Estendere il Jobs ACT anche al pubblico impiego: una buona riforma per la prossima legislatura
Nella sua intervista dell’11 agosto al Mattino, il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia si è rivolto al governo e alle forze politiche, perché non “diano per fatte” le riforme, visto che la ripresa italiana c’è ma è pur sempre inferiore a quella europea ,e soprattutto ha gap molto più gravi da recuperare. E al taglio dei contributi per l’assunzione dei giovani Boccia ha aggiunto una proposta essenziale. Quella di compiere fino in fondo la riforma del Jobs Act, estendendone la piena vigenza al pubblico impiego.
E’ un tema su cui si discusse molto tra il 2014 e il 2015, da allora passato nel dimenticatoio. Ma è un tema sacrosanto. Perché pochi sembrano farci caso, ma il Jobs Act ha cambiato la disciplina dell’articolo 18 – ulteriormente riducendo la reintegra giudiziale, rispetto al primo intervento già avvenuto con il ministro Fornero – ma ovviamente si applica solo ai dipendenti privati assunti dopo la sua entrata in vigore e non ai già occupati che restano con la vecchia tutela; non estende ai lavoratori autonomi i suoi nuovi sostegno al reddito a chi perde l’occupazione (un passo avanti su questo è avvenuto in limine mortis del governo Renzi, grazie a Tommaso Nannicini); e non vale per tutti i dipendenti pubblici.
Siamo stati in pochi, anzi pochissimi, a chiedere pubblicamente sin dall’inizio che non avvenisse questo ulteriore frazionamento del mercato del lavoro, e questa asimmetria di tutele veramente dura da buttar giù. Oltre a sparuti liberisti come chi qui scrive, i professori Pietro Ichino e Luca Ricolfi, e pochissimi altri. Renzi per primo molto ha nicchiato. Mentre la sua ministra Madia da un certo momento in poi ha iniziato a dire che era ovvio il Jobs Act non valesse per il settore pubblico, e alla fine l’ha avuta vinta lei, interprete della stragrande maggioranza del Pd e dei sindacati tutti.
Non era affatto ovvio, innanzitutto, che il vecchio articolo 18 restasse automaticamente per i dipendenti pubblici. Tanto non era ovvio che la Cassazione, con la sentenza 24157/2015 che fece saltare sulla sedia tutti i sindacati del pubblico impiego, convenne proprio che era vero il contrario. E cioè che le successive riforme dell’articolo 18, tanto quella effettuata sotto la Fornero che quella disposta con il Jobs Act, si estendevano eccome al pubblico impiego. In quel caso si trattava di un dirigente di un consorzio pubblico siciliano licenziato dopo la riforma Fornero.
La Cassazione parlò con chiarezza: «l’inequivocabile tenore dell’articolo 51 del Dlgs 165/2001, cioè del testo unico del pubblico impiego, indica che lo Statuto dei lavoratori, con le sue successive modificazioni e integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti». Su questo presupposto, per la Cassazione del 2015, «è innegabile che il nuovo testo dell’articolo 18 riguardi anche gli statali, anche a prescindere dalle specifiche iniziative normative di armonizzazione» previste dalla riforma. Dove quell’accenno alle “specifiche iniziative normative di armonizzazione” era un rinvio implicito ai decreti attuativi della riforma Madia della PA, in maniera fosse inequivocabile l’allineamento al lavoro privato. Una preoccupazione, quella dell’armonizzazione, non casuale: perché numerose sentenze della Corte Costituzionale, che qui non vogliamo annoiarvi elencando (comunque ne parlammo qui e qua), negli anni hanno a maggioranza rifiutato comunque il pieno allineamento del rapporto di lavoro pubblico a quello privato. Tranne “esplicite armonizzazioni normative”, appunto.
Senonché siamo in Italia, e l’anno successivo la Cassazione mutò radicalmente idea, allineandosi all’indirizzo politico maturato nel governo Renzi, che escludeva appunto il Jobs Act valesse per il lavoro pubblico. E venne la sentenza 11868/2016, con la quale la Cassazione si appigliò proprio alla necessità di un esplicito e coerente intervento di armonizzazione, in assenza del quale restava preclaro che il rapporto di lavoro pubblico non era modificato né dalla riforma Fornero né tanto meno dal Jobs Act. La Cassazione 2016 richiamò esplicitamente la sentenza precedente, aprì all’opportunità di una successiva pronunzia delle Sezioni Riunite, ma proprio non se la sentì di convenire che il Jobs Act potesse applicarsi al lavoro pubblico.
Risultato: il governo Renzi non emanò alcuna armonizzazione, prevalse la paura elettorale degli statali, e la Cassazione si allineò. L’effetto è che, malgrado i rapporti di lavoro nel settore pubblico dopo il decreto legislativo 30 marzo 2001 n. 165, abbiano conosciuto un’assimilazione giuridica a quelli privati, di fatto sono solo chiacchiere perché il pubblico resta “diverso”. E, dispiace dirlo, l’aria che ha preso a tirare dopo la botta del 4 dicembre al referendum ha visto il Pd ingranare più volte la retromarcia, per esempio sulla scuola tornando con il ministro Fedeli al principio per cui i messi in ruolo non vanno dove le cattedre sono scoperte almeno all’inizio come prevedeva la “buona scuola”, bensì tornano a esprimere preferenze geografiche che prevalgono sin dall’inizio. Col risultato che in mezza Italia le cattedre restano scoperte, e nell’altra mezza molti vincitori di concorso non hanno cattedra.
A ben vedere, la proposta di Boccia è giusta poi non solo per la difformità della disciplina dell’articolo 18 tra dipendenti privati e pubblici. Come ha giustamente rilevato pochi giorni fa Sabino Cassese, la Pubblica Amministrazione continua nell’obbrobriosa prassi di valersi di centinaia di migliaia di lavoratori precari (che naturalmente non rientrano nella contabilità pubblica del totale del lavoro pubblico, di qui la pretesa della sua “enorme” discesa da 3,6 a 3,2 milioni grazie al blocco del turnover negli anni alle nostre spalle, aggirato spesso proprio grazie a nuovi pecari). I nuovi precari di questi anni della PA avrebbero avuto di che nettamente guadagnare, se a loro fosse stato esteso il contratto a tutele crescenti previsto dal Jobs Act per i neo assunti del privato.
Come si vede, superare la divisione antistorica tra contratti e diritti pubblici e privati non è affatto una maniera per abbassare a tutti le tutele. Al contrario: serve sia a evitare che il datore di lavoro pubblico sia avvantaggiato rispetto all’impresa privata, sia a garantire ai dipendenti pubblici le nuove tutele che sono di gran lunga meglio dell’illicenziabilità teorica. Chiederlo ai dipendenti delle ex Province, ancora esistenti ma dimagrite e senza soldi, per chi avesse dubbi. Ecco perché sarebbe un’ottima idea per la prossima legislatura, abbattere il muro tra lavoro pubblico e privato. Naturalmente: cercasi partito deciso a intestarsela. Ma questo è un altro paio di maniche
Più che di estendere i JobAct, sarebbe più logico e naturale abolire ogni difefrenza tra rapporto di lavoro pubblico e privato. Ma questo purtouppo ha un costo molto elevato, dovendo poi estendere al pubblico tutte le onerose tutele di cui gode il privato. Ad es. Cassa integrazione (ordinaria, straordinari e in deroga) mobilità, disoccupazione Naspi DsColl, applicare la detassazione degli straordinari e degli incentivi, abolire le trattenetute sulla malattia e la licenziabilità per non aver timbrato il cartellino. Sparirebbe anche il blocco dei contratti. Possiamo permettercelo, professore Giannino?
Abolire job act. Reintrodurre Art 18 x tutti. Questa la vera riforma.
A parte che il Jobs Act non mi convince e comunque estenderlo al pubblico impiego sarebbe controproducente per lo Stato,come afferma giustamente il lettore Gabriele.