4
Lug
2010

Fatti reali e miti keynesiani – 2

Arrivati al 1929 (o al 2007, a seconda dei gusti) ci si accorse che l’economia sta rallentando, e addirittura (dopo qualche mese di difficoltà economiche) ci fu un crollo delle Borse.

Qui le strade della Grande Depressione e del Great Deleveraging odierno divergono radicalmente: parleremo quindi solo della prima.
Nel 1929 c’è Hoover alla Casa Bianca, che secondo la vulgata keynesiana era un liberista e non fece nulla per alleviare la crisi: se fosse stato così, la Grande Depressione non ci sarebbe mai stata.

Cominciamo col dire che i lavori sulla Grande Depressione sono un’infinità. Alcuni dicono che fu colpa della rigidità dei prezzi che tende spontaneamente a rendere impossibile un equilibrio di piena occupazione [1]; altri che fu la deflazione causata dalla Fed spaventata dalle bolle speculative che si erano formate alla fine degli anni ’20 [2]; altri che non è la deflazione in sé (nel 1920 i prezzi crollarono del 40% ma non ci fu alcuna depressione), ma la deflazione che avviene in un periodo di elevato indebitamento e leverage [3]; poi c’è chi dà la colpa principalmente alla distruzione di credito, e qui abbiamo sia austriaci [4] che “neo-keynesiani” [5]; infine, abbiamo una lunga serie di lavori, sia austriaci [6-7] che neoclassici [8-9] che puntano il dito sulle rigidità dei prezzi indotte dalle politiche pubbliche.

Partiamo da un’economia senza grosse rigidità dei prezzi, che è arrivata al punto di avere un forte indebitamento (fragilità sistemica) e un sistema economico caratterizzato da un eccesso dei consumi rispetto a ciò che serve a sostenere l’impianto produttivo. In questo caso, la crisi è inevitabile, la produzione va riformata, la finanza ristrutturata, e ci sarà una forte deflazione, soprattutto degli asset finanziari. Fin qui, però, abbiamo il 1920, non il 1929: abbiamo una crisi da insostenibilità strutturale, come la intendono gli austriaci, senza alcuna complicazione.

Negli anni ’20 però si erano formati eccessi finanziari molto più gravi che nel 1920, e quindi la fragilità sistemica era sicuramente maggiore:  la recessione sarebbe stata necessariamente più grave. Qui Fisher [3] ha ragione: la combinazione di deflazione e indebitamento è un acceleratore della crisi. Lo stesso si può dire della deflazione secondaria di Strigl [4] e la distruzione di capitale informativo degli intermediari di Bernanke [5].

Il problema è che da qui ad arrivare alla Grande Depressione ce ne vuole… è vero che le politiche monetarie degli anni ’20 portarono l’economia in una posizione più fragile di quella che si sarebbe avuta dieci anni prima, esattamente come l’economia nel 2007 era più fragile dell’economia nel 2000 o nel 1990. La domanda è se una cosa del genere può spiegare veramente una crisi tanto prolungata. Non c’è nulla, infatti, in queste spiegazioni, che permette di immaginare una disoccupazione che rimane al 20% per oltre un decennio.

Qui ci sono due problemi da considerare: cosa fece Hoover, e cosa fece Roosevelt.

Hoover spinse gli industriali – e se ne vantò pure in giro, incompetente com’era – a non tagliare i salari, per non far crollare la domanda dei consumatori (i keynesiani sono sempre stati tra noi, non era necessario Keynes [1] per avere queste idee). Alcuni industriali gli dettero pure ragione, come Ford (prova del fatto che per essere grandi imprenditori non serve capire la teoria economia, e viceversa), forse per convinzione, forse perché ad un Presidente non si può dir di no senza rischiare di perdere molto.

Phillips, McManus e Nelson [7] notarono come la percentuale del PIL USA che finì ai lavoratori passò da circa il 60% a oltre l’80% dal 1929 al 1932. I salari nominali, cioè, non diminuivano a sufficienza da compensare la cospicua riduzione dei prezzi provocata dalla crisi finanziaria, che stava distruggendo l’offerta di moneta.

Rothbard [6] spende molte interessanti pagine a descrivere il “New Deal di Hoover” (frase poi ripresa da Ohanian [8]): per Rothbard, Hoover spingeva con la “moral suasion” gli imprenditori a non tagliare i salari, mediante continui incontri e conferenze. Una spiegazione più sofisticata si trova in Ohanian [9], che probabilmente rappresenta quanto di più vicino alla spiegazione convincente si sia riusciti ad ottenere: Hoover promise alle imprese la protezione contro i sindacati in cambio della stabilizzazione dei salari. Grazie a questi trucchetti, fu possibile convincere le imprese a fare cartello, riducendo l’output, garantire salari sovramarginali (al prezzo di una disoccupazione del 20%), e rendere la recessione un fenomeno gravissimo e persistente.

Ovviamente, non si deve dimenticare il protezionismo del 1930, con le tariffe di Smoot e Hawley, anche se non conosco lavori che stimino il contributo di questa idiozia all’aggravamento della situazione economica.

Qui occorre farsi un’idea di cosa significhi per l’economia questa rigidità. In un’economia, parte del reddito va a finire ai lavoratori e parte al capitale. La prima serve a convincere la gente a lavorare, la seconda serve per convincerla a risparmiare e investire, cioè a posticipare i consumi. Se i salari sono troppo elevati, come lo furono dal 1929 al 1941 grazie a Hoover e Roosevelt, ci sarà un eccesso di offerta di lavoratori (disoccupazione), ma ci sarà anche una riduzione della redditività degli investimenti (prima della crisi, si pagava 60$ per vendere a 100$, dopo la crisi, si continuava a pagare 60$ ai lavoratori per vendere a 80$).

Qui abbiamo un feedback positivo bello e buono: gli investimenti scendono e la disoccupazione aumenta, le banche non ricevono indietro i soldi prestati e falliscono, il loro fallimento distrugge offerta di moneta e produce un ulteriore crollo dei prezzi. Il risultato è un equilibrio di sottoproduzione persistente dove banche, imprese e lavoratori stanno male, ma nessuno riesce ad uscire dal circolo vizioso. Delle due l’una: o si tagliano i salari di oltre il 20%, o si aumenta l’offerta di moneta di oltre il 20%). La prima soluzione è fastidiosa per i sindacati, la seconda genera molte distorsioni economiche aggiuntive ed è pericolosa per la stabilità economica.

A questo punto, rimane da chiedersi cosa fece Roosevelt: la risposta è facile, in quanto Roosevelt non si limitò che a istituzionalizzare e perpetuare ciò che Hoover aveva già fatto [9], perpetuando quindi un’economia inefficiente, cartellizzata, sindacalizzata, con un sistema dei prezzi non sostenibile e risorse sprecate di ogni tipo (disoccupazione compresa).

La Grande Depressione non finì nel 1933: nel 1933 ci fu solo la stabilizzazione degli aggregati monetari, con la fine della serie di crisi bancarie che dal 1929 al 1932 avevano colpito l’economia americana circa una volta l’anno. La disoccupazione calò solo con la Seconda Guerra Mondiale, e l’economia americana si riprese decentemente grazie alle liberalizzazioni post-belliche.

La Grande Depressione è un fenomeno storico sopravvalutato: se ne parla sempre, ma le condizioni per riaverne una sono così eccezionali che basta poco per evitarla. Sarebbe bastato tagliare i salari nominali in linea con i prezzi, o meglio ridurre i salari reali di poco, per evitare una crisi interminabile. Ci sarebbe stata solo una profonda recessione, peggiore di quella del 1920, peggiore di quella del 1980, ma nulla di più che una crisi one-shot, di durata relativamente breve, dopo cui l’economia si sarebbe ripresa senza problemi, come è sempre successo.

La Grande Depressione fu una grande sconfitta per i lavoratori, per le imprese, per i consumatori, per le banche, per i liberali e la libertà economica, per il liberalismo americano e mondiale. Fu però il trionfo dei politici di Washington, della Federal Reserve, delle imprese cartellizzate e dei sindacati organizzati: il più grande disastro della storia economica USA fu il più grande trionfo di coloro che lo causarono.

Riferimenti

[1] Keynes, J. M., 1936, “The general theory of employment, interest and money”

[2] Friedman, M, Schwartz, A., 1971, “A monetary history of the United States, 1867-1960”

[3] Fisher, I., “The Debt-Deflation Theory of Great Depressions”, Econometrica, Vol. 1, No. 4 (Oct., 1933), pp. 337-357

[4] Strigl, R., 1934, “Capital and production”.

[5] Bernanke, B. S., “Nonmonetary Effects of the Financial Crisis in the Propagation of the Great Depression”, The American Economic Review, Vol. 73, No. 3 (Jun., 1983), pp. 257-276.

[6] Rothbard, M. N., 1963, “America’s Great Depression”

[7] Phillips, C., McManus, Nelson, 1937, “Banking and the business cycle”

[8] Ohanian, Lee E., 2009. “What – or who – started the great depression?,” Journal of Economic Theory, Elsevier, vol. 144(6), pages 2310-2335, November

[9] Harold L. Cole & Lee E. Ohanian, 2004. “New Deal Policies and the Persistence of the Great Depression: A General Equilibrium Analysis,” Journal of Political Economy, University of Chicago Press, vol. 112(4), pages 779-816, August.

5 Responses

  1. “Delle due l’una: o si tagliano i salari di oltre il 20%, o si aumenta l’offerta di moneta di oltre il 20%). La prima soluzione è fastidiosa per i sindacati, la seconda genera molte distorsioni economiche aggiuntive ed è pericolosa per la stabilità economica”

    in fin dei conti, Keynes diceva: i sindacati impediscono una riduzione generalizzata dei salari; lasciando campo libero alle imprese si avrebbe un aggiustamento razionale, ma percepito come fortemente iniquo, perché alcuni settori vedrebbero salari in calo e altri no, o molto meno (differente forza contrattuale dei lavoratori etc etc). emergerebbe una lotta sociale determinata dalla struttura relativa dei salari (perché a me tagliano e a loro no?…). dunque, meglio tagliarli in termini reali a tutti aumentando l’offerta di moneta. finché c’è sovrapproduzione, non c’è pericolo di inflazione e bla bla. quello che è rimasto di keynes (e che krugman ancora difende) credo sia tutto qui: meglio aumentare l’offerta di moneta perché la deflazione colpisce i più deboli contrattualmente. è quello che si continua a fare, in definitiva, impedendo riaggiustamenti strutturali veloci,a anche se dolorosi. non ci sono semplicemente sindacati infastiditi, ci sono famiglie che restano ai margini del benessere all’improvviso.

    le distorsioni dei prezzi relativi nell’industria e nei servizi (e conseguenti bolle) non interessavano a keynes, né a chi oggi si pone il problema di tenuta sociale del capitalismo: ridurre nominalmente i salari a chi già intasca noccioline per rilanciare e riequilibrare l’economia significa far pagare ai deboli gli errori dei forti. se l’inflazione creditizia va evitata (d’accordo al 100%) la deflazione ri-equilibratrice andrebbe resa socialmente accettabile, perché è un sacrificio chiesto principalmente ai dipendenti.

  2. Caber

    volevo fare i mie complimenti a Monsurrò per la straordinaria coppia di articoli da lui scritti su un tema a me caro (fu anche argomento della tesi di laurea)

  3. @w.v.longhi
    Mi sembra illusorio fare una recessione senza perdite salariali, sarebbe come dire che i salari sono indipendenti dalla realtà economica. In una recessione pagano tutti, ma paga soprattutto chi detiene beni capitali, quindi le recessioni sono molto progressive, prova ne é che le disuguaglianze patrimoniali sono procicliche. Allo stesso modo, il boom avvantaggia tutti, anche chi si fa un mutuo al 2% a spese di tutti gli altri, sia che è un neosposino che un grande imprenditore.

    Siccome non c’è modo di conservare posti di lavoro in settori sovraccarichi di capacità produttiva come l’immobiliare, né di rendere economicamente utili investimenti immobiliari finanziati dal credito facile, né di impedire ai salari reali di diminuire quando diventa evidente la distruzione di capitale (dopo essere aumentati troppo nel boom), si può pensare a minimizzare la durata della depressione garantendo la massima flessibilità, minimizzare l’entità della depressione evitando a priori di finanziare boom economici insostenibili, e magari garantire qualche meso di assegno di disoccupazione. Già rifinanziare mutui a tassi vantaggiosi mi sembra pericoloso per l’economia… alla fine se so che non fallirò mai, chi mi impedisce di indebitarmi per il 50% del reddito con un mutuo cinquantennale? Decine di milioni di persone che ragionano così e abbiamo un altro disastro immobiliare.

  4. sono d’accordissimo sulla dannosità degli interventi che cercano di salvare i comparti sovraccarichi e sovradimensionati e la deflazione incentiva gli spostamenti rapidi, anche se dolorosi, dai comparti in crisi a quelli solidi o emergenti. senza possibilità di far vivere sulla pelle dei settori in crisi le loro esagerazioni, non se ne esce. il problema è che la capacità di subire perdite da parte di grossi imprenditori/grandi manager è ben diversa da quella di una famiglia di dipendenti o di piccoli imprenditori. spesso vedo pagare più questi ultimi che non i primi. preferirei un sistema che fa pagare di più i primi e meno gli altri. tutto qui. dovrebbe chiamarsi welfare. ora è solo un baraccone pieno di buchi e orrori. per me il mercato continua ad essere un ottimo regolatore. solo, non riesco a chiudere gli occhi di fronte a certe disgrazie senza colpe (le disgrazie con colpe del disgraziato invece mi fanno incacchiare… col disgraziato). sarò un sentimentale… per il resto, il tuo articolo mi trova, lo ripeto, d’accordo su buona parte delle osservazioni.

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