Far crescere l’Italia per far crescere la cultura
Articolo scritto da Filippo Cavazzoni e Luca Nannipieri
“La cultura per far crescere l’Italia”, così si intitola il documento presentato ieri a Roma da Federculture. Si tratta delle prime proposte “ufficiali” che una importante associazione attiva in ambito culturale fa giungere al governo Monti. Il nuovo ministro della cultura, in effetti, si è caratterizzato sino ad ora per un certo immobilismo. Questo documento intende, prima di tutto, riportare il tema della cultura al centro del dibattito. Dopo l’assestamento dei conti pubblici, le liberalizzazioni (vere o presunte tali) e ora il mercato del lavoro, che il prossimo tema all’ordine del giorno sia proprio la cultura?
Se dovessimo presentare noi un documento forse lo chiameremmo “Far crescere l’Italia per far crescere la cultura”. Il primo punto da affrontare è infatti la crescita economica. Solo un contesto di prosperità può arrecare benefici alla cultura, sia in termini di produzione che di consumi culturali. In un paese povero o che non cresce anche il settore culturale ristagna. Sicuramente la cultura deve essere “liberata”, solo così può sprigionare il suo potenziale. Ma se parliamo di industrie culturali o di industrie creative, allora le cose utili per questi settori riguardano prima di tutto la nascita di un contesto che sia, per così dire, business friendly. Queste industrie hanno grandi margini di sviluppo, e possono rappresentare un fenomeno positivo in termini economici, ma necessitano che la cornice entro la quale operano sia favorevole: certezza del diritto, pubblica amministrazione efficiente, basso prelievo fiscale, poca burocrazia, ecc. Tutti ingredienti di libertà economica (per ora mancanti) che darebbero beneficio non solo a industrie culturali e creative ma a tutti i nostri settori economici. E se l’economia cresce allora ci saranno molte più risorse private da destinare in atti di mecenatismo, sponsorizzazione di restauri, conservazione e valorizzazione del nostro patrimonio culturale. Non solo, la ricchezza di un paese determina un aumento della produzione di cultura, oltre che della sua fruizione.
Di certo, qualsiasi riforma del settore culturale si abbia in mente, non si potrà ricorrere ulteriormente all’intervento pubblico, dato che la situazione delle nostre finanze è così disastrata che non consente un aumento degli stanziamenti. Da quest’ultima constatazione parte il documento di Federculture. Si tratta infatti di proposte minimali, che non pretendono unicamente di essere finanziate con altro denaro pubblico. L’obiettivo è quello di racimolare risorse dove si può, un po’ qua e un po’ là: dall’8 e dal 5 per mille, da Arcus e da fondi costituiti ad hoc. Gli interventi proposti hanno la finalità di razionalizzare e di gestire meglio l’esistente, di portare a termine l’iter di approvazione di alcune proposte di legge che giacciono in Parlamento, di eliminare quelle norme che pongono vincoli alla gestione della cultura (a livello locale) attraverso società in house o aziende speciali.
Speriamo di non essere troppo ingenerosi se diciamo che si tratta un programma assai modesto, che sicuramente nulla ha a che vedere con il titolo che è stato dato al documento. Un settore ingessato come quello dei beni e delle attività culturali avrebbe bisogno di interventi ben più drastici, data la situazione.
Volendoli riassumere per sommi capi, ecco un breve e non esaustivo elenco dei macro-interventi che si potrebbero compiere:
- La gestione del patrimonio e delle attività culturali deve essere affidata a soggetti altri rispetto a quelli pubblici. Il primo passo deve essere compiuto dallo Stato, che deve uscire dalla gestione diretta di siti e istituzioni culturali. Un primo e importante segnale potrebbe essere dato dalla stessa Pompei: esempio di malagestione e di mancata valorizzazione. La cui crisi (crolli e commissariamenti) ha avuto rilievo internazionale: un recente reportage di The Art Newspaper è stato ripreso anche dal blog Marginal Revolution. Si tratta di un evidente caso di cattiva governance. L’aver creato una soprintendenza autonomia prima ed aver commissariato il sito archeologico poi non ha prodotto effetti positivi. Come già si è sostenuto attraverso un paper dell’IBL, per Pompei andrebbe proprio mutata la forma di gestione e cambiati gli attori in campo. Lo stesso principio va attuato anche per i musei statali, che devono sganciarsi da una gestione diretta da parte dello Stato.
- Le Soprintendenze devono cessare di essere uffici periferici risalenti ad un potere decisionale centrale e trasformarsi in agenzie o cooperative preposte unicamente alla tutela, con una modalità di intervento che nelle sue linee generali è condivisa in tutte le regioni italiane, ma può specializzarsi in vario modo e a seconda dei contesti territoriali, senza far riferimento ad un tutore superiore che controlla e indirizza. Di fatto vengono meno gli istituti centrali, le direzioni generali e tutta la struttura ramificata che oggi compone il Ministero dei Beni culturali. A garantire standard comuni di ripristino del patrimonio, vi sarà un Consiglio superiore che ha il solo compito di approfondire la ricerca nazionale ed internazionale in materia di conservazione e rendere noti i parametri comuni, a cui le agenzie o le cooperative del restauro devono attenersi.
- I privati, ovvero liberi cittadini, imprese, cooperative, o quanto non sia direttamente riconducibile allo Stato, possono prendere in gestione i beni culturali, di qualunque livello e importanza. Va allargato il loro raggio di azione che ad oggi è troppo circoscritto: si pensi solamente al “pasticcio” creato intorno ai “servizi aggiuntivi”. I servizi aggiuntivi rappresentano la punta più avanzata dell’affidamento a privati for-profit. Per il resto abbiamo, oltre alla gestione diretta da parte della pubblica amministrazione, forme di cooperazione fra pubblico e privato (come le fondazioni di partecipazione). L’amministrazione pubblica dovrebbe invece divenire “leggera”, ritagliandosi un ruolo di regolatore/controllore, piuttosto che di operatore diretto.
- Di fatto deve decadere il principio di inalienabilità del patrimonio culturale pubblico, principio attraverso il quale si è preclusa la libera proprietà privata dei beni facendoli diventare non patrimonio comune, ma di fatto proprietà demaniale, proprietà di Stato. Alla base della normativa attuale (contenuta nel Codice dei beni culturali e del paesaggio) vi è la convinzione che la proprietà pubblica dei beni culturali garantisca due obiettivi: la fruizione dei beni da parte della collettività; la conservazione e l’integrità dei beni stessi. Ovviamente, sappiamo bene che questi due obiettivi sono ben lontani dall’essere realizzati: si pensi solamente alla mole di beni stipata in depositi e magazzini di musei pubblici (sono fruibili?); oppure al già richiamato caso di Pompei (il sito archeologico è ben conservato?).
- Il finanziamento pubblico alle istituzioni culturali deve essere pertanto messo radicalmente in discussione. Il sussidio diretto alle istituzioni culturali crea distorsioni, prima tra tutte fenomeni di rent seeking (caccia alla rendita) oppure di crowding out (il finanziamento pubblico allontana quello privato). Meno distorsivo sarebbe il sussidio alla domanda, ad esempio attraverso un sistema di voucher (“buoni”) culturali. I voucher riflettono maggiormente le preferenze della popolazione, mentre le sovvenzioni dirette spostano sul versante politico la decisione su quale forma d’arte meriti di essere sostenuta. Attraverso simili proposte, decade il principio oggi tanto diffuso del finanziamento pubblico al prestigio, ovvero il finanziamento di istituzioni culturali che vengono garantite e foraggiate dal sussidio pubblico soltanto in virtù del prestigio storico o politico che ricoprono.
Ottimo.
La cultura, insieme alla scuola e assistenza sono i settori in cui urge un rapporto di collaborazione tra sta stato e soggetti privati. Ci sarebbe un risparmio economico e soprattutto una qualità migliore perchè tali servizi sarebbero gestiti da persone più motivate