16
Giu
2010

Europa e clima. Quando la mano destra non sa che fa la sinistra

Nonostante lo stallo raggiunto nelle settimane scorse, nei corridoi di Bruxelles l’ipotesi di alzare dal 20 al 30 per cento il target di riduzione delle emissioni non è ancora tramontata. C’è, all’interno dell’Ue, una forte lobby che spinge per rilanciare, nonostante il basso livello di probabilità di raggiungere un accordo a Cancun alla fine di quest’anno – cioè l’alta probabilità che l’Europa continui a trovarsi isolata sulla strada dei sacrifici unilaterali. Di questo atteggiamento ambiguo, oscillante tra il realismo della ragione e l’utopismo delle anime belle (ma non solo quelle), si trova traccia nella bozza delle conclusioni del Consiglio europeo, che dovrebbe concludersi domani. Le bozze – che Chicago-blog ha potuto vedere  in anticipo – sembrano scritte nella migliore tradizione democristiana, lasciano aperte tutte le porte.

Se la bozza resterà immutata, almeno nella sostanza, il documento chiede alla Commissione di intraprendere “analisi ulteriori” sulla fattibilità dell’obiettivo. La divisione tra gli Stati membri è molto più subdola e trasversale del solito: è difficile dire chi è contro e chi a favore – sebbene vi siano alcuni indubitabilmente a favore, e alcuni indubitabilmente contro. La lotta è intestina, interna ai singoli paesi: e si svolge secondo il copione consunto dei ministri dell’ambiente contro i ministri dell’industria, un copione che, con la nuova organizzazione della Commissione, trova rispondenza anche a Bruxelles, dove la DG Clima è portatrice di tutte le istanze che vengono puntualmente rifiutate dalla DG Industria.

Il problema è che lo scontro tra interessi è diverso rispetto al passato o, meglio, si è accentuato un fattore che prima non era di primaria importanza. Non è solo lo scontro tra lobby industriali – rinnovabili contro energy-intensive o roba del genere – e non è solo lo scontro tra paesi – Italia e Polonia contro UK e Spagna o giù di lì. C’è di più e di peggio. C’è, anzitutto, un derby tra la burocrazia europea e tutti gli altri. In un momento di crisi dell’Europa, la macchina infernale climatica rappresenta un forte elemento identitario, e dunque implica da un lato il rafforzamento del livello comunitario (altrimenti in deficit di credibilità) verso gli Stati membri, dall’altro il potenziamento del ceto burocratico. Se ogni burocrazia tende a massimizzare il suo potere e la sua influenza, questo è lo strumento per farlo e questo è il momento. Per perseguire questo obiettivo, la “struttura” fa leva, secondo me un po’ irresponsabilmente, su un sentimeno anti-industriale che in Europa è sempre più diffuso. In modo estremo, ne è testimonianza l’attenzione che i vari Jeremy Rifkin ricevono dalle parti di Bruxelles. Rifkin esprime in modo trasparente quello che è un pensiero ricorrente nei palazzi del potere comunitario, e cioè che, attraverso opportune misure e incentivi, sia possibile attraversare una “terza rivoluzione industriale”. Ora, è evidente che il linguaggio è allusivo ma il contenuto molto meno: per questi, la terza rivoluzione “industriale” consiste nel superamento dell’industria, e mi verrebbe da dire nel superamento della stessa natura umana, nella speranza di poterne sconfiggere la naturale tensione verso la crescita, il consumo e la soddisfazione di sempre più bisogni.

E’ un tema complesso, ma comunque si vogliano leggere i movimenti – non sempre limpidi – dell’Ue, mi pare che siano intessuti della materia evanescente di cui sono fatti i sogni. Sarà anche bello parlarne, ma quando si tenta di costruirci un edificio sopra si finisce a gambe all’aria.

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4 Responses

  1. francesco marangi

    Sarebbe interessante conoscere come votano, in materia ambientale, gli europarlamentari, i ministri e i funzionari italiani nelle diverse sedi istituzionali comunitarie.
    Qualcuno si è preso la briga di fare l’appello dei nostri e verificare come hanno risposto?

  2. Caber

    terza rivoluzione industriale… che termine poco azzeccato.

    le rivoluzioni industriali portano, attraverso innovazioni tecniche e grandi investimenti, a drastici aumenti di produttività, e non a riduzioni come nel caso delle fonti rinnovabili.

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