15
Ott
2020

Facciamo luce sul conviventismo: una replica ad Andrea Macciò

Le piccole e grandi limitazioni al modo in cui viviamo sono sempre una fonte di (in)sofferenza, tanto più quanto si protraggono nel tempo e tanto più quanto incerta è la situazione che li giustifica.

C’è un sentimento di “ingiustizia” latente nelle compressioni delle libertà magari di minor profondità ma di maggior impatto sulla quotidianità, come ad esempio l’uso della mascherina.

A questo sentimento generale, si deve aggiungere l’avversione dovuta alle iniquità, ai paradossi, alle inefficienze che le misure limitative producono. È una iniquità che alcune persone debbano recarsi sui luoghi di lavoro in autobus in cui non è consentito il necessario distanziamento. È un paradosso che i genitori non possano entrare in scuola e quindi si assembrino fuori all’orario di uscita dei figli. È una inefficienza che un sistema di tracing possa andare in tilt se facciamo “troppi” tamponi.

Inefficienze, iniquità e paradossi, in una gestione della pandemia, sono rischi all’ordine del giorno. Ciò tuttavia sembra molto lontano da forme di discriminazione e repressione come quella ipotizzata da Andrea Macciò.

Giustamente l’autore solleva il punto degli effetti assurdi dell’obbligo di mascherina in luogo aperto per i non conviventi, ma credo che il giudizio di oscurantismo provi troppo. Non credo, cioè, che la distinzione tra conviventi e no produca – più o meno intenzionalmente e direttamente – l’effetto di stigmatizzare stili di vita dal punto di vista sociale e morale. Molto più semplicemente, serve a evitare per quanto possibile un ulteriore effetto paradossale e svalutativo dell’obbligo generale di indossare la mascherina.

Infatti, la distinzione tra conviventi e no, nell’ambito dell’uso della mascherina, non dipende da un riconoscimento sociale e giuridico della convivenza rispetto ad altre forme. È vero, i coinquilini possono stare senza mascherina diversamente da una coppia sposata che vive in posti diversi. Ma non c’è alcuna discriminazione, perché il motivo è il fatto che dentro casa non si può imporre la mascherina, quindi è inutile imporla a chi vive insieme. Anzi, la convivenza come criterio derogatorio serve anche a evitare l’assurdità di una opposta condotta, di libertà dalla mascherina in casa, di obbligo fuori.

È chiaro che una norma del genere perde pezzi per strada: la coppia non convivente, quando entro a casa, farà quel che vuole; la qualifica di convivente sarà un’autodichiarazione di cui difficilmente si indagherà la veridicità. Ma c’è un momento in cui il legislatore deve tirare una riga tra le situazioni che sono dentro e quelle che restano fuori l’ipotesi contemplata. Per l’uso della mascherina, questa riga è stata messa, con tutte le incertezze e i paradossi di una condizione pandemica molto complessa, al punto in cui le situazioni non sono più verificabili, ovvero dentro casa. L’alternativa è ritenere che dovremmo poter decidere noi accanto a chi doverla indossare, o che non dovremmo essere tenuti ad usarla. Ma questo è un tema diverso dall’uguaglianza di tutti davanti alla legge.

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