i casi considerata la prova della stabilità del sistema economico.
Nel 1929, come nel 2007, il sistema economico aveva già diverse criticità: il boom insostenibile durava da anni, le bolle speculative erano già enormi, e l’unica cosa che pareva andare bene era l’innovazione tecnologica, che aiutava a tenere i prezzi bassi, e i macroeconomisti tranquilli (non gli austriaci, però).
Le due storie divergono però a partire dall’inizio della crisi. E qui quindi ci fermiamo (per oggi), prima di capire cosa successe dopo il 1929 negli USA: per capire, cioè, le straordinarie responsabilità di due incompetenti patentati come Hoover e Roosevelt, i due responsabili della durata e della gravità della Grande Depressione, senza i quali non sarebbe successo nulla di rilevante sul piano economico negli anni ’30.
Finora abbiamo un parallelo pressoché perfetto: inflazione, disinflazione, calma piatta, interventi anticiclici ripetitivi, e collasso finale. Manca il collasso finale, però, che si ebbe nel 1929 (e anni seguenti) e non (ancora, perlomeno) al giorno d’oggi. Alla prossima.
[1] Ohanian, Lee E., 2009. “What – or who – started the great depression?,” Journal of Economic Theory, Elsevier, vol. 144(6), pages 2310-2335, November
PS Se vi ho fatto venire l’ansia, vi do uno spoiler: è improbabile che ci sarà una Grande Depressione. State tranquilli, è più probabile giapponesizzarsi.
Ieri è stato messo in rete questo bellissimo saggio, che potrebbe servire come progetto pilota (ma sperimentato) per chi è sul versante della spesa pubblica quale variabile per invertire la depressione economica rispetto a chi vorrebbe un maggior rigore sui conti pubblici.
http://www.businessinsider.com/lessons-on-how-stimulus-and-jobs-programs-failed-in-eastern-germany-2010-7
Quello che emerge chiaramente è che quando un ciclo ha preso corpo nella pluralità di comportamenti economicamente dannosi per una determinata area è difficilissimo invertire la tendenza. Probabilmente servono diverse generazioni. Ed è ancor più probabile che oggi con la globalizzazione il compito sia ancor più gravoso.
Come se giapponesizzarsi fosse una cosa da poco, in Italia molte cose in comune coi nipponici le abbiamo già…
Bellissimo articolo comunque, aspetto con ansia la seconda parte.
Interessante l’articolo.
@Eonia: è vero. Però il parallelismo tra il gap non ancora colmato tra le due Germanie e la globalizzazione, forse, ha troppi aspetti differenti:due realtà che passano sotto la stessa Costituzione, nonchè moneta, contro la moltitudine di realtà produttive interagenti (specifica realtà socio-economica; demografica; normative interne e tra Stati).
Tutto sommato, a mio insignificante parere, credo che “la lenta inversione di tendenza” non sia altro che un riequilibrio, differente per ogni caso e perdurante in funzione del gap stesso.
@Pietro: di certo, in comune con il Giappone non abbiamo la stessa quota di DP USA e la realtà immobiliare…Forse non due “cosine”…
Grazie per le letture!
@michele penzani
L’ultima mia frase è da leggersi: “l’economia occidentale potrebbe fare come il Giappone, ma non ci sarà una Grande Depressione”, non mi riferivo all’economia italiana o europea, ma alle economie di tutti i paesi sviluppati in generale, senza fare grandi distinzioni.
Sul piano del debito privato, l’Italia starà pure messa meglio, ma abbiamo debiti pubblici da record e una buona dote di debiti pubblici off-balance (unfunded), cosa che ci accomuna a tutti gli altri paesi occidentali, chi più chi meno.
E non abbiamo avuto un crollo dell’immobiliare, i prezzi sono rimasti alti e non ci sono state foreclosure in massa. Il che, per chi vuole comprare casa, non è una buona notizia, ma a parte gli scherzi, il problema è semplicemente che le nostre banche non hanno creato credito freneticamente e irresponsabilmente come negli USA, in Spagna, in Irlanda e in Inghilterra.
Ciononostante, vedo la situazione a livello generale, nonostante le differenze: tanto, se per caso gli USA dovessero giapponesizzarsi, addio crescita anche in Europa. Noi, rispetto agli altir, l’addio alla crescita l’abbiamo dato vent’anni fa.