Fare bene il Bene senza bisogno dello Stato
Le casse pubbliche sono vuote o quasi, il debito pubblico continua a posizionarsi su livelli assai elevati, il fallimento della pubblica amministrazione nell’erogazione dei servizi è evidente, mentre il costo del mantenimento della macchina pubblica è oramai insostenibile. A tutto ciò si accompagna un’altrettanto insostenibile compressione degli spazi di libertà di individui e corpi intermedi. Le motivazioni per riaffidare alla cosiddetta “società civile” il compito di finanziare e gestire un’ampia varietà di servizi di welfare sono oggi più forti che mai.
Il ruolo della filantropia è quello di andare incontro ai bisogni della società. Ma una particolare concezione (onnicomprensiva) dei compiti dello Stato, diffusasi soprattutto nell’Europa continentale, e un certo tipo di capitalismo hanno limitato, nel nostro paese, il ricorso alla filantropia. Storicamente, la premessa per l’azione filantropica di origine privata era quella di avere figure imprenditoriali dotate di grandi patrimoni. A questo si doveva accompagnare anche uno Stato non intenzionato ad andare a occupare tutti gli spazi d’intervento, soffocando in tal modo l’iniziativa privata. Il mondo anglosassone ha visto così emergere una filantropia di origine privata per sostenere i pubblici interessi. Intendendo con filantropia un qualcosa di diverso dalla semplice beneficenza caritatevole: dal momento che la prima ha l’obiettivo di operare in una ottica di lungo periodo e non solo quello di lenire nell’immediato alcuni problemi.
Per i motivi prima richiamati, il bisogno di filantropia è oggi particolarmente forte, ma sono necessari strumenti adatti ai tempi attuali. Da una ventina d’anni si è affacciata una nuova pratica che può rispondere nel modo migliore a tale bisogno: la venture philanthropy o filantropia d’investimento. Per familiarizzare con tale fenomeno è di massima utilità un libretto uscito da pochi mesi: I nuovi orizzonti della filantropia: la venture philanthropy, di Angelo Miglietta e Giovanni Quaglia. Il libro spiega in maniera molto chiara cos’è la venture philanthropy e perché può avere un ruolo importante, soprattutto in questo periodo storico. Uno dei due autori ha inoltre ricoperto un ruolo di primo piano all’interno di una delle prime Fondazioni bancarie ad avere utilizzato le pratiche della venture philanthropy.
La filantropia d’investimento segna infatti una sorta di superamento delle pratiche filantropiche tradizionali, incentrate sul grant-making. Come mostrano gli autori, l’affacciarsi di tale nuova pratica è da rinvenirsi in occasione dell’uscita di un articolo sulla Harvard Business Review alla fine degli anni Novanta: “Virtuous Capital: What Foundations Can Learn from Venture Capitalists”.
L’articolo suggeriva un nuovo tipo di rapporto tra donatore e beneficiario, tra fondazioni e organizzazioni no profit. Nello specifico proponeva nuove modalità di elargizione o meglio la necessità di andare oltre il semplice strumento erogativo: non limitarsi a finanziare i progetti ma contribuire a creare le strutture organizzative che consentano alle organizzazioni beneficiate di garantire qualità e sostenibilità nel tempo dei servizi offerti. Come scrivono Miglietta e Quaglia, “La venture philanthropy richiede un alto grado di coinvolgimento effettivo nell’organizzazione beneficiaria, che implica una partecipazione alle decisioni manageriali, alla progettazione e alla realizzazione delle strategie”.
Ma, in sintesi, quello che si proponeva nell’articolo era espresso già nel titolo: bisognava copiare il modello del venture capital. Le fondazioni cioè dovevano imparare a rapportarsi con le organizzazioni no profit così come il capitale di rischio (venture capital) si rapporta con le aziende in fase di avviamento (startup).
È evidente allora come tutto ciò implichi un cambio di paradigma, sia nell’operato dei “filantropi” che in quello dei soggetti beneficiari, e nel rapporto stesso tra i due.
Nel libro si mette poi in rilievo come di grande importanza diventa il ruolo dell’imprenditoria per dare risposte ai problemi sociali e di come la venture philanthropy sia andata di pari passo con l’affermarsi della social entrepreneurship: l’avvicinamento delle imprese all’ambito sociale e la dimostrazione di come la pubblica utilità possa essere coniugata anche con la creazione di profitti.
Anche rimanendo in una ottica no profit i benefici di questo approccio possono essere però ampi. Soprattutto se l’orizzonte è quello di un ripensamento del welfare state, che preveda il superamento del “pubblico” come produttore di servizi. La venture philanthropy fornisce infatti capitale di rischio e capacità manageriali alle attività tese alla produzione di servizi sociali, per potere fare “bene il Bene”.
Problema delicato e pure di difficile assimilazione, si segue fino ad un certo punto e la prima impressione sembra che l’obiettivo sia particolarmente arduo quanto la quadratura del cerchio. Ma forse tutto dipende dalla novità inusuale dell’idea che va prima studiata e poi meditata a lungo.